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L'Italia non è meritocratica

Il futuro del PD si sviluppa se non nega le sue radici.

Re: L'Italia non è meritocratica

Messaggioda franz il 21/09/2010, 22:18

trilogy ha scritto:come coniugare merito - bisogno - uguaglianza? Un argomento importante per noi.

Sicuramente discutere di quale sia lo lo spazio del merito tra uguaglianza e pari opportunità è importante per noi ma lo spazio non lo si trova certo negando il merito e la meritocrazia. Altrimenti non c'è discussione.
Mi pare che le citazioni che ho tratto dai due ultimi programmi politci facciano chiarezza sui più che vogliamo raggingere e sui meno che vorremmo eliminare.

Per esempio nello statuto del PD trovo che le candidature stesse devono aderire al criterio del merito. (non del bisogno).
Devono attenersi al medesimo Codice etico gli eletti nelle istituzioni iscritti al Partito Democratico in occasione delle nomine o proposte di designazione che ad essi competono, ispirandosi ai criteri del merito e della competenza, rigorosamente accertati.
...
il principio del merito che assicuri la selezione di candidati competenti, anche in relazione ai diversi ambiti dell’attività parlamentare e alle precedenti esperienze svolte;
...
gli eletti si impegnano a seguire criteri di competenza, merito e comprovata capacità


E che dire del "manifesto dei valori" del PD?

Noi vogliamo una società aperta che consideri le persone in base alle loro qualità, rimuovendo
gli ostacoli economici e sociali, e premiando il merito e non i privilegi
...
La competizione ha bisogno, per esplicare la sua funzione creativa e costruttiva, di un contesto in
cui valgano il rispetto intransigente delle regole, l’imparzialità dello spazio pubblico in cui si esercita la
competizione, l’efficacia degli strumenti di valutazione, la “cultura del risultato”. Le regole devono valere
ovunque. Solo nell’ambito di regole davvero fondate sul merito diventa possibile a ciascuno affermare le
proprie capacità e aspirazioni, realizzandole col proprio lavoro
...
Va accresciuta l’autonomia anche finanziaria delle Università: ma alla maggiore autonomia
devono far riscontro la responsabilizzazione nell’uso delle risorse, l’apertura ai giovani e la
valorizzazione del merito nel reclutamento e nelle carriere
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Re: L'Italia non è meritocratica

Messaggioda bidellissimo il 21/09/2010, 23:21

pierodm ha scritto:Franz, ma quando la smetterai di voler avere sempre l'ultima parola, anche a costo di dover fare il gioco delle tre carte?
Nel mio post, se proprio vogliamo prendere sul serio la cazzatina da te citata, quello del "sì, ma" potresti forse essere tu - ma in realtà non c'è alcun "sì, ma".

Potrei essere un pessimo informatico (anche con il massimo impegno) ma un ottimo contadino, senza nemmeno impegnarmi piu' di tanto. Dove è meglio che dia il mio contributo alla collettività? Chi dovesse verifcare il merito, dove mi piazzerebbe (indipendentemente dalla mie aspettative)?

Piazzerebbe chi? Qual'è il soggetto, il deus ex machina che dispone le pedine? Il Fato, il Padreterno? il Capufficio lup. mann.?
Chi decide in genere è il denaro, o forse quello che tu chiameresti il "mercato": a fare il contadino, anche ottimamente, non si guadagna un piffero, a fare l'informatico, anche mediocremente, si rimedia molto di più, per non parlare di quanto si rimedia a fare molte stronzate che non hanno bisogno di alcun merito speciale, se non la sfacciataggine di farle - o magari lo stomaco.
A dirla proprio tutta, ci sono lavori che per farli - intendo anche solo per andare a farli, in senso materiale - richiedono di alzarsi alle cinque di mattina e di fare due o tre o quattro ore di viaggio andata e ritorno da pendolari, e di svolgere il proprio compito in capannoni gelidi o torridi: riuscire a fare questa vita senza impazzire è già di per sé un merito.

Per bidellissimo, un consiglio amichevole: lascia perdere.
hai detto d'aver dato uno sguardo al forum prima d'iscriverti. Dunque sapevi già chi era chi, e cosa potevi aspettarti.

