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7
Settembre 2001
Subject:
riflessioni precongressuali di un DS (molto lungo)
Avendo a lungo riflettuto, e dopo la lettura delle varie riflessioni proposte
in varie sedi (in particolare l'Istituto Gramsci e la Fondazione
Italiani-Europei), lettura che mi ha consentito di far mie alcune cose
che
qui dirò ma che altri hanno elaborato,penso non sia inutile dire
la mia(con
l'avvertenza che so che le mie idee sono discutibili e che sono pronto
quindi a rimetterle in discussione e anche a modificarle),premettendo
solo
che, nella migliore tradizione del vecchio PCI, ho considerato e considero
l'interesse nazionale prioritario anche rispetto all'interesse di partito.
Non vi nasconderò
che quando il Presidente del partito disse di condividere
la scelta dei reggenti di esprimere un'adesione "di partito"
al GSF (scelta
di cui sapevo purtroppo capace Folena, ma non certo D'Alema), mi trovai
ad
attraversare una profonda crisi, e ho anche pensato a lasciare un partito
nel quale sentivo di non potermi più riconoscere. Avendo poi ascoltato
di
persona quel che hanno avuto modo di dire i due uomini politici nei quali
ripongo le mie speranze, i soli a mio avviso che hanno un concetto di
quel
che dev'essere un partito nazionale di sinistra nel mondo di oggi, non
provinciale, capace di muoversi in una prospettiva globale, e mi riferisco
a D'Alema e ad Amato, mi sono convinto che quell'affermazione di D'Alema
rispondeva più a esigenze precongressuali che a una sua convinzione.
Tornando ai temi congressuali, il quadro della società italiana
che emerge
dalle ultime elezioni politiche è certamente disastroso, anche
se contiene
non pochi elementi che portano a concludere che la sconfitta è
stata
politica e non elettorale.
Il centrosinistra,
dopo l'ingresso del paese nella moneta unica, si è
misurato con il duplice problema delle prospettive del processo di
integrazione e della ridefinizione dell'interesse nazionale in un quadro
europeo. Forte del successo politico conseguito portando l'Italia nel
gruppo
di testa dell'Euro e della possibilità di mettere mano per la prima
volta
agli assetti del capitalismo e del modello di sviluppo italiani grazie
all'enorme impatto avuto su di essi dal risanamento e dall'attuazione
del
trattato di Maastricht (sviluppo del mercato dei capitali,
privatizzazioni,eccetera), il centrosinistra ha lavorato per
l'intensificazione del processo di integrazione e allo stesso tempo ha
puntato alla costruzione di un nuovo equilibrio tra vincoli internazionali
e
governo nazionale. In particolare -per limitarsi ad alcune questioni
emblematiche - i governi di centrosinistra hanno reso l'Italia protagonista
del processo di concreta sperimentazione di una effettiva politica estera
e
di sicurezza comune e di costruzione di una difesa europea, misurandosi
con
quella che dopo l'euro costituisce la principale sfida per l'edificazione
di
un'Europa "attore globale" e dimostrando una indubbia capacità
di coniugare
in modo nuovo interesse nazionale e interesse europeo (cfr. la guerra
del
Kossovo, le iniziative per la riorganizzazione dell'industria degli
armamenti, la partecipazione attiva
al dibattito sulla riformulazione della dottrina strategica della Nato).
In
secondo luogo, hanno dato vita ad un'inedita linea di politica economica
che
ha puntato
a favorire l'allargamento delle basi asfittiche dei capitalismo
italiano A questa azione si è affiancata una politica di rilancio
dei
mercato interno fondata sulla riduzione delle imposte e sul sostegno ai
consumi invece che sui tradizionali trasferimenti indiretti alle imprese.
In sostanza, ha iniziato a prendere forma una sorta di "europeismo
nazionale" che ha avuto come linee guida lo sviluppo, la liberalizzazione
dei mercati e la riqualificazione del profilo e della collocazione
internazionale del paese, considerati come elementi ineludibili per una
modernizzazione capace di valorizzare l'intera compagine nazionale, a
cominciare dal Mezzogiorno.
