da pierodm il 14/08/2010, 20:32
Chango, tieni duro: fra quattro o cinque anni di forum scoprirai che è tutto inutile, ma sarà stato un eccellente esercizio di pazienza e di temperanza.
E torniamo alla mentalità (la domanda iniziale). Vorrei capire le origini di un modello di pensiero per cui chi si sente debole di fronte alla competizione con altri chiede (ed ottiene) elementi di rigidità protettiva e puo' quindi godere di "rendite di posizione". Secondo me è fortemente implicata l'etica cattolica (tendenzialmente tesa all'assistenzialismo di gruppo) mentre l'etica protestante è piu' orientata al merito individuale. Anche l'etica protestante prevede il sostegno del debole ma solo a livello individuale, di singolo caso.
Straordinario Franz. Davvero.
Dopo qualche anno si viene a scoprire che finalmente c'intendiamo su cosa significhi "rendita di posizione" (che fatica, per una cosa così risaputa e ovvia).
Ma, ecco la sorpresa: la rendita di posizione non sarebbe quella di holding monopolistiche, o di quelle che godono di nicchie tariffarie, magari con assegnazione esclusiva dello Stato, ma quella imposta dallo Statuto dei lavoratori e altra legislazione connessa.
E naturalmente da qui si parte per divagazioni sull'etica cattolica e protestante, sulla carità di gruppo o individuale.
Straordinario. Davvero.
Comunque, poiché hai evocato il "modello di pensiero" in relazione alla rendita di posizione, e poiché abbiamo chiarito (fra cinque o sei anni c'intenderemo anche su questo) che è concetto che riguarda elettivamente tattiche e strategie affaristiche, capisci da solo dove andare a recuperare tracce del "modello di pensiero" che cerchi.
Venendo alla "democratizzazione" io non reputo ad essa finalizzato un sistema di leggi per cui si creano lavoratori iper-tutelati di serie A ed altri di serie B. Direi che è un caso di protezionismo istituzionalizzato (questo si' di destra).
La democratizzazione avvenuta nel dopoguerra italiano è stata un fenomeno enorme, dopo la modernizzazione distorta attuata dal fascismo. Data l'enormità del compito, per alcuni versi si è proceduto più col piccone che con la lima: sono state demolite montagne di clericalismo, di classismo, di abitudine alla sudditanza, di retaggi borbonici, di stratificazioni che in certi casi apparivano medievali.
Certamente, la disuguaglianza tra cittadini e lavoratori di serie A e serie B è riprovevole: il fatto è che la tendenza di molte, importanti forze politiche, correnti di pensiero e centri di potere è stata costantemente quella non di adeguare la serie B alla serie A, ma di far diventare tutti di serie B, riducendo le tutele, le garanzie e i diritti.
In questi ultimi quindici anni, finalmente, ci sono riusciti.
Farsi una meraviglia, o trovare da ridire su tutto questo - che è cosa ben nota, valida non solo per l'Italia, ma per tutto l'occidente capitalista, nel quale le correnti liberiste hanno sempre tentato di ridurre per quanto possibile granzie e diritti, identificati sistematicamente come "vincoli alla libera impresa" - farsi una meraviglia di questi fenomeni, o negarli, risulta davvero strano, non solo in un ambito progressista, ma anche in quello di una normale destra liberaldemocratica che abbia un minimo di decenza storico-sociale.
In particolare, mi meraviglio molto (si fa per dire) del fatto che si parli con tanto entusiasmo e con tanta puntigliosità di disuguaglianza, quando si tratta di colpire il tema dei diritti e delle garanzie, ma poi si diventa vaghi e increduli quando si tratta di disuguaglianze sociali.
In pratica, ci entusiasma sull'argomento disuguaglianza solo quando si mira a smantellare le garanzie dei lavoratori di serie A: anzi, peggio, si accetta e si usa la discriminazione tra cittadini e persone di serie A, B e C solo in questo ambito ideologico aziendalista, ma non quando si discute della società nel suo insieme e dell'incompatibilità tra democrazia e disuguaglianze sociali esasperate.