Ma Obama non è Kennedy
Gerardo Morina
Ormai gliel’hanno detto in molti, in troppi perché lui, Barack Obama, unico candidato democratico alla Casa Bianca dopo la sconfitta di Hillary Clinton, non si autoconvinca di essere quasi una reincarnazione di un Kennedy. Anzi, fu lui per primo, nel discorso di Des Moines dello scorso gennaio, a incoraggiare il paragone: «Sarò il primo presidente nero, come John Fitzgerald Kennedy fu il primo cattolico», disse.
A dargli man forte, nello stesso periodo di tempo, ecco poi Ted Sorensen , vale a dire il più stretto collaboratore di John Kennedy, esprimersi con un giudizio che avrà una decisa influenza sulla scelta del clan Kennedy nel fornire il proprio appoggio ad Obama: «John Kennedy e Barack Obama hanno un numero impressionante di punti in comune, capaci di sedurre e di entusiasmare folle sempre più grandi e sempre più giovani di americani».
A distanza di pochi giorni, precisamente il 27 gennaio, ecco ancora comparire sul «New York Times» un editoriale a firma di Caroline Kennedy, in cui la cinquantenne figlia di John esortava l’America ad eleggere Barack Obama, da lei definito «un presidente come mio padre». Non stupì quindi che, quattro mesi dopo, l’attuale capo-clan dei Kennedy, il senatore Edward, elargisse il suo sostegno morale e materiale al candidato di colore sulla base del fatto che «Obama è il nuovo John Kennedy». Fino ad arrivare ai giorni scorsi, quando l’«Huffington Post», uno dei più influenti e seguiti blog politici americani, sparge la voce che la stessa Caroline potrebbe diventare presto la vice di Obama. Per il blog è anzi più di una voce perché, scrive, «Caroline è la persona scelta dal fato per portare a compimento lo storico lascito politico e ideale dei Kennedy, interrotto da troppe tragedie». A questo punto, soprattutto se la voce avrà un riscontro concreto, il mito Obama-Kennedy è costruito ad arte e risulta difficile da smuovere.
La verità è tuttavia molto più complicata e scomoda del mito. Fa crollare il castello di carte se si osserva che Caroline Kennedy, pur vivendo nella naturale idealizzazione del padre, nella sua prima discesa in campo politico compare soprattutto nella veste di esecutrice della scelta compiuta dallo zio Edward? Scelta, peraltro, che avrà senz’altro la sua dose di idealismo, ma che da parte del capo-clan dei Kennedy è avvenuta essenzialmente in funzione anti- Hillary, suggellando all’interno del partito democratico la fine del clan Clinton (ideologicamente più moderato) con la reinstaurazione del clan Kennedy, oggi nella persona del senatore Edward, su posizioni nettamente più «liberal», ovvero di sinistra radicale.
Che poi il mito Kennedy il quale, come tutti i miti, è tanto più potente in quanto legato a personaggi immaturamente e tragicamente scomparsi, si sviluppi ancora una volta, questo indica non solo la necessità insopprimibile di far rivivere un passato considerato glorioso, ma il profondo e naturale senso di nostalgia del popolo americano, nutrito per riflesso anche da coloro che non erano nati quando i due fratelli Kennedy, John e Bob, vennero a distanza di cinque anni assassinati.
Certo, a ben guardare, le analogie non mancano.
Obama e John Kennedy (ma forse più ancora Bob) incarnano la giovinezza, il carisma, l’eloquenza e il messaggio di cambiamento e di «nuove frontiere» che tanto catalizzano gli americani e non solo loro. Obama viene descritto come il personaggio portatore del nuovo e della speranza e il suo messaggio ha un valore comune a quello di JFK. E certo, al di là del fascino mondiale che la presidenza Kennedy, anche grazie a Jacqueline, poi emanò, sconvolgerebbe nuovamente il mito osservare che Kennedy vinse la Casa Bianca perché in campo repubblicano Ike Eisenhower (personaggio allora molto più popolare di lui) non poté ripresentarsi avendo già esaurito due mandati presidenziali e il candidato repubblicano da sconfiggere divenne Richard Nixon, al quale lo stesso Eisenhower negò il suo totale appoggio.
Ma anche le analogie Obama-Kennedy finiscono presto con l’esaurirsi se si considerano invece le diversità che separano i due. In un articolo scritto per il periodico «Washington Monthly», Ted Widmer, già estensore dei discorsi di politica estera di Bill Clinton, fa notare che chiunque abbia conosciuto il giovane Kennedy non può non ricordarlo come uno statista estremamente informato ed esperto prima ancora di arrivare alla Casa Bianca. Questo grazie soprattutto al fatto che, avendo avuto un padre ambasciatore degli Stati Uniti, John Fitzgerald Kennedy entrò alla Casa Bianca con un bagaglio di viaggi e di conoscenze che gli consentirono di maneggiare con competenza la politica estera del tempo, anche se non fu esente da passi falsi come la disastrosa decisione dello sbarco della Baia dei Porci a Cuba.
A parte il suo prolungato soggiorno giovanile in Indonesia, osserva Widmer, Obama è invece digiuno sia di grandi viaggi sia di conoscenze specifiche in politica estera, caratteristiche che non per questo gli precludono la presidenza ma che comunque non possono far reggere un confronto con Kennedy. Saltano poi all’occhio altre diversità. John Kennedy mantenne per tutta la durata della sua breve presidenza una linea ideologica «di terza via». In un’intervista a «Newsweek» del 1983 lo stesso Ted Sorensen ammise che JFK «non si identificò mai come un liberal e solamente dopo la sua morte i liberal del partito gli attribuirono erroneamente tale connotazione».
Kennedy era inoltre un «realista», più falco che colomba se si pensa a come impugnò la questione della Guerra Fredda con l’allora URSS e se si pensa che fu lui a coinvolgere sempre più massicciamente gli Stati Uniti nella Guerra del Vietnam. Anche questo rientra in quelle cose che poco si rammentano sempre al fine di non disturbare il mito, fatto soprattutto del Kennedy che porge una matita al figlio John-John accovacciato sotto la sua scrivania o della figlia Caroline che irrompe in una conferenza stampa indossando le scarpe con i tacchi della madre. Per non parlare poi di Jacqueline Kennedy che segue in velo nero il feretro del marito e del piccolo John-John che saluta militarmente. Un’altra era, altre persone, altri miti.
Ma il fatto è anche che chi conobbe di persona Kennedy e ne venne abbagliato non permette facilmente che vengano tracciati facili paragoni. Significativa fu la risposta data durante un dibattito televisivo del 1988 da Lloyd Bentsen, prescelto come vice dall’allora candidato democratico alla presidenza Michael Dukakis, a Dan Quayle, vice scelto dal candidato repubblicano George Bush padre, che poi vinse le elezioni. A Quayle, che solo per la sua figura figura fisica avvenente pretese di paragonarsi proprio a John Kennedy, Bentsen lanciò parole di fuoco: «Senatore, io ho servito nell’amministrazione Kennedy. Ho conosciuto Kennedy, eravamo amici. Ma mi creda senatore, Lei non è John Kennedy». Da allora nessuno aveva più osato simili paragoni. Fino ad oggi, quando, per motivi elettorali, tutto sembra essere ammesso.
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