L'affermazione
di un nuovo "europeismo nazionale" si è tuttavia scontrata
con una serie di ostacoli esterni e di limiti interni all'azione del
centrosinistra, che ne hanno considerevolmente ridotto l'efficacia
trasformativa e l'impatto politico. Sul versante esterno, occorre
sottolineare che se da un lato tale indirizzo avrebbe richiesto tempi
più
lunghi per dispiegare tutti i suoi effetti positivi, dall'altro esso si
è
scontrato con le difficoltà oggettive della costruzione europea
di fronte ad
un atteggiamento dell'autorità monetaria americana meno cooperativo
che in
passato e all'emergere, all'interno dell'Unione, di un fronte di paesi
e di
partiti ostili all'approfondimento del processo di integrazione. Sul
versante interno, i governi hanno evidenzíato la tendenza ad un
"riformismo
dall'alto" culturalmente e politicamente inadeguato a fare i conti
con la
complessità della società contemporanea e con le dinamiche
dei suoi corpi
intermedi. Allo stesso tempo, la coalizione di centrosinistra non solo
non
ha accompagnato l'azione di governo cercando di costruire intorno ad essa
una rete larga di alleanze politiche e sociali, ma anzi ha spesso ostacolato
l'iniziativa riformista in una serie di settori cruciali per la
modernizzazione competitiva del paese.
Se pure le responsabilità e le ragioni di questi limiti sono differenti,
in
realtà essi appaiono come aspetti diversi dello stesso problema:
l'insufficiente capacità di dare un compiuto spessore e un profilo
politico
definito (e condiviso) alla linea di "europeismo nazionale".
In parte ciò è
imputabile ad un deficit soggettivo di cultura politica, ed in particolare
alla insufficiente elaborazione di un punto di vista autonomo
sull'esaurimento della stagione dei riformismi nazionali che desse corpo
ed
autoconsapevolezza a una nuova figura del riformismo ed impedisse di vivere
questo passaggio d'epoca come fine della sinistra tout court (il che vuol
dire, detto in altre parole, che è assai difficile costruire un
blocco
sociale intorno ad una strategia di riforme se non si è convinti
in prima
persona che ciò che si fa sia "qualcosa di sinistra"
e non un "cedimento"
alle ragioni dell'avversario dettato dall'emergenza e dai rapporti di
forza). Un problema che è stato sicuramente accentuato dalla difficoltà
della segreteria Veltroni ad affrontare in modo efficace il problema del
rapporto con la tradizione del Pci e con la storia d'Italia.
Limitarsi ad evocare la fragilità politico-culturale del centrosinistra
e
dei suoi
gruppi dirigenti appare tuttavia una spiegazione insufficiente, che
a sua volta rimanda a un problema più di fondo: la debolezza della
politica.
Si tratta naturalmente di una questione che non riguarda solo l'Italia
bensì
tutti gli stati-nazione europei (e naturalmente non solo europei), ma
che
nel nostro paese, per le modalità con cui è precipitata
la crisi della
"prima repubblica", si è presentata in una forma particolarmente
acuta. Non
è quindi un caso che il principale leader della sinistra italiana,
Massimo
D'Alema, abbia ricondotto il tema della politicizzazione (e quindi della
nazionalizzazione) del processo di europeizzazione del paese al problema
del
superamento della debolezza del sistema politico nel suo complesso, vista
come lo specchio di una più generale fragilità della nazione
italiana
rispetto agli altri paesi dell'Unione e ad alcuni interessi consolidati
interni. La conseguenza di questa analisi è stato il tentativo
di riforma
istituzionale e di "costituzionalizzazione" (e quindi di conversione
alla
politica) della destra, impostato con la Bicamerale. Nonostante una
convinzione assai diffusa nell'opinione pubblica italiana, ritengo si
sia
trattato dell'unico serio tentativo compiuto negli ultimi anni per
affrontare alla radice i "conflitti di interesse" che gravano
sulla politica
(ossia il preponderante potere di condizionamento esercitato da una serie
di
poteri su un sistema dei partiti fragile e costantemente messo in
discussione), per restituire ad essa autonomia e capacità di assolvere
ad
una funzione nazionale. Non deve quindi sorprendere che tale sforzo
(assieme a quello, ad esso strettamente connesso, di superamento del
duopolio televisivo), sia stato duramente contrastato, su sponde opposte
ma
convergenti, da tutti i principali beneficiari del sistema dei "conflitti
di
interesse" (Mediaset e Rai, Gruppo Espresso-La Repubblica, Fiat,
Rcs) fino
al suo fallimento. Le ragioni di tale esito sono probabilmente assai
complesse e sull'intera questione vi sono come è noto opinioni
diverse. E
tuttavia, probabilmente l'errore di D'Alema non è stato quello
di partire
dalla riforma delle istituzioni e del sistema politico, ma quello di non
aver agito con sufficiente radicalità sul terreno costituente avendo
scelto
uno strumento, la Bicamerale, che per sua natura incorporava elementi
di per
se incompatibili o contraddittori con il suo mandato.
