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19
Ottobre 2001
[Gargonza]
Occhetto e la conversione liberale ... incompiuta.
Su sinistra e liberalismo, durante l'estate ho letto una sorta di autobiografia
politica di Achille Occhetto ("Secondo me", Edizioni
Piemme, 2000) che traccia un lungo percorso approdato nel 1991
alla "svolta liberale incompiuta", con cui il Pci divenne Pds.
Fra l'altro se ne ricava come, almeno a partire dalla Liberazione, il
Pci sia stato diretto da un'oligarchia comunista, concentrata a Roma
nella sede nazionale del partito. Lo stesso Occhetto ne ha fatto parte
fin da ragazzo. Erano oligarchi che potevano vantare tre quarti di
nobiltà (intellettuale e culturale), chi per storia personale,
chi per
nascita, chi per studio e applicazione. Anche quando celebravano
riti di partito truculenti, a imitazione minore del Pcus, erano sempre
capaci di sentimenti ed emozioni da persone sensibili.
Oggi sono rimpiazzati da professionisti che appaiono freddi,
con poca spontaneità e a volte con scarsi slanci emotivi
(di cui certo sono capaci, ma che sembrano volere sacrificare
sull'altare di una battaglia politica molto personalizzata).
Da qui lo
stupore di Occhetto, più che rancore, per essere stato
emarginato da un gruppetto di giovani leoni che nella competizione
politica interna al partito si sono dimostrati poco inclini al timore
reverenziale, al rispetto dell'ordine gerarchico, alle buone maniere,
all'educata e disciplinata subalternità psicologica nei confronti
dei
"baroni". Al contrario, sono apparsi famelici nell'accostarsi
al
potere, violatori di rituali verticistici consolidati nella tradizione
del partito (benché decadenti), dissacratori di formalismi tanto
ipocriti quanto strettamente connessi all'identità del Pci e quindi
funzionali sia alla coesione del gruppo dirigente, sia al radicamento
degli iscritti.
Da questo
punto di vista, la storia della "svolta" attuata da Occhetto,
per trasformare il Pci in Pds, appare simile a quella della "riforma
e
trasparenza" di Gorbaciov per il Pcus. Entrambi hanno cercato di
cambiare forma e funzioni al partito, pensando che si potesse
evitare di romperlo, ed entrambi sono stati emarginati dai beneficiari
di una trasformazione che voleva essere democratica, antitotalitaria
e liberale, non certo liberista. Ma la similitudine finisce qui.
L'Urss si è dissolta e la Russia è diventata un paese iperliberista,
senza alcun freno, dominato dalle mafie, dalla corruzione, dagli
affaristi, dai prepotenti e dalla violazione sistematica della legalità.
E' accaduto che un popolo abituato alla pianificazione collettivistica,
alla guida centralizzata, alla delega permanente, quindi privo di un
qualunque senso di responsabilità individuale, nel
passaggio verso una società liberale ha ecceduto senza limiti
esterni e senza autocontrollo, fino al baratro economico e civile.
Invece il Pci non si è dissolto: ancora no e neppure si dissolverà
a Novembre. Tuttavia è rimasto un partito in mezzo al guado,
che non ha saputo dare sostanza poltica alla svolta formale del 1991,
che è andato invano alla ricerca di una nuova identità,
quando
invece avrebbe dovuto valorizzare la sua identità storica, già
forte
e fortemente radicata: un'identità politica di sinistra, solidarista,
democratica,
riformista. Un'identità non da cambiare, ma da
confermare come più matura e ormai autosufficiente, nella nuova
condizione di assenza del supporto ideologico.
Un'identità quindi immutata, ma divenuta autonoma dall'ideologia
e da integrare in un quadro politico nuovo. Fermi restando i
caratteri distintivi della sua ispirazione ideale,
il partito avrebbe dovuto esprimere una politica nuova, per dare
risposte alle domande nuove che provengono da una società diventata
ormai postindustriale, quindi una società in cui la cultura dominante
di
sinistra non è più quella del lavoro dipendente ("la
classe operaia")
e la cultura dominante di destra non è più quella del capitale
("il padronato").
