Sapere e far sapere è il passo fondamentale per la successiva presa di responsabilità collettiva.
Ovviamente questa è una condizione necessaria ma non sufficiente affinchè la collettività si responsabilizzi. Fatto sta che non sapere non permette questo passaggio.
Gabrive
pierodm ha scritto:Partendo dall'articolo di Zagrebelski si possono aprire molte finestre di discorso, comprese quelle che stanno prevalendo nel forum, impostate su calcoli di sfruttamento del suolo e delle risorse naturali in generale.
Quando ho letto l'articolo, io ho pensato che il punto focale fosse l'insensatezza, o meglio, il rischio dell'insensatezza, ossia l'abbandonarsi ad un meccanismo apparentemente razionale che in realtà porta alla catastrofe.
E' un tema che cominciai a percepire molti anni fa, aiutato da qualche casuale lettura, e che ho visto prendere corpo nel tempo, con l'emersione dell'ambientalismo.
Ho tentato anche di riproporlo qui, con un argomento intestato agli "stili di vita", senza molto successo.
Negli anni passati questo tema era stato dibattuto sotto la voce "sviluppo", messo a confronto con il concetto di "progresso".
Si tratta insomma di un problema che ritorna, e sbuca fuori dai pertugi più impensati, non solo nei momenti canonici in cui si tratta di ambiente e di equilibri ecologici, ma anche nei discorsi sull'economia, sull'innovazione tecnologica, sulla sostenibilità di certi stili di vita e scelte consumistiche, etc.
L'esempio dell'Isola di Pasqua è un caso estremo, perché si concretizza in una catastofe totale, nihilistica.
Non c'è bisogno di arrivare a tanto per cogliere l'eventuale insensatezza di uno sviluppo fuori controllo, o meglio di uno sviluppo fine a se stesso, più che obbediente allo scopo originario di essere al servizio dei bisogni reali della società che lo produce.
Per questo, mi mettono un po' paura questi calcoli che vedo fare in alcuni messaggi.
Se si tratta di calcoli fatti per capire i termini del problema, vanno benissimo.
Mi spaventa invece il caso che siano fatti, in fondo, per capire fino a che punto possiamo tirare la corda, ovvero quale sia il limite massimo dello sfruttamento possibile.