In ogni caso, quali ne fossero le cause, il fallimento della riforma del
sistema politico e delle istituzioni ha riproposto il problema della
debolezza della politica proprio nel momento in cui essa era chiamata
a
ritematizzare l'interesse nazionale indicando una prospettiva condivisa
per
l'insieme del paese. Nel centrosinistra, la conseguenza è stata
l'affermazione dell'ulivismo: termine con il quale non intendiamo la spinta
al rafforzamento dell'Ulivo inteso come "casa comune" delle
diverse culture
e forze del centrosinistra, bensì la tendenza ad affermare il primato
di
alcune di esse - e segnatamente di quelle prive di una base di massa -
nei
confronti delle altre. Al di là dei disegni soggettivi dei suoi
propugnatori, penso tale tendenza vada soprattutto considerata come
un'espressione
e un sintomo dell'antipolitica, ossia di una condizione
innanzitutto oggettiva di debolezza della politica di fronte agli altri
poteri interni ed esterni all'Italia e di un'impostazione passiva e
subalterna del nesso nazionale - internazionale. Di qui l'oggettiva
situazione di conflitto tra l'ulivismo e I"'europeismo nazionale"
dei
governi D'Alema e Amato su ciascuno dei punti qualificanti della loro
azione; di qui la presenza di elementi di antipolitica nell'azione stessa
dei governi; di qui il profilo e l'assetto eminentemente"antipolitici"
assunti dal centrosinistra nella competizione elettorale (coalizione stretta
tra partiti deboli, demonizzazione dell'avversario, nessun dialogo con
le
forze minori ed anzi accentuazione del profilo maggioritario del confronto
elettorale con le liste civetta e la personalizzazione della campagna
elettorale); di qui soprattutto l'impossibilità per il centrosinistra
di
elaborare e di trasmettere una visione unitaria del futuro del paese capace
di qualificare politicamente l'alleanza.
Da questo punto di vista, lo scontro svoltosi nell'estate tra Amato e
Rutelli sul futuro dell'unione (che peraltro è stato l'unico momento
di
esplicito confronto politico tra i due potenziali candidati premier) appare
emblematico. Mentre Amato, inserendosi nel dibattito tra Delors,
Giscard,Schmidt e Fischer ha proposto un'idea della sovranazionalità
distante sia dal federalismo che dal nazionalismo e in grado, assai più
degli altri orientamenti in campo, di declinare assieme interesse nazionale
e interesse europeo, Rutelli ha esposto una visione classicamente
federalista del superstato europeo, in cui l'elemento di specificazione
delle particolarità e degli interessi nazionali era del tutto assente.
Un
modello che costituisce l'esatta rappresentazione di una declinazione
del
nesso nazionale - internazionale tutta squilibrata sul secondo elemento
del
binomio e che risulta di fatto funzionale alla riproposizione di un ruolo
subaltemo dell'Italia oltre che alla conservazione della configurazione
attuale del modello d¡ sviluppo.
A questo punto, è possibile spingersi ad identificare, al di là
del loro
contenuto antitetico, un elemento comune tra la proposta politica dell'Ulivo
quale essa si è venuta definendo durante la campagna elettorale,
e quella
della Casa delle libertà. Estremizzando al massimo, si può
dire che esse
delineano due forme diverse di "rivoluzione passiva" (ossia
di quella figura
politica caratterizzata da una gestione passiva dei processi di
internazionalizzazione che ne riduce l'impatto trasformativo sugli assetti
politici, economici e sociali interni), non a caso fondate entrambe sulla
marginalizzazione e la subalternità della sinistra. La prima, quella
espressione dell'ulivismo, è fondata sul primato del vincolo esterno
(cioè
sull'antipolitica); la seconda, sul tentativo anacronistico di recuperare
in
forme tradizionali un margine di autonomia nazionale giocando sul crinale
dei rapporto tra Europa e Stati Uniti.
