IL COMMENTO
IL PESO DELL’ASTENSIONISMO «COMANDATO»
PIERO OSTELLINO
Agiudicare dai commenti dei diretti interessati, le elezioni amministrative italiane le hanno vinte tutti, salvo – nel giudizio di ciascuno di loro – il pregiudizio che le ha perse l’avversario. Le ha vinte il Partito Democratico, che si consola (?) di aver perso oltre quattro milioni di voti con la constatazione di aver «tenuto» rispetto alle previsioni che lo davano in rotta. Della serie: prendo per buona la voce che scenderò sotto una certa percentuale; poi, a elezioni avvenute, se avrò ottenuto una percentuale superiore vuol dire che ho vinto, anche se ho perso. Le ha vinte il Popolo della Libertà – che di voti ne ha persi oltre due milioni – ma che si consola (?) a sua volta perché ne ha persi meno del PD. Qui, la serie è alla rovescia: metto in giro la voce che vincerò con una certa percentuale; poi, a elezioni avvenute, se avrò ottenuto una percentuale inferiore, ma superiore al mio avversario, avrò vinto lo stesso.
Ora, che il PDL abbia vinto le elezioni non ci piove, ma, allora, bisogna distinguere fra voto «virtuale» – i sondaggi e le previsioni della vigilia – e voto «reale», i risultati usciti dalle urne, e attenersi solo a questi ultimi senza abbandonarsi al confronto fra ciò che sarebbe dovuto essere e ciò che è stato perché discutere del sesso degli angeli non ha alcun senso. I soli che possono dire di aver vinto sul serio sono la Lega di Bossi, l’Italia dei Valori di Di Pietro e, nel suo piccolo, l’Unione Democratica di Centro di Casini. Ma si tratta di aggiustamenti all’interno dei due schieramenti che non cambiano il quadro politico, ma solo gli equilibri interni a maggioranza di Governo e minoranza di opposizione.
In realtà, se si guarda ai numeri reali, non alle percentuali, si scopre che hanno perso tutti, anche quelli che, fatti i conti, hanno vinto. Karl
Marx, che, se non proprio di elezioni, di cose del mondo se ne intendeva, sosteneva che bisogna sempre tenere d’occhio i sommovimenti della società (ciò che lui chiamava «la struttura») – i soli che dessero la temperatura degli umori del popolo in una prospettiva rivoluzionaria – invece che il potere («la sovrastruttura»), i rapporti di forza fra i potentati del momento. Se si applica la regola marxiana all’esito delle elezioni amministrative, oltre che di quelle per l’Europa, si scopre che «il popolo è in marcia» e che la politica segue nelle retrovie.
L’astensionismo è in aumento. Non è momentaneo disinteresse, contingente disaffezione. È un partito. Che non rifiuta la Politica, ma fa politica nel solo modo che, ormai, è consentito al popolo sovrano di fare. È in crisi la democrazia rappresentativa. Lo aveva già intravisto Benjamin Constant agli inizi dell’Ottocento, nei «Principi di politica» (1806), analizzando gli esiti della Grande Rivoluzione del 1789; lo aveva paventato Alexis de Tocqueville, dopo il viaggio negli Stati Uniti, nella «Democrazia in America» (1835). Una parte crescente del popolo ritiene che i suoi rappresentanti (i politici) lo abbiano spogliato della propria sovranità, che non si limitino a «esercitare» il potere di governare – che rimane formalmente del popolo – ma governino ignorandone la sovranità e le domande. Non siamo alla vigilia di una rivoluzione di quelle che scoppiavano nell’Ottocento e nei primi del Novecento, ma, forse, e non è necessariamente un male, siamo entrati in una nuova fase rivoluzionaria. Apro una parentesi sulle elezioni europee per chiarire il concetto.