Sto pensando di accogliere il tuo consiglio, e di ritirarmi. La disonestà nel dialogo, da parte di certa gente, è spaventosa. Adesso mi vogliono far passare addirittura per marxista, quando sono stato sempre anti-marxiano ed anti-marxista. Marx se fosse vivo darebbe ragione a loro e non a me, in quanto riteneva che quella sua formula relativa ai bisogni si sarebbe realizzata automaticamente, al momento giusto, in un tempo utopico, non certo qui-ed-ora, e non certo per una progettualità politica o sindacale ispirata dalla stessa formula. Quando parlavo di "bisogno", non a caso ho messo il termine fra virgolette. Segno che volevo conferirgli una valenza simbolica, allegorica, analogica. Volevo alludere all'oggetto di una certa attenzione alle fasce sociali più deboli, quella particolare protezione che Bersani ha sempre sostenuto essere costitutiva del PD, quella attenzione o protezione che in america Obama ha cercato di realizzare con la sua riforma sanitaria, quella attenzione che ispira le politiche sociali più della sinistra che non della destra politica, in Italia come nel resto del mondo.
Questo "quid" che io ho chiamato "bisogno" deve per forza limitare una impostazione meritocratica, se no un poco alla volta si cade nel liberismo sfrenato, si toglie il necessario per sopravvivere alla popolazione meno capace (ma pur sempre in grado di lavorare e di dare un contributo alla produzione) per premiare i più bravi, che non saranno mai premiati abbastanza. Di sicuro non si può pretendere che un imprenditore faccia della beneficenza, ma solo che rispetti le leggi e gli accordi contrattuali. E le leggi ed i contratti certamente risentono di una ispirazione ideologica oppure di un'altra.
Certe persone sembrano non capire che un conto è criticare la meritocrazia, ovvero il riconoscimento ESCLUSIVO del merito, ed un conto è criticare QUALSIASI RICONOSCIMENTO DEL MERITO. Certo anche io per una volta ho assolutizzato, ma l'ho fatto per dare una sberla a chi ne aveva bisogno.
E' sterile ogni dibattito con interlocutori che non puntano, nel confronto, a cercare la verità e a progredire nella conoscenza insieme, ma puntano ad affermarsi, a prevalere. Essi sono un perfetto esempio della deformazione professionale prodotta da una impostazione meritocratica. Dato che ti sento amico, pierodm, posso farti una confidenza? Forse loro hanno ragione nel sostenere che senza impostazione meritocratica la produzione industriale, e non solo quella, regredirebbe fortemente, e si abbasserebbe il nostro tenore di vita. Loro danno per certo quello che è soltanto molto probabile, ma probabilmente ci azzeccano, nessuno di noi è nato ieri. Ma io preferirei addiritura una società nella quale non si potesse più mangiare la carne, avere l'auto privata, e finanche il pc privato, ma nella quale non si dovesse avere a che fare con i figli della meritocrazia. Erano meglio perfino i figli dei fiori!
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Re: L'Italia non è meritocratica

Messaggioda flaviomob il 22/09/2010, 0:38

Fermiamoci un attimo. Premiare il merito, inteso come somma di talento ed impegno, è fisiologico per una società sana. Il modo per far crescere una persona di talento priva di mezzi è il renderne possibile e il favorirne l'impegno. Uno studente eccezionale senza mezzi potrebbe lasciare la scuola al termine del periodo dell'obbligo e ciò impoverirebbe tutta la società, oltre ad essere sommamente ingiusto per le classi sociali più emarginate e povere. A parità di talento potrebbe trovare più stimoli, cioè una maggiore motivazione, chi ha meno mezzi ma viene sufficientemente aiutato ad accedere ai percorsi formativi, perché potrebbe essere maggiore il suo desiderio di emanciparsi dalla povertà. Ma intanto quello che sta succedendo alla scuola, la devastazione gelmin-tremontana in corso d'opera, rappresenta un ostacolo enorme a questa forma di giustizia sociale (e, come ho già detto, un impoverimento per tutti).
Fin qui però si discute di merito; il concetto di meritocrazia è dato per scontato da alcuni, ma considerato controverso da altri (ad esempio se si continua a leggere su wikipedia, si scopre che colui che ha forgiato il termine stesso lo ha fatto in maniera assolutamente negativa e dispregiativa). Viene da se' che una politica socioeconomica molto restrittiva, che dà la priorità a selezionare escludendo chi non raggiunge certi livelli, crea un'élite e una gerarchia verticistica. Anche se il criterio per accedere ai piani alti fosse il merito, la "crazia" che ne consegue sarebbe molto ristretta e non è detto che chi si è conquistato la propria fetta di potere grazie al merito (anzi, al proprio impegno), quando ha la possibilità di chiudersi nel castello dorato e impedire l'accesso agli altri non lo faccia. E magari inizia a simpatizzare per l'estrema destra...
Senza dimenticare che nella nostra formuletta, semplicistica ma piuttosto immediata (merito=talento+impegno) il talento è da vedersi come dote innata e quindi anche come prodotto della dea fortuna, che bacia alcuni e trascura tanti altri, mentre in condizioni familiari o sociali avverse anche col massimo impegno a volte, come ricorda il buon Piero, si riesce a malapena a sopravvivere (eh sì perché anche se lo consideriamo il sistema più bello del mondo, il capitalismo continua a mangiarsi il surplus e l'operaio che fa doppi turni e straordinari magari... scoppia di talento, ma a finire l'università proprio non je la fa!
La prova del budino: può succedere che uno stimato avvocato da 300 euro all'ora (magari in nero) si diletti nel tempo libero a coltivare fave, zucchine e barbabietole, ma trovo piuttosto difficile che chi fin da giovane si è trovato a lavorare nei campi (o l'operaio di cui sopra) sia così pacifico avere la possibilità non dico di sperimentarsi ma addirittura di pensarsi in un ambito tanto diverso. Allora magari il nostro avvocato dopo vent'anni di onorato servizio scoprirà di avere la vocazione allo zappatore e magari darà una svolta netta alla propria esistenza, ma il viceversa è molto improbabile. Chi è povero spesso si ritrova a fare lavori da "povero", tutto qua. E' ingiusto e ci infastidisce ammetterlo, ma non è il merito la discriminante.
Vi è poi un dato diverso riguardo agli obiettivi delle organizzazioni (aziende, sistemi burocratici, etc) che ricercano efficienza (e quindi valutano - perché la valutazione del merito è soggettiva - come maggiormente meritevole chi produce di più, a parità di competenza). Ad esempio, una piattaforma petrolifera in Nigeria potrà assumere dipendenti e collaboratori col massimo principio meritocratico, ma il suo scopo finale rimarrà quello di mantenere al potere (politico, in loco) dei fantocci corrotti che garantiscano l'impunità (si possono leggere dossier di numerose ong tra cui Amnesty, tanto per gradire) a inquinatori indefessi e incalliti che stanno devastando il delta del Niger. Oppure una multinazionale che esporta rifiuti tossici depositandoli a cielo aperto a Lagos, compromettendo la salute di milioni di persone, può applicare correttamente principi di meritocrazia da manuale e magari finanziare anche qualche democraticissima 'borsa di studio'. Le persone che lavorano per codeste aziende non sono "neutrali" rispetto a ciò che esse producono (su un altro forum si parlava di responsabilità delle conseguenze delle proprie azioni!). Quindi il loro concetto di merito somma talento ed impegno con un certo grado di connivenza, di indifferenza pelosa e talvolta di mera omertà complice. Salvo poi scoprire che le persone davvero meritevoli che hanno scelto la denuncia -in loco - di codeste quisquilie spesso sono state uccise o torturate o esiliate, oppure vivono in clandestinità. La benzina che noi occidentali quotidianamente consumiamo, viene da lì. In cambio dei nostri rifiuti. Meritati?
Infine, anche le più efficaci organizzazioni dittatoriali premiavano il merito come fonte di efficienza: anche qui, il titolo di merito comportava l'adesione (o l'indifferenza meschina) all'obiettivo finale della... ditta!


