LA DENUNCIA
Adriatico, allarme trivelle
petrolio e scarti pericolosi
Il governo Berlusconi ha autorizzato 16 attività di ricerca in mare. In realtà l'"oro nero" del basso Adriatico è di cattiva qualità. Ma l'estrazione necessita di materiali che mettono gravemente a rischio la salute e l'ambiente
di ANTONIO CIANCIULLO
TURISMO o petrolio? Sulle coste adriatiche si leva, con una certa frequenza, la protesta contro le pale eoliche, parte importante del progetto di fuoriuscita dall'era del carbonio: sono accusate di difendere il clima ma di ledere il paesaggio. Pochi, però, sembrano considerare le trivelle petrolifere un oggetto antiestetico. Fa eccezione un breve studio condotto da due parlamentari del Pd, Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, che non solo riassume i numeri di una vicenda poco nota ma fornisce un quadro che va oltre l'aspetto paesaggistico mostrando il costo in termini economici, ambientali e industriali di una scelta che sembra mirare a trasformare lo scenario dell'Adriatico in quello del Mare del Nord.
L'ultimo atto di questa vicenda è giudiziario: il Tar di Lecce ha ordinato la sospensiva del decreto ministeriale sui lavori preliminari per la ricerca di idrocarburi nel mare pugliese. La Regione Puglia, assieme ai Comuni di Fasano e di Ostuni, aveva presentato ricorso contro un provvedimento del ministero dell'Ambiente. Per il ministero dell'Ambiente i lavori per l'estrazione di idrocarburi ordinati dalla società britannica Northern Petroleum non creavano problemi. Il Tar è stato di avviso contrario.
E' solo un caso tra tanti. Il governo Berlusconi, che ha a lungo osteggiato l'affondo europeo per arrivare a una più forte politica di difesa della stabilità climatica, ha autorizzato 16 attività di ricerca di petrolio in mare. Nel frattempo 10 procedure di VIA (la valutazione d'impatto ambientale) e 3 verifiche di "assoggettabilità a VIA" sono in corso. A far la parte del leone - nota lo studio - sono le aziende petrolifere straniere: Norther Petroleum, Petroceltic e Puma Petroleum. Queste società sono attive soprattutto in Adriatico ma anche in Sardegna, al largo delle spiagge del Sinis, in un angolo di paradiso che dall'isola di Mal di Ventre corre fino alle coste di Bosa. Sempre in Sardegna la Saras ha un permesso di prospezione nel golfo di Oristano e nelle acque a sud dell'isola.
Ma vale la pena bucherellare in questo modo i fondali marini spargendo impianti di estrazione un po' ovunque? In realtà il petrolio del basso Adriatico è di cattiva qualità: è bituminoso, ha un alto grado di idrocarburi pesanti, è ricco di zolfo. Ma di alto impatto ambientale. "Il prodotto di scarto più pericoloso è l'idrogeno solforato, dagli effetti letali sulla salute umana anche a piccole dosi", si legge nello studio. "L'Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda di non superare 0.005 parti per milione (ppm), mentre in Italia il limite massimo previsto dalla legge è pari a 30 ppm: ben 6000 volte di più. In mare addirittura non ci sono limiti in Italia.
Le attività di perforazione e produzione di petrolio dal fondo marino contribuiscono per il 2% all'inquinamento marino. Questo 2% va sommato al 12% dovuto agli incidenti nel trasporto marittimo, si aggiunge il 33% per operazioni sulle navi relative a carico e scarico, bunkeraggio, lavaggio, scarichi di acque di sentina o perdite sistematiche, che porta al 45% l'apporto complessivo di inquinamento dovuto a perdita dalle navi."
A completare il quadro del'impatto ambientale ci sono i "fluidi e fanghi perforanti" usati per portare in superficie i detriti. Sono fanghi tossici e difficili da smaltire: contengono tracce di cadmio, cromo, bario, arsenico, mercurio, piombo, zinco e rame. Questi elementi pesanti sono nocivi e si accumulano nel corpo del pesce che mangiamo.
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(24 marzo 2010)