La stragrande maggioranza degli europei – che si è astenuta ancor più degli italiani – non ha ancora capito che cosa sia, e che cosa faccia, l’Europa; gode volentieri, senza neppure accorgersene, dei benefici che essa offre – caduta delle frontiere fra un Paese e l’altro, moneta unica che facilita gli scambi e la libertà di movimento, stabilità finanziaria – e soffre, contemporaneamente, di tutto ciò che essa percepisce come un «sistematico abuso della Ragione», quello stesso abuso che ha generato i mostri del XX secolo: vocazione tecnocratica, pianificatoria, dirigista. Non sa se l’Europa convenga o no; se sia al servizio della gente o se la gente sia al suo servizio. Nessuno lo dice; non perché sia difficile dirlo, bensì perché – questo pensano molti europei – prevale la retorica di maniera, l’europeismo di facciata, sulle «dure repliche della storia» (le sconfitte di un processo realmente federalista), sul «senso comune» (la realtà come è, non come si vorrebbe che fosse) e, forse, perché neppure conviene prendere atto che l’ «Europa dei popoli» non è nata e, al suo posto, c’è un compromesso fra quella dei Governi e l’eurocrazia di Bruxelles.
L’esempio delle europee vale, pari pari, anche per l’esito delle consultazioni sul piano delle politiche nazionali e su quello della amministrative italiane. Con la sola eccezione della Grecia e della Slovenia, i partiti socialisti, o genericamente collettivisti, statalisti, dirigisti, keynesiani, escono sconfitti dalle elezioni. Eppure, classe politica, intellettuali, media, avevano attribuito, fino al giorno prima, al libero mercato la crisi economica e invocato più Stato; che, poi, nella percezione della gente, che già ne soffre gli eccessi, vorrebbe dire più spesa pubblica, più sprechi, più parassitismo, più privilegi per la classe politica, più tasse. Che fra la protezione pubblica dello Stato e la libertà del mercato sarebbe scoppiata una contraddizione insanabile lo aveva teorizzato, già a metà dell’Ottocento, Frederic Bastiat, in tutta una serie di pamphlet polemici in difesa della libera concorrenza e contro lo statalismo. Il popolo, ora, si è rivelato più saggio dei suoi governanti, pur non avendo mai letto Constant, Tocqueville, Bastiat, che ne avevano intravisto il comportamento, il che fa ancora più onore a questi grandi del pensiero liberale la cui rilettura farebbe un gran bene alla classe politica di ogni Paese.
Un’ultima annotazione sulle elezioni amministrative italiane. Il forte astensionismo ha certamente danneggiato i due partiti maggiori, il Popolo della Libertà, il Partito democratico, più che quelli minori che, forse, ne hanno addirittura avuto giovamento. Ma ha danneggiato, probabilmente, più il PDL di Berlusconi che il PD di Franceschini. La Sicilia ha fatto registrare la più alta percentuale di astenuti, rispetto al resto dell’Italia; quasi venti punti di differenza fra la media nazionale e quella siciliana. Ora, è opinione diffusa, fra gli osservatori più smaliziati di cose italiane, che questo risultato confermi il postulato che, in fondo, a decidere dell’esito delle elezioni nazionali in Italia sia sempre, direttamente o indirettamente, la mafia siciliana. Come? Facilitando la vittoria – con i voti che essa controlla – di un partito piuttosto che di un altro, oppure semplicemente danneggiandone uno, pur consentendogli di vincere ugualmente le elezioni. Come? Con l’astensionismo «comandato».
Non ci sono evidenze empiriche che suffraghino la tesi, ma è indubbio che il Popolo della Libertà, senza l’astensionismo siciliano, avrebbe guadagnato almeno, se non di più, due punti in percentuale e si sarebbe avvicinato a quel trionfo che lo stesso Berlusconi aveva previsto alla vigilia. In conclusione: in generale, il popolo è stato più saggio dei suoi governanti, disertando le urne per protestare contro la spogliazione della propria sovranità. In questo caso, Humphrey Bogart direbbe: «È la democrazia, bellezza». Ma, sempre che la tesi del peso della mafia sulle elezioni sia vera, ha anche mostrato, con il caso siciliano, qual è la sua intrinseca debolezza: che sono sempre le «avanguardie» – intellettuali (come sosteneva Mosca), rivoluzionarie (come sosteneva Lenin), criminali (come vuole la tradizione in Sicilia e, di riflesso, in Italia) – a guidarlo e a fare la storia (in quest’ultimo caso, inutile dirlo, con la S minuscola).
Piero Ostellino,
Corriere del Ticino