Se questo è vero, è probabile che le due tendenze tenderanno
in futuro a
convergere e a trovare un equilibrio, anche perché l'opzione di
un
nazionalismo
liberista e della spesa pubblica delineata da Berlusconi in
campagna elettorale è oltre un certo limite incompatibile con i
vincoli del
patto di stabilità. A meno di un'improbabile svolta "radicale"
che punti
all'uscita del paese dalla moneta unica, è presumibile quindi che
il governo
Berlusconi ripieghi su una riproposizione più tradizionale del
nesso
nazionale internazionale, sul modello di quella delineatasi nel corso
degli
anni ottanta sulla base del noto intreccio e coesistenza tra "partito
della
spesa" e "partito del rigore". Tale sbocco sembra d'altronde
implicito già
nel modo in cui il governo di centrodestra ha introiettato il vincolo
esterno affidandosi alla tutela (non certo disinteressata) di Kissinger
e
Agnelli su due questioni delicate come la scelta del ministro degli esteri
e
il problema del conflitto di interessi. Si tratterebbe tuttavia di
un'opzione che porterebbe inevitabilmente ad eludere il tema della
modernizzazione competitiva del sistema produttivo, e che avrebbe come
conseguenza un declassamento dell'Italia nella divisione internazionale
del
lavoro, la progressiva uscita del capitale nazionale dai settori trainanti
della nuova economia e il ridimensionamento del profilo politico complessivo
del paese all'interno della nuova Europa. Sul piano degli assetti politici
interni, tutto ciò si potrebbe tradurre sia nella forma di una
permanente
subalternità dell'opposizione nel quadro di un congelamento degli
assetti
attuali dei poli, sia nello schema classicamente trasformista di un
assorbimento molecolare di pezzi del centrosinistra da parte della
maggioranza secondo il modello neocentrista già evidente nella
configurazione del governo.
In ciascuno di questi casi, la presenza sulla scena di una moderna sinistra
riformista può svolgere un ruolo determinante nell'impedire tali
sbocchi e
nel favorire una crisi politica del governo di centrodestra. Perché
ciò
avvenga, è senz'altro necessaria da parte dei Ds una seria riflessione
congressuale che affronti di petto i limiti di cultura politica che hanno
sino ad ora reso la sinistra italiana nel complesso inadeguata ai compiti
che essa ha avuto di fronte. Ma proprio per le ragioni fin qui esposte,
tale discussione avrà un senso e sarà produttiva solo se
essa non avrà come
oggetto la sinistra stessa e il tema della sua identità ideologica
o della
sua rappresentanza sociale, ma si misurerà con i problemi e le
prospettive
del paese proponendo una strategia per l'intera coalizione e superando
quello schema delle "due gambe" che non è altro che una
raffigurazione della
subalternità della sinistra e, di conseguenza, di tutto l'Ulivo.
Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre sviluppare a approfondire
"l'europeismo nazionale" delineatosi nel corso dell'esperienza
di
governo,definendo la piattaforma congressuale in stretto rapporto con
l'agenda politica italiana ed europea. Allo stesso tempo, la questione
dell'assetto della coalizione andrà affrontata in rapporto a quella
dell'evoluzione
dell'intero sistema politico. Da questo punto di vista, più che
dividersi
intorno a una modellistica astratta appare maggiormente proficuo
misurarsicon
alcune tendenze che si sono manifestate in occasione del voto
del 13 maggio. Proprio il raffronto con le precedenti elezioni politiche
ha
messo in risalto le profonde differenze tra le coalizioni del 1996 e quelle
del 2001. Da un lato infatti la Casa delle Libertà ha visto la
netta
affermazione di Forza Italia, che ha coinciso con l'assunzione da parte
dei
partito di Berlusconi di un profilo centrista che gli ha consentito di
attirare una parte degli elettori moderati del centrosinistra. Dall'altro
lato l'Ulivo ha perso quei connotati di alleanza tra un centro moderato
e
una sinistra riformista che aveva avuto nel 1996, e ha raccolto un
elettorato politicamente assai più omogeneo che si è concentrato
sui Ds e
sulla Margherita, delineando i contorni e la possibile consistenza di
una
forza politica grosso modo equivalente a Forza Italia.
Sulla carta ciò potrebbe prefigurare la possibilità di un
bipolarismo
articolato intorno a due grandi partiti alternativi e non più legato
indissolubilmente a un sistema elettorale di tipo maggioritario. E tuttavia
questa prospettiva appare subordinata all'esito di una "lotta per
l'egemonia" tra l'opzione "ulivista" e quella "socialista"
e alla capacità
del gruppo dirigente dei Ds di traghettare definitivamente l'eredità
politica del Pci sul terreno dei riformismo e di aprirsi realmente al
contributo di altre forze e di altre culture. Come dovrebbe aver insegnato
l'esperienza di questi anni, difficilmente tale scenario potrà
essere
costruito al di fuori di una più generale riforma delle istituzioni
e del
sistema politico (a cominciare dalla legge elettorale), le chiavi della
quale sono oggi saldamente nelle mani di Forza Italia. Allo stesso tempo,
a
meno di non considerare per definitivamente acquisito il monopolio dell'area
centrista da parte del partito di Berlusconi, occorre tenere presente
che la
costruzione di una grande forza riformista riproporrà comunque
il problema
del rapporto con l'elettorato moderato, ossia con quel centro senza
l'alleanza con il quale difficilmente la sinistra, per quanto forte e
strutturata, potrebbe aspirare al governo del paese.
Carlo Gualtieri
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Supporto
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