Gli effetti collaterali del ddl: criminali favoriti, vittime penalizzate
Bolzano e Torino insegnano come si possono ridurre davvero i tempi
LUCA RICOLFI
ROMA
www.lastampa.itSe il Parlamento approverà il disegno di legge sul «processo breve» ancora una volta Silvio Berlusconi potrà sottrarsi ai procedimenti giudiziari in cui è coinvolto, ossia processo Mills e fondi neri Mediaset. Questo, apparentemente, è il succo di quel che sta accadendo. Se fosse solo questo, però, non ci sarebbe proprio nulla di nuovo, visto che sono anni e anni che, di riffa o di raffa, il nostro dinamico presidente del Consiglio riesce a sgusciare come un’anguilla fra le trappole che i magistrati depongono gentilmente lungo il suo cammino.
E sono anni e anni che gli italiani lo rivotano e lo rieleggono serenamente, per niente turbati dal conflitto di interessi, dallo strapotere mediatico, dalla guerra alla magistratura. E invece non si tratta solo di questo. Liberare Berlusconi dai suoi processi era il succo del cosiddetto lodo Alfano, recentemente bocciato dalla Corte costituzionale. Se fosse passato, l’unico effetto tangibile sarebbe stata la non procedibilità del presidente del Consiglio, visto che le altre cariche dello Stato protette dal lodo Alfano non hanno guai con la giustizia. Con il «processo breve» è diverso. La sfida di Berlusconi alla Giustizia fa un salto di qualità. Perché se passerà il disegno di legge presentato ieri l’effetto più importante non sarà di salvare Berlusconi (che un modo per salvarsi comunque lo trova sempre) ma sarà di umiliare e scassare ulteriormente la macchina della Giustizia. Il processo breve, infatti, si applica ai processi futuri, ma anche a una parte dei processi in corso. Difficile dire fin d’ora a quanti e a quali, ma è certo che molti processi salteranno, con il duplice effetto di rimettere in libertà dei delinquenti e di non rendere giustizia alle loro vittime.
Una lista circolata in queste ore include quelli su scalate bancarie (furbetti del quartierino) e affare Telecom (dossier illeciti). Secondo i vertici del sindacato dei magistrati, sono a rischio di prescrizione una moltitudine di procedimenti che riguardano reati gravi quali: abuso d’ufficio, corruzione semplice e in atti giudiziari, rivelazione di segreti d’ufficio, truffa semplice o aggravata, frodi comunitarie, frodi fiscali, falsi in bilancio, bancarotta preferenziale, intercettazioni illecite, reati informatici, ricettazione, vendita di prodotti con marchi contraffatti, traffico di rifiuti, vendita di prodotti in violazione del diritto d’autore, sfruttamento della prostituzione, violenza privata, falsificazione di documenti pubblici, calunnia e falsa testimonianza, lesioni personali, omicidio colposo per colpa medica, maltrattamenti in famiglia, incendio, aborto clandestino.
Forse i magistrati esagerano, ma è difficile negare che una sorta di amnistia, o di depenalizzazione di fatto, potrebbe graziare migliaia di imputati. Niente male per un governo che ha fatto della lotta alla criminalità uno dei propri obiettivi prioritari. Ma non è tutto. Insieme al danno arriva la beffa. Ci raccontano infatti che le norme sul processo breve vengono introdotte per «adeguarci all’Europa», che ci ha redarguiti innumerevoli volte per la lentezza dei nostri processi. Così, per una sorta di miracolosa «eterogenesi dei fini», una norma concepita per un fine particolare (salvare Berlusconi) si rivelerebbe, a ben guardare, di interesse generale (dare ai cittadini una giustizia più veloce). È vero, un po’ di delinquenti eviteranno il carcere ma almeno i cittadini avranno, finalmente, una Giustizia efficiente e veloce.
Basta però avere un minimo di conoscenza dei problemi della Giustizia per sapere che non è così. Se i processi sono lenti dipende certo anche dalle procedure, come amano pensare i politici, e dalle risorse economiche, come amano pensare i magistrati. Ma la causa più importante, nel senso che ha l’impatto più grande sulla durata, è la disorganizzazione degli uffici, sia nella giustizia civile sia in quella penale.
Lo dimostrano i rari esempi di ristrutturazioni di successo (Torino con il procuratore Maddalena e il presidente Barbuto, Bolzano con il procuratore Tarfusser), ma soprattutto lo dimostrano gli enormi divari di produttività fra distretti di Corte d’Appello (vedi cartine). Come è possibile che, a parità di risorse, l’output della giustizia civile di Torino sia 7 volte quello di Caltanissetta? Com’è possibile che, sempre a parità di risorse, l’output della giustizia penale in Lombardia sia 5 volte quello del Mezzogiorno? Stabilire per legge che i processi non possono durare più di un certo tempo massimo (6 anni, o qualsiasi altro «tetto») può avere un valore simbolico, di principio, ma di per sé non ha effetti pratici rilevanti se non quelli di vanificare una enorme quantità di lavoro già fatto e aumentare l’insicurezza dei cittadini.
Per questo capisco l’amarezza dei magistrati, che pure hanno non poche responsabilità nell’attuale disastro della giustizia. Ma ancora di più capisco l’amarezza dei cittadini, o perlomeno di quella parte di essi che si sente presa in giro. So bene che salvare o no Berlusconi dai processi che lo perseguitano è questione che non interessa a tutti, e su cui le opinioni divergono. Almeno, però, non ci vengano a dire che lo fanno per amore nostro.