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Re: L'Italia non è meritocratica

Messaggioda pierodm il 22/09/2010, 2:20

Sto pensando di accogliere il tuo consiglio, e di ritirarmi. La disonestà nel dialogo, da parte di certa gente, è spaventosa. Adesso mi vogliono far passare addirittura per marxista

Ma no, non ti consigliavo di ritirarti del tutto, ma solo di non soffermarti troppo a scandalizzarti, cedendo alle provocazioni.
Il senso del tuo intervento era chiarissimo, anche a leggerlo una sola volta e velocemente.
Passare per marxista non è certamente la cosa peggiore che possa capitare: pur nei limiti ristrettissimi di questo breve dialogo, sono riusciti ad affibiarti in senso dispregiativo l'appellativo di "bidello", una coda di paglia e una sentenza di "inutilità", oltre scaricarti vitualmente fuori dall'Ulivo.
Data la rapidità e la perentorietà dei giudizi, apparentemente dati su una base ristrettissima di post, ho pensato per un momento che i nostri amici devono averti conosciuto più ampiamente in altre sedi ed avere qualche sconosciuta migliore ragione per comportarsi in questo modo.

Io, come hai visto, ho provato a spiegare il senso delle tue/mie/nostre idee sull'argomento, e ci hanno provato sia Flavio sia altri, ma è tutto inutile: contro i dogmi, contro le infatuazioni, non c'è ragionamento che tenga, non c'è pazienza che abbia efeftto, né sintassi che sia sufficientemente chiara.
Alcuni nostri amici partono dal presupposto (e arrivano, il viaggio è breve) che chiunque non è d'accordo esattamente con loro, o meglio ancora con i dogmi che emanano dal feticcio che li ispira, è o un bolscevico, o un cretino, o un ignorante, o (quando vogliono essere buoni) un simpatico ragazzo di buona volontà ma disorientato.

Due parole, infine, sul tema, ammesso che ne valga ancora la pena.
Parlare di merito in generale - ma anche di libertà, diuguaglianza, di povertà, di imprenditoria e di mille altre cose - non solo è complicato, ma in effetti non significa nulla, specialmente sul piano socio-politico: una bella definizione, scovata abilmente, funziona bene applicata ad un contesto, ma si trasforma in una puttanata se applicata ad un altro contesto.
Il fatto è che molti valori e concetti socio-politici soffrono di questa multivalenza di signficato, quando sono evocati da un punto di vista che ha data per inesistente la suddivisione della società in classi e in situazioni esistenziali diverse e spesso contrapposte.
Per una cultura che vede una società piatta, formata da una sola classe, qualunque concetto è univoco, ha un solo significato e un solo valore: in questo caso il merito è destinato ovviamente ad avere lo stesso senso a qualunque ambito sia applicato, a qualunque latitudine, a qualunque condizione umana o sociale.
Gli inevitabili scostamenti da questa intepretazione dogmatica non possono essere ignorati, ma sono considerati (coerentemente) come patologie, talvolta personali, talvolta sociali, oppure semplicemente messe da parte con uno sbrigativo gesto della mano - come per esempo si è voluto fare con il tuo intervento, che tu ti sei inutilmente sforzato di rappresentare come una testimonianza a lungo meditata di uno che si trova pienamente dentro al problema.

In particolare, c'è una certa scuola di pensiero preoccupata di sostenere in modo estremistico e dogmatico l'efficienza, misurata secondo logiche esclusivamente aziendalistiche, come parametro assoluto e fondamentale della convivenza sociale e, in definitiva, della stessa vita individuale, con tutto lo strascico comportamentalistico e "razionalistico" che accompagna una simile visione.
Il "merito" implicito in questa visione, uando si va a stringere, non ha niente di umanistico, né di veramente collegato con il valore personale, ma ha lo stesso ruolo utilitaristico del pezzo di una macchina: vai a rileggerti certi passaggi di certi post e vedrai che il linguaggio stesso usato per trattare l'argomento recita esattamente questo.
Intendiamoci, niente di nuovo. Roba antica.
Quello che c'è di nuovo, o meglio di sorprendente, diciamo pure di grottesco, è che una simile scuola di pensiero possa prendere piede in un'area politica e culturale che dovrebbe essere di sinistra, di centro-sinistra, "riformista" o quello che è il posto dove noi tutti ci troviamo.

