Alcuni anni fa, fui chiamato dal tribunale di Palermo a deporre come testimone dell’accusa in una non so più quale fase di non so più quale processo a carico di Dell’Utri. A sollecitare la mia testimonianza, erano stati i pm Ingroia e, se ben ricordo Scarpinato, che sostenevano la preesistenza di legami Berlusconi-mafia-Dell’Utri alle stragi. Insieme a Tangentopoli e allo sfacelo dei partiti. Esse indussero Arcore – per dirla con Ferrara – a «tentare una ricomposizione del quadro politico». Erano gli anni 1992-’93. Proprio sui fatti di quei due anni, avevo scritto Il sabato andavamo ad Arcore.
Scritto che fu il primo di tutte le testimonianze, poi fotocopiate a centinaia, sulle discussioni che il presidente di Fininvest teneva coi direttori dei suoi giornali, rotocalchi, tv ed altri media. Il mio libro, dilagato nelle prime settimane ma chissà perché infrattato nelle edizioni successive, era del 1995. Dopo oltre 10 anni i procuratori del processo Dell’Utri lo portarono in dibattimento come ulteriore prova della loro tesi sulle collusioni Palermo-Milano.
Mi recai a Palermo (taxi-Roma-Fiumicino a/r, volo Fiumicino-Favorita a/r, taxi Favorita-palazzo di Giustizia a/r, tutto a mie spese: ma cosa non si farebbe per la patria? insegnavano i nonni). Quel che invece proprio non potei fare né per la patria né per la procura, fu durante l’interrogatorio e il controinterrogatorio, andare un centimetro oltre o fermarmi un centimetro prima rispetto a quel che avevo scritto nel mio “diario”, benché sollecitato dalle parti a farlo: i pm per dimostrare che il mio libro diceva cose che la loro tesi sosteneva, cioè che Forza Italia era nata tra le bombe, i difensori per sostenere il contrario, e cioè che quel partito era nato d’estate, nel ’93, quando l’odore della polvere era già svanito.
Confesso che nonostante la mia simpatia istituzionale per tutti i magistrati, rafforzata nella giornata di Palermo dal comportamento amabile dell’anziano presidente e delle due giovani giudici a latere, mi è rimasta una forte perplessità: non tanto per l’insistenza di Ingroia nello stimolarmi risposte che convalidassero qualche tesi da lui precostituita (si fa anche nel giornalismo politico, una volta si chiamava “minzolinismo”), quanto per l’imbronciamento che notavo in lui se la mia risposta non era quella che forse s’attendeva.
Mi consolavo col vecchio Marx, a proposito dei pubblici amministratori: «Non esiste lo stato, esistono gli statali». Potrebbe voler dire anche: «Non esiste la magistratura, esistono i magistrati». Idem giuristi, costituzionalisti, giornalisti, i mille e mille componenti della “classe politica” e delle professioni. È per questo che il conflitto delle attribuzioni, scriveva ieri Giuseppe Maria Berruti «è un rimedio fisiologico alla dialettica tra grandi istituzioni».
E il 19 settembre la corte costituzionale si pronuncerà su come vada risolto un caso, quello sollevato da Napolitano, non contemplato dalla Carta ma deducibile dal suo contesto. E non dal suo contesto “monarchico” di cui ha parlato Zagrebelsky, ma dal suo contesto “repubblicano”, come intuì fin dall’inizio Einaudi, consapevole – al pari di tutti i liberali, ma non degli azionisti – che trasmettere intatto il prestigio della moglie di Cesare non è qualità ed esigenza solo dinastica, ma anche e innanzitutto istituzionale. «Coprire la corona», ripeteva il repubblicano Giovanni Spadolini.
Sta di fatto che di qui al 19 settembre possono succedere varie cose e non solo in Italia. Per dire, il 12 si riuniranno a Karlsruhe le “toghe rosse” della corte costituzionale tedesca, per stabilire il grado di elasticità dei cordoni della borsa teutonica. Col caos dei partiti italiani, che più la nave affonda e più si attengono alla disposizione borbonica agli equipaggi “facite ammuina”, un tratto di corda di quelle toghe, un po’ troppo doloroso per noi, potrebbe farci piombare nelle elezioni a fine novembre.
Subito dopo, spetterebbe a Giorgio Napolitano, ancora saldamente al Quirinale, di nominare il nuovo presidente del consiglio. Spetterebbe invece al suo successore, se le elezioni si tenessero alla scadenza di primavera. La manovra a tenaglia per indebolire il Colle, mira così a impedire che Napolitano possa gestire pienamente il dopo Monti: cioè la ricerca di un Monti 2. Molti vi hanno interesse. Quello di Ingroia, ideologia “laburista “a parte, è il pereat mundus fiat justitia, come per gli antichi finemondisti del Medioevo. Quello degli house organ è di consentire all’amletico cavaliere di ritrovare un minimo di presentabilità per la leadership sua o almeno di un vice Brancaleone. Analogo è quello del nuovo savanarolismo grillista-fattoide (neologismo di Menichini, che per la nostra democrazia laica e liberale dovrebbe suonare come amanita falloide).
Come facciano i costituzionalisti del partito d’azione a non capire che in questa fase della malattia la loro scienza non aiuta la democrazia, è cosa che non sorprende chi quella scienza l’ha vista operare anche in negativo fin dal 1944-45. Come facciano a non capirlo i magistrati di Palermo, è invece un problema. Nello scontro duro con la mafia essi hanno rappresentato il meglio del paese. Ma, come sapevano i loro predecessori, grandi e malinconici realisti, non si può distruggere il mondo per visioni da apocalisse, proprio quando la salvezza, grazie al sangue di magistrati e tutori della legge, è stata raggiunta.
Stiamo con loro come sempre e stiamo con Scalfari. Stavolta credo che avremmo assistito all’ineffabile: Scalfari e Montanelli avrebbero firmato quell’articolo in due.
Federico Orlando (Europa)