Il vero rischio del «deserto dell'industria»
di Valerio Castronovo A giudicare dalla sostanziale passività con cui si sta assistendo da tempo nel nostro Paese alla costante flessione tendenziale della produzione industriale, si ha l'impressione che vada diffondendosi nella classe politica e nella cultura sociale un atteggiamento fra l'insensibilità e la rassegnazione di fronte alla prospettiva di una crescente deindustrializzazione.
Anche il dibattito sulla legge di stabilità è, alla fine, un "parlar d'altro". E nemmeno è imputabile, questa strisciante apatia e questa scarsa consapevolezza, a una scelta voluta in sede governativa verso un'economia dei servizi, rivolta a un terziario ad alto valore aggiunto. Eppure sarebbero ben gravi le conseguenze se non si ponesse freno all'emorragia della nostra industria manifatturiera e del suo indotto.
Insomma, si è in presenza di una sorta di malattia del languore, di un immobilismo altrettanto opaco quanto flaccido, a cui non sembrano contrapporsi efficaci antidoti corroboranti ma neppure seri motivi di riflessione su questo allarmante stato di cose che valgano a generare tangibili segnali di reazione da parte dell'opinione pubblica.
Eppure senza l'industria non ci saranno né crescita dell'economia né ripresa dell'occupazione: sia perché il settore manifatturiero ha una funzione determinante di traino, per le sue ricadute positive in altri comparti d'attività; sia perché produce e alimenta una serie di conoscenze e innovazioni tecnologiche, abilitanti per uno sviluppo su livelli più avanzati e sostenibili.
È quanto ha affermato, del resto, la Commissione di Bruxelles nella sua relazione programmatica per la definizione del nuovo budget comunitario 2014-2020.
A maggior ragione questo monito dovrebbe, quindi, valere per l'Italia se vuole mantenere il secondo posto in Europa dopo la Germania sul versante industriale, che finora si è riusciti a difendere, ma con sempre maggiori affanni e una logorante perdita di competitività, dovuta soprattutto alla mancanza di adeguate riforme strutturali.
In Eurolandia il contributo del settore manifatturiero al Pil s'aggira attualmente intorno a una media del 15,2 per cento. Sono perciò quasi cinque i punti in più da conseguire per raggiungere l'obiettivo del 20 per cento, indicato dalla Commissione, entro i prossimi sette anni: sia per migliorare la produttività della Ue (oggi in fase calante) rispetto agli Stati Uniti, al Giappone e alle nuove potenze industriali emergenti; sia per continuare ad avvalersi dei vantaggi comparativi acquisiti in alcuni settori di produzione più complessi e di elevata qualità, al confronto dell'America del Nord e dell'Asia sud-orientale.
È evidente, dunque, l'esigenza cruciale per il nostro Paese non solo di bloccare la parabola declinante dell'industria manifatturiera ma di risalire decisamente la china affrancandosi da una cappa penalizzante, mista di sconforto e di torpore.
Nei giorni scorsi il Parlamento europeo ha proposto una reinterpretazione del Patto di stabilità, che dovrebbe consistere nel liberare, per un certo periodo di tempo, dal vincolo del rapporto del 3 per cento fra deficit e Pil, gli investimenti destinati allo sviluppo delle infrastrutture, delle innovazioni e della ricerca, e quindi al di fuori della spesa pubblica corrente. E questo per ridare ossigeno e vigore all'economia reale, altrimenti appassitasi e tuttora penalizzata da un'eccessiva politica di rigore con pesanti effetti depressivi. Che è quanto i rappresentanti delle principali Associazioni imprenditoriali dell'Eurozona hanno auspicato a loro volta, anche ai fini della coesione sociale e della costruzione politica europea.
È pertanto indispensabile che, nel corso dell'iter parlamentare della Legge di stabilità, si giunga a valutare la possibilità (in base a un programma congiunto di politica industriale a livello europeo) di un rientro nel medio periodo nei parametri di Maastricht nel caso di interventi volti a migliorare il rendimento delle imprese e a incentivarne la specializzazione produttiva. Ciò che consentirebbe di ridurre, insieme al cuneo fiscale, il peso delle rendite di posizione e delle pastoie burocratiche.
Occorre comunque, da un lato, evitare che si riproducano sotto altre sembianze certe forme di capitalismo relazionale; e, dall'altro, prendere piena ed effettiva coscienza che, senza un consistente rilancio dell'industria, il destino del nostro Paese sarà compromesso inesorabilmente.
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