Quindi, come dicevo nel mio post precedente, parliamo pure e giustamente di merito, ma specifichiamo di chi, in quale contesto, e secondo quali criteri: quando ricordavo chi (sono tanti) si alza alle cinque, fa duecento chilometri su treni scomodissimi, lavora al freddo o al caldo torrido, e chiedevo se questo non fosse già un "merito", era un invito a riflettere e a uscire adgli schemi prefissati, dalle lezioncine imparate su qualche manualetto, non allo scopo di togliere qualcosa al concetto di "merito", ma semmai allo scopo di aggiungervi qualcosa, di capire qualcosa di più.
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Re: L'Italia non è meritocratica

Messaggioda pierodm il 22/09/2010, 2:33

Per esempio nello statuto del PD trovo che le candidature stesse devono aderire al criterio del merito. (non del bisogno)

Che è? Una battuta?
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Re: L'Italia non è meritocratica

Messaggioda franz il 22/09/2010, 8:09

flaviomob ha scritto:Fermiamoci un attimo. Premiare il merito, inteso come somma di talento ed impegno, è fisiologico per una società sana.

Ok, ci siamo fermati un attimo, ci siamo capiti e si puo' ripartire.
Giusto quasi tutto il tuo discorso. Vediamo i "quasi", cosi' per differenza capiamo il giusto.
Il problema della meritocrazia non riguarda solo i livelli (come raggiungere i piani alti) ma soprattutto come retribuire persone diverse che fanno lo stesso lavoro (per esempio due impiegati dell'ufficio contabilità o due capiprogetto) ma hanno meriti diversi. Se restringi il discorso ai "piani alti" è chiaro che parli di elite ma i piani alti esistono sempre, comunque. Come selezionarli, in base al merito, al bisogno, alle raccomandazioni o al nepotismo? Che occorra selezionare i vertici mi pare evidente. Non si puo' andare a caso. Un criterio ci vuole. Prendo quindi la tua Regola Aurea (Premiare il merito, inteso come somma di talento ed impegno, è fisiologico per una società sana) e d'ora in poi la richiamero' semplicemente cosi' (RA). Come dicevo poi la RA per me deve valere anche all'interno di uno stesso livello. Ogni attività umana (pubblica, privata, anche no profit) è sostanzialmente un'organizzazione finalizzata al raggiungimento di alcuni obbiettivi.
Un piccolo inciso: parliamo solo di obbiettivi eticamente e moralmente accettabili, perché fare paragoni con organizzazioni finalizzate ad obbiettivi immorali e criminali non è corretto. Sia chiaro che "fare soldi" oggi, diversamente dal medioevo, è moralmente accettabile, se riferito ad attività permesse dal codice penale e nei limiti prescritti da quello civile e dei contratti di lavoro.

Bidellissimo sostiene che la meritocrazia (come la intende lui, naturalmente) è dannosa, rispetto al raggiungimento degli obbiettivi. Sostanzialmente perché deprime i non premiati, innesca una spirale di competizione che è controproducente e porta anche alcuni casi su posizioni estreme. Io sostengo invece che la meritocrazia (come la intendo io, come hanno scritto trilogy e ranvit) non presenta questi svantaggi, perché gli obbiettivi di merito non solo solo individuali ma anche di gruppo e quindi si premia e si incentiva la collaborazione, dove serve. Ed in azienda serve molta piu' cooperazione che competizione tra dipendenti. Un management che innescasse con retribuzioni basate sul merito un' aspra competizione deprimendo la collaborazione sarebbe un caso di notevole incompetenza (vorrei vedere caso per caso ma credo che possa essere un'affermazione vera al 99.99%). Che questo sia accaduto nel pubblico non lo dubito, viista la pessima qualità del management.

Io quindi ritengo che la RA sia vera e che se qualche volta la la cultura del merito è stata applicata male, si debba buttare via l'acqua sporca, non il bambino.

Alcune considerazioni finali. È difficile che un operio che sia operaio poi faccia l'università (o fa una cosa o fa l'altra, per un po' di anni) ma è noto che i figli di un operaio invece possono farla, se il merito li sostiene. Certi studi si fanno all'inizio del percorso formativo (ora anche alla fine, con le università della terza età). Parlo in generale, naturalmente. Forse la società italiana è ancira abbastanza ppoco mobile ma i casi che ho sotto mano mi dicono che tra me e mia moglie (e relativi fratelli) nessuno fa la professione del padre e della madre. Nessun genitore era laureato mentre il 50% dei figli lo è e l'altro 50% è diplomato. E tutti sono in posizioni che si sono meritate. Nel privato, con ottimi salari (sicuramente superiori ai minimi) mentre nel pubblico no, perché per ora le retribuzioni li' sono uguali per tutti, indipendentemente dall'impegno e dal merito.

Sul capitalismo che "si mangia il surplus" non sono affatto d'accordo, dato che il capitalista reinveste il guadagno (non è un avaro che acumula, è un imprenditore, quindi assume, compra macchinari, fa nuovi stabilimenti). Pare poi che qualcuno, usando la Reola Aurea, sia disposto a pagare di piu' chi merita. Pensa un po' che fame di surplus che ha! :)
Francamente ci sono ancora oggi visioni stereotipate del capitalismo e dell'imprenditoria, che sono piu' vicini a luoghi comuni e pregiudizi che a posizioni razionali. Ma si sa che i pregiudizi sono duri a morire. ;)

Una cosa sulla crazia che diventa cerchia ristretta e chiusa (la possibilità di chiudersi nel castello dorato e impedire l'accesso agli altri). Vero, è un pericolo in tutte le crazie ma se la valutazione del merito è parte integrante delle procedure aziendali (e non ogni anno ma anche ogni 3 mesi) nessuno puo' sedersi e chiudersi nel castello dorato, altrimenti viene subito sostituito da uno che merita di piu'. Ove il merito non sia la discriminante invece puo' anche chiudersi nel castello e vivere di rendita. Quindi anche nell'esempio che fai del contadino che non diventa avvocato (dici che "E' ingiusto e ci infastidisce ammetterlo, ma non è il merito la discriminante") la soluzione è + merito, non meno. Grazie dell'assist.
Si parla quindi di pari opportunità, di un sistema scolastico che sappia mettere ognuno nella possibilità di diventare avvocato o chirurgo, anche se proviene da una famiglia contadina e non vuole andare avanti a gestire l'azienda di famiglia.

