Le fiamme piegano un Paese
non ancora diventato moderno
Diecimila pompieri sono troppo pochi per uno Stato così vasto e disseminato di boschi e torbiere. La rete delle infrastrutture al collasso malgrado gli introiti arrivati da petrolio e gas
di SANDRO VIOLA
MOSCA - Joe Biden, il vice presidente americano, aveva sfiorato l'anno scorso un grosso incidente diplomatico quando aveva detto che la Russia non sta in piedi. Che la sua popolazione continua a decrescere precipitosamente (140 milioni oggi,100 previsti per il 2050), la sua economia boccheggia, il suo sistema bancario non reggerà alle sfide dei prossimi anni. I russi s'erano molto arrabbiati, il progetto Obama-Hillary Clinton di riaggiustare il complesso dei rapporti russo-americani era parso in pericolo. Ma gli incendi che flagellano la Russia da settimane, la lampante incapacità dei responsabili centrali e regionali di farvi fronte, gli aeroporti chiusi, la nube di fumo che grava su Mosca, le vittime, i crematori che respingono le nuove bare perché già strapieni dei cadaveri degli anziani morti in questi giorni per il caldo e l'aria inquinata, tutto questo dimostra che Biden aveva ragione.
La verità, infatti, è che la Russia è un paese ancora in bilico tra la spaventosa arretratezza lasciata da sette decenni di comunismo, e i pochi, sconvinti tentativi che il regime di Vladimir Putin ha fatto dal 2000 ad oggi per portarlo nella modernità. Tutta la rete delle sue infrastrutture - condotte d'acqua, elettricità, trasporti, strade, fogne - è per vastissimi tratti vicina al collasso, nonostante gli enormi introiti da petrolio e gas venuti alle casse del regime tra il 2001 e il 2008. Lo si vede chiaramente in questi giorni. Due, dico due, elicotteri sorvolano la zona di Mosca per monitorare l'estendersi degli incendi. Diecimila pompieri, un numero irrisorio per un paese tanto vasto e disseminato di boschi e torbiere, cercano d'arginare le fiamme, senza che l'esercito sia ancora stato chiamato a intervenire. E infatti gli incendi continuano a moltiplicarsi, a causa anche dei venti da sud-est che spingono le fiamme sempre più vicino alla capitale.
Putin dovrà rinunciare quest'anno al suo rituale show estivo. Non cavalcherà a torso nudo nella tundra siberiana, nel suo stile machista-mussoliniano, seguito da un folto gruppo di fotografi precettati. Va in giro, certo, sui fronti degli incendi, promette una rapida ricostruzione delle case bruciate (tutte ancora di legno e prive di fognature, spesso isbe centenarie, nelle zone agricole), e soprattutto si lancia in dure filippiche contro le autorità regionali e locali, additate come responsabili di non aver circoscritto il disastro. Né più né meno come facevano i leader sovietici ad ogni sciagura nazionale: le colpe sempre in periferia, mentre al centro, al Cremlino, nessuna ammissione d'imprevidenza e corresponsabilità.
Non è certo, tuttavia, che i russi si sentiranno rassicurati anche stavolta alla vista del muscoloso torace del primo ministro. Stavolta, quel simbolo di vigoria fisica che aveva impressionato negli anni scorsi, dando ai russi la sensazione d'essere guidati da un uomo forte, rischia di servire a poco. Lo spettacolo d'imprevidenza e inadeguatezza dato dal governo è in effetti troppo vistoso, strepitoso. E gli umori dei russi si stanno guastando. Un lavoratore agricolo della zona di Tver ha scritto infatti su Internet un messaggio che riassume perfettamente la situazione. "Ai tempi del comunisti, avevamo un laghetto come riserva d'acqua contro gli incendi, una campana per lanciare l'allarme, e una pompa anti-incendi (sia pure una sola su ogni tre villaggi) per intervenire. Al posto di tutto questo, abbiamo adesso un telefono che aspetta ancora d'essere collegato alla linea del nostro capoluogo".
Beninteso, non si possono sottovalutare le gravi difficoltà che qualunque governo si sarebbe trovato di fronte. Ondate di caldo che non si registravano da 130 anni, un suolo torbaceo che trattiene le fiamme anche dopo che i gettiti d'acqua hanno spento l'incendio in superficie, i venti sempre favorevoli all'estendersi della catastrofe. Ma qui non si parla d'un piccolo paese e d'una piccola capitale. Stiamo parlando della Russia, la cui Banca centrale dispone di riserve che sono tuttora (benché erose dalla crisi del 2008) tra le più pingui del pianeta. Ma queste risorse non sono state utilizzate in tempo come avrebbero dovuto per rinforzare, ammodernare, le capacità d'intervento della protezione civile. In più, un sistema di governo supercentralizzato non ha consentito di dotare le regioni dei fondi necessari a munirsi di migliori mezzi anti-incendi. E il risultato è che Mosca, avvolta in un fumo biancastro, con la gente che non esce di casa, sembra, come scrivono i corrispondenti dei giornali stranieri, una città fantasma, con due dei suoi tre aeroporti civili che funzionano a singhiozzo, le ambasciate che cominciano ad evacuare il personale, mentre le compagnie aeree russe fanno pagare quasi 1.500 euro un posto in economica sui voli Mosca-Berlino.
Un disastro dell'anno scorso, l'esplosione della centrale idroelettrica di Sayamo-sushenka, con circa 80 morti, avrebbe dovuto insegnare qualcosa. I tecnici avvertivano da anni, infatti, che l'impianto si stava facendo sempre più insicuro, e necessitava perciò di urgenti lavori di ristrutturazione. Ma le relazioni tecniche erano scivolate alla russa, alla Gogol, dalle scrivanie della burocrazia regionale e moscovita, senza che si prendessero le misure richieste. E l'esplosione era venuta. Inutile dirlo, come ad ogni sciagura nazionale o attacco del terrorismo caucasico, l'assenza d'una vera, credibile commissione d'inchiesta resta la regola del regime. Nessun coinvolgimento d'esperti stranieri, nessun dibattito che coinvolga l'opposizione politica, il mondo accademico, i giornali. Solo le nuove foto di Putin a cavallo col torso nudo. Per molti versi (salvo che Breznev, Andropov e Cernienko non si facevano ritrarre senza camicia), gli usi dell'Unione Sovietica.
(08 agosto 2010) www.repubblica.it