di Alberto Mingardi 6 luglio 2010
Le due lettere al "Times" del 1932 che ilsole24ore.com traduce e pubblica testimoniano bene come certi dibattiti non muoiano mai. Per uscire dalla recessione è necessario aumentare la spesa pubblica? Oppure meglio sarebbe se gli Stati facessero un passo indietro, non solo per arginare la crisi della finanza pubblica ma anche per ristabilire le condizioni proprie dell'ordine di mercato?
Si potrebbe tornare indietro alla controversia fra mercantilisti e liberoscambisti, solo apparentemente chiusasi con la pubblicazione della "Ricchezza delle nazioni" di Adam Smith. Per i primi, la potenza di uno Stato si misura nella prevalenza delle esportazioni sulle importazioni. Cugino economico del nazionalismo, il mercantilismo è una dottrina che evoca il predominio di un Paese sugli altri. Al contrario, il liberoscambismo fa perno su un'idea positiva della cooperazione.
Siccome, come scrisse Adam Smith proprio all'inizio del suo grande libro, "sembra che il grandissimo progresso della capacità produttiva del lavoro e la maggiore abilità, destrezza e avvedutezza con le quali esso è ovunque diretto o impiegato siano stati effetti della divisione del lavoro", per il liberoscambista non c'è ragione che la divisione del lavoro debba fermarsi ai confini nazionali.
Per lungo tempo si credette che i liberisti smithiani avessero vinto questa disputa intellettuale, fin quando John Maynard Keynes non vantò positivamente l'eredità del mercantilismo. Raramente un libro ha trovato tanti discepoli nel ceto politico quanto "La teoria generale" di Keynes, e la ragione è ben evidente leggendo questa lettera al "Times". Se l'intervento dello Stato è cruciale per mantenere vitale un'economia, se il pareggio di bilancio non è più un vincolo, se più spesa significa una ripresa più veloce, la classe politica ottiene in buona sostanza un assegno in bianco. Qualsiasi tipo di intervento servirà ad evitare il "martirio" del Paese.
L'apparato teorico su cui si basa la risposta di Hayek e Robbins è molto diverso. E' forte anzitutto di una teoria per cui il ciclo economico non è provocato da qualche misterioso fallimento dell'economia di mercato, bensì è figlio di una espansione monetaria che ha distorto i segnali di mercato. Semplificando la teoria del ciclo di Hayek e del suo maestro Ludwig von Mises, se non vi fosse un'espansione del credito bancario domanda ed offerta tenderebbero all'equilibrio attraverso il sistema dei prezzi, sarebbe impossibile avere fasi di forte boom e di conseguenza non si porrebbe le necessità di robuste correzioni. Tuttavia, le banche centrali stimolano l'espansione del credito bancario. L'espansione di moneta bancaria provoca l'aumento dei prezzi e abbassa artificialmente il tasso di interesse al di sotto del livello che si sarebbe stabilito in un libero mercato.
Vedendo il tasso d'interesse diminuire, gli imprenditori investono di più in beni capitali. Essi, insomma, "sedotti" dalla moneta facile, agiscono come se fossero disponibili più risparmi da investire di quanti non ve ne siamo. Tuttavia man mano che la nuova moneta filtra attraverso il sistema, diviene chiaro che i risparmi erano presenti in quantità inferiore, e pertanto che si è investito male il risparmio disponibile. Il boom inflazionistico induce delle distorsioni dei prezzi del sistema produttivo e la "depressione" diventa allora l'inevitabile momento riequilibrante, nel quale l'economia si affranca dagli eccessi e dagli errori del boom.
Questo non significa che Hayek, Plant e Robbins non avessero a cuore l'uscita della Gran Bretagna dalla durissima fase in cui piombò dopo il 1925. Né che essi, come scrivono, credessero che la deflazione fosse in sé desiderabile.
Dal momento che "non bisogna sprecare una buona crisi", ritenevano che per uscire dall'impasse fosse più opportuno liberare le energie vive del settore privato: abolendo le restrizioni allo scambio e all'attività imprenditoriale, non esibendo la soluzione "muscolare" di un maggiore intervento pubblico.
Per gli uni, l'interventismo era la soluzione. Per gli altri, era il problema. Dal momento che anche i decisori politici sono autointeressati, è facile indovinare quale delle due visioni del mondo abbia avuto più fortuna. Non certo quella che limitava l'azione e le promesse spendibili da parte dei pubblici poteri. Ma siccome le politiche mercantiliste prima e keynesiane poi hanno appesantito i bilanci pubblici e quindi impoverito l'economia privata in più di una occasione, la partita davvero non è chiusa ed è bene che aperto rimanga il dibattito.
www.ilsole24ore.com