Magari appena ho tempo faccio un'altra escursione sul tema del bisogno, che non va tralasciato.

Franz
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Re: L'Italia non è meritocratica

Messaggioda flaviomob il 22/09/2010, 19:47

Quindi anche nell'esempio che fai del contadino che non diventa avvocato (dici che "E' ingiusto e ci infastidisce ammetterlo, ma non è il merito la discriminante") la soluzione è + merito, non meno. Grazie dell'assist.


No: la soluzione è un sistema politico - sociale diametralmente opposto a quello italiano degli ultimi 30 anni. La formazione continua è possibile in molti paesi europei, in cui si incentiva chi desidera lasciare il proprio lavoro, studiare (anche a livello universitario) e poi riprendere a fare un lavoro di qualità più elevata. In Italia non esiste nulla, io l'ho fatto e ho perso 3 anni di lavoro e speso quello che avevo risparmiato nei 15 anni precedenti, e potevo permetterlo soltanto tornando ad abitare con mia madre. Un mio conoscente romano, che vive a Londra, ha fatto scelte analoghe alle mie ricevendo un sostanzioso contributo, per il periodo in cui ha smesso di lavorare e frequentato l'università, per vitto, affitto e spese universitarie.
Ah per inciso, siccome sono masochista, idealista e velleitario... ora da laureato guadagno meno che da diplomato :o :o Ma lavoro nel sociale, che a me piace moltissimo, e penso che morirò "povero"... :lol:


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Re: L'Italia non è meritocratica

Messaggioda ranvit il 22/09/2010, 21:20

Ma lavoro nel sociale, che a me piace moltissimo, e penso che morirò "povero"..


Fai benissimo invece caro flavio.
L'importante nella vita è fare quello che piace e che dà serenità....tutto il resto sono balle!

La mia "accusa" di idealista e velleitario non è in questo senso.

Vittorio
Il 60% degli italiani si è fatta infinocchiare votando contro il Referendum che pur tra errori vari proponeva un deciso rinnovamento del Paese...continueremo nella palude delle non decisioni, degli intrallazzi, etc etc.
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Re: L'Italia non è meritocratica

Messaggioda flaviomob il 22/09/2010, 22:43

http://www.sinistrainrete.info/neoliber ... -liberismo

I falsi miti del social-liberismo
Francesco Macheda*

Il recente rapporto della Banca d’Italia sulle tendenze nel sistema produttivo del nostro paese e la manovra finanziaria con la quale la maggioranza di governo si accinge a scaricare i costi della crisi sui lavoratori mettono a dura prova il nocciolo della proposta social-liberale – la ‘terza via’ tra keynesismo e ultra-liberismo – secondo cui la crescita economica passerebbe attraverso l’eliminazione delle rigidità dell’offerta di lavoro, inserita tuttavia all’interno di una cornice regolatoria che non pregiudichi la coesione sociale (Bachet et al. 2001: 144). Più nello specifico, la selezione meritocratica, coniugata a comportamenti socialmente responsabili delle imprese volti a stimolare il ‘lavoratore ad una più alta qualità e partecipazione’ (Bellofiore 2004a) – innalzando così la produttività – eleverebbe la profittabilità aziendale. La ricchezza così creata verrebbe infine redistribuita ai lavoratori mediante l’intervento della politica economica[1].

Tralasciando le implicazioni politiche di tale teoria[2] – che comunque ‘non contrastano affatto le tendenze del capitalismo contemporaneo’ (Bellofiore e Halevi 2007: 13) – ciò che qui interessa è analizzare come a) la scarsità di pratiche meritocratiche sia un tratto necessario alla riproduzione egemonica della classe capitalista italiana, data l’arretratezza della struttura produttiva del paese, e b) le crisi facciano cadere nel dimenticatoio ogni velleità di responsabilità sociale non appena le imprese si trovano a dover scegliere tra la dura legge dei libri contabili e il benessere dei lavoratori.

1. I particolari criteri meritocratici dell’imprenditoria italiana.

Secondo la dottrina social-liberale, l’adozione di criteri meritocratici nella scelta dei lavoratori avrebbe il vantaggio di coniugare equità sociale a crescita economica poiché, oltre a premiare coloro dotati di abilità di partenza più elevate – potenziate dall’impegno quotidiano – impedirebbe a monte che gli individui meno produttivi possano mischiarsi a quelli più produttivi. Tuttavia, se la ragion d’essere della meritocrazia risiede nell’impiego più efficiente del lavoro, con ricadute positive sulla profittabilità, cosa impedisce la sua diffusione nel nostro paese?

