Giorgio Graffieti ha scritto:La memoria integrale dei legali Fiom:
http://www.fiom.cgil.it/auto/fiat/sata/c_10_08_10-2.htmnello stralcio del dispositivo del Giudice citato dai legali non c'è traccia di una "censura" nei confronti dei lavoratori, anzi, è evidente l'accusa rivolta all'azienda di voler cercare di sbarazzarsi del sindacato più scomodo... non fa mica tanti giri di parole.
Comunque attendo sempre di riuscire a leggere il dispositivo del giudice, non uno stralcio di parte ... che ovviamente fa la sua parte.
Una cosa pero' appare chiara. Uno stabilimento di 4'000 dipendenti si ferma perchè 50 fanno sciopero e 3 si mettono troppo vicini ai sensori dei carrelli automatici?
Ma qui se c'è un pazzo è proprio Marchionne, a insistere a fare impresa in un simile contesto.
Franz
Considerato che normalmente le assemblee si svolgono in appositi spazi, non nel mezzo della linea produttiva, ritengo interessanti queste considerazioni:
La tensione che suscita la vicenda di Melfi ha a che vedere con il braccio di ferro di Pomigliano tra la Fiom, gli altri Sindacati e la Fiat. Nessuno lo dice apertamente, ma lo strisciante sospetto che si propaga indirettamente è che il licenziamento sia un’azione di ritorsione della Fiat contro i militanti della Fiom. A chi giova questo? Alla Fiom, non alla Fiat.
Mettiamo il caso che in quella notte del 7 luglio i tre lavoratori non si fossero allontanati dall’assemblea (in tutto erano 50 gli scioperanti) e non avessero sostato sui binari della linea produttiva. Peraltro, si è trattato di uno allontanamento intenzionale dei tre lavoratori, e non dettato da un’esigenza (come quella di andare al bagno, per esempio). Se i tre lavoratori non si fossero allontanati, i dirigenti della Fiat non avrebbero potuto accusarli di bloccare la produzione e, quindi, licenziarli. Le ore di sciopero sarebbero trascorse e, con buona pace per tutti, l’indomani la vita avrebbe continuato a scorrere nel suo fluire quotidiano. Di sicuro non avremmo letto sui quotidiani del “duello” a Melfi tra la Fiat e la Fiom: un’eco di formidabile valore ideologicamente eccitante. A chi giova inasprire gli animi? Alla Fiom, non certo alla Fiat.
E invece i fatti sono andati diversamente. Uno sciopero, tre licenziamenti, una sentenza. Una miscela che ha innescato l’incendio. Anzi due, lo sciopero e i licenziamenti, quanto cioè basta a unire, ideologicamente, Melfi a Pomigliano. Nessuno mette in conto la sentenza: e se Fiat avesse ragione dei licenziamenti? Se ciò che è accaduto a Melfi rientrasse naturalmente nelle relazioni aziendali di quello stabilimento? Ignorando la sentenza, si fa passare un pericoloso principio: soltanto perché iscritti alla Fiom, i dirigenti Fiat avrebbero dovuto chiudere un occhio sulle infrazione dei tre (di 50) lavoratori scioperanti. E’ ciò che più sta a cuore alla Fiom.
Il licenziamento disciplinare è la massima sanzione che un’azienda può infliggere a un dipendente nel caso il suo comportamento sia «motivato da una condotta colposa o comunque manchevole». La condotta antisindacale di un’azienda si palesa quando il suo «comportamento oggettivamente lede gli interessi collettivi di cui siano portatrici le organizzazioni sindacali». Queste, dunque, le “colpe” che il giudice di Melfi ha trovato nei dirigenti Fiat. Il suo ragionamento è scritto nel decreto che ha dichiarato “l’antisindacalità dei licenziamenti intimati ai tre lavoratori e ha disposto “l’immediata reintegra nel proprio posto di lavoro”. La vicenda, dal punto di vista giudiziario, non è chiusa.
Potrebbe darsi, allora, che il giudice di Melfi abbia commesso qualche errore di valutazione? E’ probabile. Sentenza alla mano, azzardiamo una valutazione.
