Brunetta: «È un momento magico, l'Italia cambia. Tremonti? A volte è tenero»
Il ministro della Pubblica amministrazione: «D'Alema non mi è simpatico. E sull’energumeno non è finita qui»
Renato Brunetta è in tour pre-elettorale sulle Langhe. Si apre una bottiglia di Fallegro Gagliardo, uno dei suoi vini preferiti. Rilegge le bozze del prossimo libro, in uscita la prossima settimana da Mondadori: Rivoluzione in corso. E ne sintetizza così lo spirito: «L’Italia sta vivendo un momento magico. Una grandissima transizione in positivo. Un’enorme voglia di cambiare, di non essere più l’Italietta del passato, di diventare diversa, migliore. Il governo ha tanto consenso proprio perché Berlusconi, con i suoi istinti, per primo ha capito questa voglia di cambiamento».
Momento magico? E la crisi, ministro? Il terremoto?
«È vero, ne stiamo vivendo di tutti i colori. È un Camel Trophy. Eppure, in questo anno sfortunatissimo, il governo Berlusconi è l’unico a veder crescere un consenso già alto. Perché intercetta il ' mood', il ' sentiment'. E l’Abruzzo, come prima Napoli, diventa il simbolo del cambiamento. Stavolta lo Stato ha fatto il suo dovere. Per la prima volta dall’unità, di fronte a una catastrofe l’Italia ha funzionato. Ha reagito come un Paese serio, efficiente, coeso».
E più povero.
«Non è così. La crisi ha impoverito 5-600 mila lavoratori dipendenti che hanno perso il posto, pur potendo contare su cassa integrazione e indennità di disoccupazione. Ma gli altri 14 milioni di lavoratori dipendenti vedono crescere il potere d’acquisto: i loro redditi sono stabili, anzi per i 3 milioni e 650 mila dipendenti pubblici crescono con il nuovo contratto; ma spendono meno per prezzi, tariffe, mutui. La crisi produce paradossalmente un effetto ricchezza».
Però l’economia è ferma, il Pil diminuisce.
«Perché hanno paura. L’effetto ricchezza è in stand-by perché finora si traduce in risparmio, non diventa consumi né investimenti, finanziari o reali. La gente non sa che fare; i Bot non rendono un tubo; c’è ancora sfiducia. Ma sta cambiando tutto. I segni ci sono già. Con la buona stagione, il clima, il turismo, la mobilità, sono certo che il risparmio da paura si muterà in consumi e investimenti da fiducia».
Il suo libro, un diario di bordo lungo un anno, comincia con la parola- chiave: fannulloni.
«L’ho pronunciata dopo il giuramento del governo. Già a maggio, il mese dell’insediamento, le assenze diminuiscono del 10,9%. A giugno, meno 22,4. A luglio tra il 37 e il 40. Agosto e settembre sono sopra il 44. E la tendenza continua. All’Ispra, l’istituto per la protezione e la ricerca ambientale, le assenze sono diminuite del 94%. In molti enti siamo sopra il 70. Posso dirlo? Che schifo».
Questa campagna l’ha fatta amare da molti, ma anche detestare dai dipendenti pubblici. O no?
«Proprio no. A parte il fatto che, come professore universitario, appartengono anch’io alla categoria, lei non ha idea di quanti mi fermano per strada e mi dicono: 'Sono un dipendente pubblico; vada avanti'. Perché li sto liberando dalla fatica di lavorare anche per i fannulloni».
Lei cita minacce e insulti ricevuti, ma pare che le abbia fatto particolarmente male la battuta di D’Alema: energumeno tascabile.
«Sì. Non per il tascabile: sorridere è lecito, lo faccio anch’io. Per l’energumeno; come se fossi un violento, quando sono io a vivere sotto scorta dall’83, quando collaboravo alle politiche del lavoro di Craxi. D’Alema ha poi peggiorato le cose mandandomi un biglietto di scuse. Insulti pubblici, riparazione privata. E no! Non è finita qui».
Di solito a destra D’Alema è molto apprezzato.
«A parte il fatto che non sono di destra ma liberalsocialista, come lo è questo governo; a me D’Alema non è simpatico. Presume troppo da se stesso».
Però la statura per lei ormai non è un problema.
«Ci scherzo su. La migliore è quella di Afef che per darmi un bacio sulla guancia si sbuccia un ginocchio. Però non tollero diventi una discriminante razzista».
Un altro personaggio che lei critica, sia pure senza toni polemici, è il Papa: «È straordinariamente attento alla realtà politica e sociale del nostro Paese...».
«A differenza di D’Alema, Benedetto XVI mi è simpatico. Però speravo si occupasse di più delle grandi questioni universali. Io sono un laico mangiapreti ma anche un grande estimatore del ruolo sociale della Chiesa. Però: 'Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio'. Ognuno faccia bene il suo mestiere».
Si aspettava un’accoglienza migliore ai Didoré, il progetto suo e di Rotondi sulle coppie di fatto?
«No. Ho dato forma a cose che avevo sempre scritto; così come resto referendario. È stato un esercizio di libertà, che non riguardava solo i gay. Sapevo che il programma di governo era altro».
Per Tremonti ha parole agrodolci.
«Lo considero il miglior ministro dell’Economia del G-20, per esperienza, competenza e visione. Ma abbiamo due nature e due caratteri opposti. Lui ha asperità caratteriali che ne rendono difficile la relazionalità. A volte però è tenero».
Cosa intende quando definisce un errore aver imposto le stesse regole del Nord al Sud?
«Con la battaglia per la trasparenza, questo è il punto-chiave del libro. Sin dall’unificazione, l’asticella è stata messa troppo in alto; e la società civile c’è passata sotto. Oggi il Sud è una grande occasione di sviluppo. Purché si differenzino i salari, non tornando alle vecchie gabbie ma legandoli alla produttività. E si faccia il federalismo fiscale, che responsabilizzerà gli amministratori. Tra cui consiglio di tener d’occhio Lombardo: uno in gamba».
Erano davvero «orribili», come le definisce, le gondole che da ragazzo vendeva sulla bancarella a Venezia?
«Orribili, sì. Plastica. Ne tengo una sulla scrivania di ministro. Ma meravigliose, perché mi hanno dato di che vivere, e di che studiare».
Coprotagonista del libro, a cominciare dalla dedica, è Titti.
«È la mia compagna, la amo, e presto la sposerò».
Dove vi siete conosciuti?
«In un vivaio. Lei fa l’arredatrice di interni. Io sceglievo le piante per casa mia. Ci hanno fotografati la prima volta il 2 giugno, nei giardini del Quirinale. Lei alta, bionda, bella; io no. La foto è stata pubblicata senza didascalie. Nessuno ha avuto il coraggio di riferire i commenti fatti in redazione».
Lei scrive di aver declinato molti inviti nei salotti.
«Rispetto chi ci va, ma non li amo. Ho detto sì un paio di volte, mi sono ritrovato su Dagospia, e me sono pentito amaramente. Giusta nemesi. Dagospia è la catarsi di una certa Italia. E io certi inviti non li accetterò più».
Aldo Cazzullo
19 aprile 2009
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