Per quanto concerne le posizioni direttive e manageriali, stando al rapporto della Banca d’Italia ciò è imputabile al ruolo svolto dall’imprenditoria italiana che, non favorendo l’accumulazione del capitale e non adempiendo pertanto al ruolo di classe dirigente, ha nondimeno perpetrato la funzione di classe dominante attraverso il suo impianto familistico che le ha garantito ‘elevati benefici privati, espropriativi e non’(Banca d’Italia 2009: 70), riducendo al contempo la ‘disponibilità dei controllanti a cedere il controllo anche quando divenuti “inadeguati” nella gestione dell’impresa’ (Ibid.). Ciò è avvenuto e avviene tuttora sia nelle piccole che nelle grandi imprese, la cui struttura societaria è volta alla non contendibilità del controllo, blindato attraverso piramidi societarie, partecipazioni incrociate, ecc. [3]

La preferenza degli imprenditori italiani della certezza del controllo alla dotazione di una solida base finanziaria[4], non solo ha dato vita ad una struttura industriale orientata verso prodotti tradizionali oramai incapaci di reggere la concorrenza internazionale[5], ma ha fatto sì che il dirigente d’impresa coincida spesso con il proprietario e con i suoi discendenti[6], che sono premiati della ‘“vicinanza” ai proprietari e [del]la “fedeltà”’ (Ibid.: 74). Tuttavia, se l’imperativo è il mantenimento del controllo familiare, allora le cariche direttive non possono essere affidate secondo criteri volti al riconoscimento di doti imprenditoriali che, sebbene abbiano il vantaggio di favorire il processo di accumulazione, potrebbero tuttavia minacciare il ruolo preminente della famiglia nell’impresa.

La salvaguardia del controllo famigliare ha finito col condannare il capitalismo italiano al nanismo e a un’elevata frammentazione produttiva, che ha reso ‘difficile sfruttare le economie di scala insite nell’attività di ricerca e sviluppo. […] La specializzazione produttiva sbilanciata verso produzioni tradizionali a basso contenuto tecnologico’ (Ibid.: 9-10, 51) che ne emerge, ha determinato, quindi, anche la tipologia della domanda di lavoro ‘di linea’, orientata per di più verso posti poco qualificati[7]. Ecco perché si può affermare che, sebbene l’Italia presenti un numero di laureati inferiore a quello di molti paesi europei, essi sono nondimeno ‘troppi se devono confrontarsi con occasioni di lavoro prevalentemente poco qualificate’(Reyneri 2005: 183).

Intrecciando le preferenze per una specifica tipologia di forza-lavoro alla evoluzione della struttura produttiva, è possibile inquadrare storicamente la scarsa adozione di criteri meritocratici volti a premiare le competenze dei lavoratori. In primo luogo, il ridimensionamento delle imprese seguíto al decentramento produttivo, oltre a contribuire ‘ad elevare il tasso di irregolarità’ (Pugliese 2009: 8), ha ridefinito i criteri che stabilivano chi fosse ‘meritevole’ di possedere un lavoro. Poiché i piccoli imprenditori e i lavoratori provenivano dalla stessa comunità, le assunzioni venivano a dipendere dall’affinità culturale, da vincoli familistici e clientelari – tutti fattori che rafforzavano il ‘senso di appartenenza’ a scapito di una visione che poneva al centro il conflitto. Tutto ciò ben si conciliava alle esigenze della piccola impresa che basava, e basa tutt’ora, il proprio vantaggio competitivo sul massiccio sfruttamento della manodopera[8].

In secondo luogo, la triade piccola impresa-pace sociale-sfruttamento è stata completata dall’erosione prima e la demolizione poi della conquista della chiamata numerica – rettificata formalmente dallo Statuto dei Lavoratori – che aveva l’obiettivo di evitare discriminazioni in fase di costituzione del rapporto di lavoro. A partire dal 1977[9], in poco più di un decennio il legislatore riporrà la scelta dei lavoratori alla totale discrezione del singolo imprenditore che, oltre a rafforzare pratiche clientelari, favorirà l’assunzione di lavoratori ligi ai suoi voleri, discriminando coloro che si erano resi protagonisti delle lotte del decennio appena trascorso e i giovani refrattari al continuo incremento dei ritmi di lavoro e al contemporaneo abbassamento dei salari e delle tutele.

In altri termini, il rifiuto di pratiche meritocratiche non è un tratto insito agli imprenditori italiani, ma è il frutto di una precisa evoluzione storica tendente all’eliminazione della conflittualità sui posti di lavoro per meglio perpetrare il massiccio sfruttamento della forza-lavoro[10], da cui ricavare profitti in un contesto di stagnazione degli investimenti. La pesante flessibilità nell’utilizzo della forza lavoro e la moderazione salariale – effetto di tale dinamica – ha finito così per indebolire il tessuto produttivo del paese, all’interno del quale i criteri meritocratici volti a premiare le competenze (destinate a rimanere frustrate se applicate a macchinari e metodi organizzativi obsoleti, con tutto quello che ciò comporterebbe in termini di stabilità sociale) passano in secondo piano rispetto alla necessità della completa subordinazione della manodopera[11].

2. Nulla è dovuto: la responsabilità sociale d’impresa.

L’altra formula in voga tra i social-liberisti è la responsabilità sociale d’impresa la quale, garantendo salari dignitosi, vincoli alla nocività e comportamenti etici, favorirebbe la flessibilità e quindi la produttività del lavoro – quest’ultima necessaria al conseguimento di un vantaggio competitivo sul lungo periodo dell’impresa – i cui benefici si riverserebbero a cascata sui lavoratori.

Senza addentrarci nei risvolti teorici del problema, è sufficiente un breve excursus storico per comprendere perché i buoni propositi di ‘comportamenti etici’ vengano abbandonati non appena il sistema economico si trovi a fronteggiare le prime avvisaglie di crisi.

