pierodm ha scritto:"e con quale altro metodo si dovrebbero premiare le capacità dei singoli?", la mia risposta è semplice: NON SI DOVREBBERO PREMIARE.
Il premio - e tutta la serie di idee connesse al premio - non riguarda il merito in sé ma è appunto l'assunto fondante della meritocrazia.
Può anche essitere un punto di vista per cui, senza nulla togliere al valore del merito in se stesso, si pensa che questo debba sussistere per senso del dovere o per soddisfazione individuale, non in vista di un premio elargito da altri: una posizione idealistica ma non per questo assurda in via di principio.
Per l'ennesima volta, ti chiedo, o Franz, se sia mai possibile che tu facia la grazia di capire il senso di un discorso, senza andare a caccia delle parolette e delle frasette per impiantarci sopra una polemica pedissequa e puntigliosa.
Pochi mi capiscono come piedorm. E' ancor più "meritevole" perchè non ha letto tutto il topic al quale vi avevo proposto un rimando tramite link. Qui giova copiarne ed incollare una parte che non è stata letta:
"Proviamo a soffermarci su questi che lavorano per quattro. Credo che Brunetta ci abbia azzeccato, sono circa un quarto del totale.
Ieri, prima dell’introduzione di tanti incentivi che negli anni hanno sgretolato lo spirito di gruppo ed il senso del collettivo, questi lavoratori avevano due tenui fiammelle che li scaldavano. La loro dignità ed il riconoscimento della medesima. I diversi incentivi introdotti negli anni hanno quasi spento la seconda fonte di calore, il sostegno morale. Ora la meritocrazia competitiva darà il colpo di grazia a questo motivo di conforto.
Perché è il senso del collettivo come *dato culturale* che viene mandato del tutto a puttane. Finché ci si sente poco o tanto “famiglia” si è grati a quel leader morale, a quella sorta di “capofamiglia” che lavora per tutti e con il suo sacrificio salva l’onore del gruppo ed impedisce la rovina collettiva, coprendo le mancanze degli inadempienti al dovere. Quando invece si è educati ed allenati al mero individualismo competitivo sparisce dalle menti anche il concetto di “collettivo” e con ciò svapora ogni merito, e quindi ogni riconoscimento, per chi si sacrifica per il gruppo, ovvero si sacrifica per UN VALORE INESISTENTE, PER UNA ENTITA’ INESISTENTE.
Oggi, come dato culturale di questo contesto, ESISTE SOLO L’INDIVIDUO. Chi si impegna per una entità metafisica come il gruppo di lavoro, quindi, non è più un benemerito, è soltanto un coglione.
Ancora una volta vi sarà chi ritiene che io stia arzigogolando con vaghezze astratte, intellettualoidi, che non possono competere con le sane, concrete riforme dei tempi attuali, riforme tanto attese, e da tanto tempo.
A chi ragiona così do un consiglio: leggersi i vecchi manuali di Storia per le scuole che furono scritti da uno dei nostri Autori più accreditati: il “materialista” Armando Saitta.
Un marxiano come il venerabile Armando non esita a riconoscere e a sottolineare, insegnandolo ai giovani, un certo principio, che io mi azzardo a tradurre in questi termini: nella determinazione di molte vicende umane collettive, e nella risoluzione dei conflitti storici, incidono maggiormente fattori di natura ideale, rispetto a spinte materialistiche, volte al soddisfacimento dei bisogni fisici.
Riferendoci sempre al pensiero del grande Armando: nel nostro caso, l’idealità dell’onestà e del decoro personale, nonché il “vantaggio psicologico” o ricompensa morale di queste doti, che si attuava un tempo tramite il riconoscimento ed il plauso della pubblica opinione, sono stati la pulsione decisiva per certi comportamenti minoritari eroici, che hanno mantenuto in piedi e fatto funzionare per decenni l’erogazione di servizi della pubblica amministrazione.
Quelle motivazioni ideali più sopra ricordate sono state la colonna portante dell’impiego statale. La meritocrazia, mentre vorrebbe rinforzare questa colonna, ovvero la motivazione all’impegno dei lavoratori virtuosi, paradossalmente va ad abbatterla.
Perché la meritocrazia annienta la classe lavoratrice in quanto tale, sostituendola con una sommatoria di INDIVIDUI ostili fra loro, annienta quindi il coro che applaude gli impiegati virtuosi, annienta la pubblica opinione che li gratifica con il suo “O.K.”.
Oltre ad annientare il CONSENSO COLLETTIVO, che ieri era una causa determinante per i comportamenti migliori, la meritocrazia DISINCENTIVA ulteriormente il consenso di ogni singolo lavoratore nei confronti del collega più bravo: se il più meritevole ha già avuto il suo premio, un gettone (poniamo 100 euro) che a me non è stato dato, che bisogno c’è che io ANCHE lo applauda ? Ha già avuto il suo premio.
Così il sistema meritocratico toglie il tradizionale “gettone” simbolico, la gratificazione del riconoscimento morale, ai lavoratori impegnati. Sostituisce questo gettone simbolico con un gettone materiale (poniamo 100 euro).
Certamente il sollievo di un guadagno maggiorato è una risorsa che perdura. Ma l’euforia del lavoratore interessato dura solo pochi mesi (io credo non più di due), e la gioia per questo motivo non dura molto di più. Tutto il beneficio viene presto normalizzato, assorbito dalla vita e dalle sue dinamiche, compreso il caro-vita, tutto psicologicamente svapora.
Che cosa rimane invece ? Rimane l’amarezza di constatare che l’antica stima, ammirazione e riconoscenza dei colleghi si è perduta. E di constatare come altri, ingiustamente, abbiano avuto lo stesso incremento retributivo, che quindi non è più un riconoscimento pregiato, è un “gettone avvelenato”.
La meritocrazia nell’impiego statale va dunque a togliere il tradizionale incentivo, ovvero la stima e la riconoscenza, per sostituirlo con uno nuovo, poniamo di cento euro. Il vecchio incentivo perdurava negli anni e nei decenni, il secondo esaurisce presto la sua efficacia propulsiva.. A medio termine quindi la meritocrazia toglie del tutto il sostegno alla produzione, quel sostegno che avrebbe dovuto rinforzare".