L’incipit della vicenda è noto, ma vale la pena ricordarlo: tre operai vengono licenziati dalla Sata (lo stabilimento Fiat di Melfi) perché ritenuti colpevoli di aver sospeso la produzione dell’azienda, mediante l’interruzione della movimentazione di alcuni carrelli della linea produttiva. Il fatto è accaduto durante lo sciopero del 7 luglio scorso, cui avevano aderito circa 50 lavoratori. E qui occorre rilevare un primo aspetto: solo 3 dei 50 lavoratori vengono ritrovati a sostare lungo la linea di conduzione dei carrelli. L’esperienza insegna che, quando c’è uno sciopero in azienda, i lavoratori si riuniscono in assemblea, in un luogo appositamente destinato allo scopo (sindacale). Per il giudice è un fatto irrilevante: «non importa», ha scritto nella sentenza, «se tutta l’assemblea – composta da circa 50 persone – o soltanto i tre licenziati» siano stati redarguiti dai dirigenti aziendali perché sostavano sui binari dei carrelli. Anzi, aggiunge il giudice, quei poveri lavoratori vanno discolpati anche se, alle contestazioni dei dirigenti, «abbiano reagito in maniera anche vivace»: il loro “intento primario”, spiega il giudice psicologo, era quello “di difendersi”. «In particolare, sentendosi minacciati… i lavoratori hanno “trascurato” di considerare che la loro condotta potesse oggettivamente essere causativa di un blocco della produzione, pensando prioritariamente a difendersi».
La questione centrale del licenziamento riguarda il blocco della produzione aziendale, blocco che secondo i dirigenti aziendali è stato provocato dalla sosta in zona di transito dei carrelli dei 3 (di 50) scioperanti. Delle 15 pagine che compongono la sentenza, più della metà sono dedicate a un’analisi accurata e minuziosa sulla movimentazione e sull’automatismo del blocco dei carrelli. La questione si gioca su pochi “centimetri”. Infatti, per entrare in funzione il radar che ferma automaticamente i carrelli è necessario che “l’ingombro” si posizioni a una distanza di circa 10 cm. I lavoratori invece, senza un perché (che il giudice non si è nemmeno posto), si trovavano a una distanza di 80-100 cm; troppo alta (dei 10 cm), dunque, per poter essere ritenuti responsabili dell’attivazione dei radar di fermo automatico. Qualcuno però potrebbe obiettare che, prima che arrivassero i dirigenti aziendali, i lavoratori si fossero avvicinati un po’ troppo ai carrelli (cioè a una distanza inferiore di 10 cm), così da procurarne l’arresto. Sì potrebbe essere, ma è irrilevante per il giudice perché «i responsabili aziendali hanno contestato che la loro posizione fosse di ostacolo al transito degli Agv (i carrelli, ndr), senza paventare in alcun modo un blocco dovuto ad un precedente contatto».
Più enigmatico appare il ragionamento sulla condotta antisindacale dell’azienda. In tal caso, ciò che convince il giudice sul torto di Marchionne (qui va citato il diretto responsabile nei pensieri del giudice) è la considerazione che i fatti posti a base del licenziamento «sono maturati nel corso di un’astensione dal lavoro per ragioni economico-produttive e che il licenziamento ha interessato attivisti e militanti della Fiom, organizzazione notoriamente protagonista, a seguito di determinate scelte di politica industriale e di organizzazione del lavoro, operate dal gruppo Fiat (e, in particolare, il cosiddetto “accordo di Pomigliano”), di una serrata critica sindacale nei confronti di tutte le società facenti capo al gruppo medesimo». Non è tutto. L’ apoteosi per la Fiom (e, indirettamente, la denigrazione per Cisl e Uil) è infatti nelle parole conclusive: per il giudice, il licenziamento dei tre lavoratori è «obiettivamente idoneo (…) a conculcare il futuro sereno esercizio del diritto di sciopero e a limitare l’esercizio dell’attività sindacale, attraverso l’illegittimo allontanamento dell’azienda di militanti dell’organizzazione che è, notoriamente, fra le più attive nel particolare momento storico».
La storia è ancora lontana dal chiudersi. Un finale, a questo punto, è certo. Inneggiando alla lotta, come la Fiom sta facendo, fa dimenticare la vera posta in gioco: la libertà d’impresa (per la Fiat e le altre aziende del made in Italy), la libertà di lavorare (per i dipendenti della Fiat e gli altri lavoratori del Belpaese) e, soprattutto, il futuro di una parte dell’economia italiana.
“Il segreto della FELICITÀ è la LIBERTÀ. E il segreto della Libertà è il CORAGGIO” (Tucidide, V secolo a.C. )
“Freedom must be armed better than tyranny” (Zelenskyy)