Sarebbe troppo semplice soffermarci esclusivamente sull’ultimo trentennio, in cui l’offensiva liberista ha eroso buona parte delle conquiste del lavoro. Volgiamo lo sguardo, allora, a una particolare fase storica – il periodo che va dalla fine della I guerra mondiale alla crisi del 1929 negli Stati Uniti – conosciuta come ‘welfare capitalism’ e analizzata magistralmente da Michael Perelman in un libro di qualche anno fa. Consapevoli degli effetti nefasti del laissez-faire (era ancora fresco il ricordo della Grande Depressione) e dell’importanza del controllo del movimento sindacale – allora in forte ascesa – gli imprenditori statunitensi sorretti ‘ideologicamente’ dalla presidenza Hoover, adottarono comportamenti socialmente responsabili che, aumentando l’efficienza produttiva, avrebbero dovuto confermare la superiorità del sistema di mercato rispetto a quello socialista nel garantire sia alti standard di vita ai lavoratori, sia una crescita più equa ed equilibrata. Tuttavia, una volta scoppiata la Grande Crisi, anche i grandi industriali illuminati – che inizialmente tentarono di non intaccare gli standard lavorativi – dovettero gettare la spugna: tra la dura legge dei libri contabili e i diritti dei lavoratori, scelsero la prima opzione.

La crisi del 2007 e il periodo di turbolenze precedente non sembrano riservare un destino diverso alle velleità di ‘responsabilità sociale d’impresa’. Una volta svanite le illusioni di un mondo unipolare all’indomani dello sgretolamento del blocco sovietico, lo scontro economico tra paesi e imprese in competizione per l’accaparramento di mercati di sbocco, materie prime e aree abitate da manodopera a basso costo, ha subíto un brusco inasprimento, concedendo al contempo ‘un enorme vantaggio in termini di potere contrattuale agli imprenditori di molti paesi sviluppati’ (Glyn 2007), dal momento che i lavoratori occidentali – non solo quelli meno qualificati – hanno iniziato a risentire negativamente della competizione dei lavoratori dei paesi dell’Europa dell’est, dotati anch’essi di elevati livelli d’istruzione[12]. Di conseguenza, sono andati assottigliandosi i margini per l’adozione di comportamenti etici i quali, ponendo ‘lacci e lacciuoli’ alla libera iniziativa, hanno lo “spiacevole inconveniente” di frenare la profittablità almeno nel breve periodo, col rischio che l’impresa sia travolta da una competizione sempre più agguerrita. D’altra parte, sperare che siano i governi – che da più di un trentennio stanno supportando la gigantesca redistribuzione da L a K[13] – a porre vincoli alla libertà d’impresa pare quantomeno illusorio quando non addirittura paradossale, se è vero che dallo scoppio della crisi odierna gli stati e gli organismi transazionali non hanno esitato minimamente a scaricare i costi dei risanamenti bancari sulle spalle dei lavoratori[14].



3. Conclusione

Condurre la battaglia teorica per la promozione di comportamenti responsabili da parte delle imprese, così come contro le pratiche clientelari, è sacrosanto. Tuttavia, altrettanto importante è la prospettiva entro la quale s’inquadra il problema. Piuttosto che dal disegno regolativo dei policy makers, quando non addirittura dalla sensibilità delle singole aziende, sia la responsabilità sociale che l’eliminazione di perniciose discriminazioni da parte delle imprese sono storicamente scaturite dalle spinte conflittuali provenienti dal mondo del lavoro contro le organizzazioni più apertamente conservatrici, che gli imprenditori e i governi hanno poi dovuto rettificare formalmente.


* Università Politecnica delle Marche, Ancona.


[1] Sulla continuità tra neoliberismo e social-liberismo si veda: Bellofiore (2004b), pp. 93-94.
[2] Su questo punto è illuminante l’esposizione di Brancaccio (2009), pp. 41-42.
[3] Se ‘le società non quotate [sono] in grandissima parte tuttora di natura familiare’, ancora a metà degli anni ’90 ‘tra le imprese quotate il principale azionista possedeva la maggioranza assoluta.’ Tuttavia, ‘negli ultimi anni non vi è stata una significativa evoluzione nella struttura proprietaria e del controllo delle società quotate italiane.’ ‘Le imprese familiari continuano a rappresentare la vasta maggioranza; la concentrazione della proprietà resta alta: nel 2007 la quota di azioni detenuta dall’azionista principale era ancora pari al 67.7 per cento’ (Banca d’Italia 2009: 69-72). La trattazione di Amatori e Brioschi (2001: 148-149) sul congelamento degli assetti di controllo rimane estremamente attuale.
[4] Il capitalismo italiano è caratterizzato da una sottocapitalizzazione e al contempo da una forte concentrazione della stessa. Si veda, Banca d’Italia (2010), pp. 187-199.
[5] Banca d’Italia (2009), pp. 30-32,73.
[6] Nell’ultimo decennio il 3% delle imprese manifatturiere ha cambiato controllo ogni anno. La metà di questi trasferimenti avviene all’interno della famiglia proprietaria, tipicamente tra generazioni (Banca d’Italia 2009: 72).
[7] L’inchiesta dell’ISAE sui comportamenti di assunzione delle imprese nel settore manifatturiero ha rilevato che nel corso del 2008 il 94.8 percento delle imprese che hanno assunto almeno un lavoratore nel corso dell’anno ha selezionato esclusivamente personale in possesso di titoli di studio inferiori alla laurea.
[8] Il fatto che il lavoratore della piccola impresa riceva un salario inferiore del 26.2 % di quello del dipendente standard non è imputabile alle limitate capacità di pagare dovute alla scarsa produttività bensì, come rilevato da Vianello (2007) ‘alla elevata capacità di non pagare’ delle piccole imprese.
[9] Per la ricostruzione dell’iter legislativo sfociato nell’eliminazione della chiamata nominativa, si veda: Liso (2002)
[10] Tra il 1993 e il 2008 su una crescita complessiva di 14.3 punti percentuali della produttività reale dell’intera economia da redistribuire, solamente 3.8 punti sono andati al lavoro.
[11] L’indagine ISFOL (2008) ha rilevato che le competenze maggiormente richieste sul posto di lavoro dai manager operanti nel settore manifatturiero sono l’affidabilità nell’esecuzione del proprio lavoro, le abilità manuali e la resistenza psicofisica – qualità che non necessitano di particolari investimenti in formazione.
[12] Nel 2007, la media dei giovani tra i 25 e i 34 anni dei nuovi paesi membri in possesso di un’istruzione universitaria era del 27.1 percento. In Italia, solo 19 giovani su 100 erano laureati.
[13] Tralasciando la caduta dei redditi da lavoro dell’ultimo biennio, dal 1980 al 2008 il monte retribuzioni sul PIL nei maggiori industrializzati ha subíto una discesa verticale. In Italia si è passati dal 73.8 al 65.1%, in Francia dal 75.6 al 65.8%, in Germania dal 72.9 al 63%, in Spagna dal 65.4 al 58.6% e in U.K dal 75.9 al 65.2%.
[14] Nel 2009, il numero di disoccupati nei paesi sviluppati è aumento di 13.7 milioni di unità, mentre il tasso di occupazione è crollato del 2.5 percento. Solo in Europa, la riduzione del numero di occupati ha abbondantemente superato i quattro milioni. Nel primo trimestre 2010 sono stati distrutti 50 mila posti di lavoro in seguito a 160 processi di ristrutturazione aziendale. Nel nostro paese, l’occupazione nel corso del 2009 si è ridotta di 380 unità, colpendo fortemente i giovani e il lavoro temporaneo.


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Re: L'Italia non è meritocratica

Messaggioda pierodm il 23/09/2010, 1:02

Grazie Flavio: la tua citazione è estremamente opportuna.
Anche se temo che avrà un triste destino: nella sostanza (e in certi punti anche nelle forma) nelle discussioni di queste settimane si è tentato di introdurre le medesime osservazioni contenute nel testo da te citato, ma sono state fatte orecchie da mercante, e non perché ci sia stato un disaccordo (che sarebbe lecito) ma perché sono state completamente ignorate.

Quando io, per esempio, ho raccontato una mia personale esperienza - intendo quella del mio amico tipografo - forse qualcuno ha pensato che volessi fare un po' di biografia, dato che si parte sempre dal presupposto (si finge, cioé, di partire) che l'interlocutore sia uno scemetto e che i suoi discorsi non meritino di significare qualcosa che vada oltre il senso grammaticale delle parole.
Il senso, appunto, dell'esempio da me portato era lo stesso di quello presente nel tuo testo, quando afferma: ha fatto sì che il dirigente d’impresa coincida spesso con il proprietario e con i suoi discendenti[6], che sono premiati della ‘“vicinanza” ai proprietari e [del]la “fedeltà”...i criteri che stabilivano chi fosse ‘meritevole’ di possedere un lavoro. Poiché i piccoli imprenditori e i lavoratori provenivano dalla stessa comunità, le assunzioni venivano a dipendere dall’affinità culturale.
Ma va be', come dicevo a bidellissimo, sappiamo chi è chi e non vale la pena stupirsene più di tanto: solo che in questo modo le discussioni diventano una lagna infinita, e si accartocciano facilmente in una diatriba tra sordi, quasi inutili.
D'altra parte chi impedisce a chi ne ha la vocazione di definire velleitario, obsoleto, nostagico del bolscevismo, ultimo mohicano, plagiato dalla FIOM, etc anche Francesco Macheda, e con isso l'Università Politecnica delle Marche un covo di ignoranti, all'oscuro dell'esistenza del liberalismo e delle magnifiche sorti e progressive del taylorismo?

Caro Flavio, io non sono uno che si scandalizza facilmente, o che sul piano personale si offende con superficialità.
Anzi, diciamo pure che non mi scandalizzo e nemmeno mi offendo.
Però da tempo vado dicendo che c'è un grave degrado, direi perfino "tecnico", nelle discussioni, nei confronti d'idee, nelle relazioni tra persone sul piano "intellettuale", che si può riassumere in diversi modi: incapacità di ascoltare, e disinteresse nel "capire", nel chiedersi il senso di ciò che viene detto.
Le discussioni i limitano ad un abbaiarsi addosso, o (quando va bene!) ad un'esposizione ripetuta e ripetuta da parte di ognuno del proprio discorso, che sembra una "risposta" all'altro solo perché viene dopo, o perché riprende una parola, o una frase che serve soltanto da pretesto.
Non è una cosa che riguarda soltanto questo forum, ma tutto l'insieme dellle pubbliche discussioni, a cominciare da quelle dei talk-show politici.
E sempre di più si vedono, si sentono e si leggono atteggiamenti di disprezzo tra interlocutori, di attribuzioni incrociate di ignoranza: "se Lei avesse letto meglio quel documento...", "se foste meglio informati su ...", "se non vi limitaste a ripetere a pappagallo quello che sostiene ...", etc.
Atteggiamenti, ovviamente non nuovi in assoluto - ricordo bene certi compagni del PCI, con i quali era difficile avere una discussione tranquilla, o averla tout court, perché dopo dieci parole ti "accusavano" di non aver letto "l'ultimo numero di Rinascita, nel quale...".
Non nuovi in assoluto, ma allora erano comportamenti estremi, paradossali, oggi sono diventati il caso prevalente e il modo normale di discutere.
Devo dire che il forum, tutto sommato, ne è abbastanza immune rispetto alla media. Ma evidentemente per alcuni la "modernità" - l'unica, per altro - consiste nell'adeguarsi al costume dei tempi nell'aspetto peggiore.
pierodm
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