In altre
parole, il partito non doveva cambiare - e in effetti non
ha cambiato - la sua impostazione solidarista e riformista. Non
doveva cambiare - e non ha cambiato - i suoi obiettivi concreti:
un'azione politica non antagonista (o antisistema), ma finalizzata
invece al governo delle riforme, all'uguaglianza delle opportunità,
alla distribuzione delle ricchezze, alla prevalenza degli interessi
comunitari su quelli individuali, alla risoluzione delle ingiustizie
sociali.
Ma al tempo stesso c'era - e ben poco si è fatto - da interpretare
compiutamente la modernità, per offrire rappresentanza credibile
anche a larghi strati di cittadini solidaristi e democratici che oggi
non sono assimilabili alla "classe operaia", ma sono invece
distribuiti
nei numerosi livelli di una nuova scala sociale che è molto articolata
e
in cui la mobilità verticale è molto rapida; sono cittadini
(elettori)
occupati in attività di lavoro molto diversificate, poco stabili,
a controllo sempre più autonomo, di contenuto sempre più
creativo.
In ogni caso,
con la caduta del muro e la conseguente riconquista
in Italia della pienezza della sovranità nazionale, è risultato
subito
evidente che il nuovo sistema politico italiano sarebbe stato
compiutamente democratico e liberale, quindi bipolare e con
effettiva possibilità di alternanza, com'è dappertutto nel
mondo
democratico e liberale. Si è inoltre evidenziato che il Pds, per
potere governare, avrebbe dovuto necessariamente confluire in
una coalizione, ovviamente fra diversi e con spirito liberale.
Perciò, con una o più gambe, con un ruolo egemone nella
coalizione, oppure no, dopo la svolta il Pds avrebbe dovuto aprire
porte e finestre alle libertà, ossia avrebbe dovuto comprendere,
assimilare e fare propri i principi del liberalismo - in ogni campo:
sociale, morale, individuale, politico, istituzionale, professionale -
applicandoli poi alla concreta attività politica.
Invece questo non è accaduto. Ancora oggi, dieci anni dopo
la svolta, non si può certo dire che il Ds sia portatore di una
cultura
politica anche liberale (democratica era già, la sua cultura politica,
anche se non lo erano del tutto i suoi meccanismi interni). Non si può
dirlo, perché la cosiddetta "base", l'anima profonda
dei Ds, ancora
oggi è insofferente al liberalismo e reagisce con un rigetto istintivo
al solo sentire la parola "liberale". E' vero che i dirigenti,
o almeno
parte di essi, hanno fatto professione (o forse solo sfoggio) di
liberalismo,
ma hanno fallito nel compito - che è proprio di un gruppo
dirigente - di infondere lo spirito liberale nel corpo profondo del
partito, di spiegare come liberalismo e liberismo siano concetti
diversi, di identificare il campo solidarista come opposto sì a
quello liberista, ma nell'ambito di un comune quadro politico
complessivo che garantisce l'alternanza: un quadro che non solo
è democratico compiuto, ma anche e necessariamente liberale.
Nel corso
dell'attuale dibattito pre-congressuale, finalmente, sembra
che su questo punto le varie anime dei Ds possano concordare.
D'Alema ha detto, a Reggio Emilia: "La grandezza dei processi in
atto
non chiama la sinistra a volgersi verso il passato, ma all'esplorazione
dell'avvenire". Bassolino con orgoglio, a Napoli: "Abbiamo ormai
abbandonato la strada del comunismo". E Morando, dovunque vada:
"C'è bisogno di una iniezione di liberalismo nel nostro partito".
Infine D'Alema a Genova, il 15 ottobre: "La prospettiva comunista
si
è esaurita, perché è risultato impossibile democratizzare
il comunismo.
Bisogna perciò cambiare il partito".
A questo
riguardo, scrive Occhetto (a pag.281 del suo libro):
"Quel che invece la svolta ha indicato, e che non è stato
assolutamente
compreso se non da un'esigua minoranza, era la necessità di una
conversione delle forze del movimento operaio al primato della libertà.
A lungo si è polemizzato, in quegli anni (i primi anni '90, n.d.r.),
attorno alla circostanza che il Pci fosse un partito diverso dagli altri
(dagli altri Pc occidentali, n.d.r.) e non avesse quindi il bisogno di
un così drastico cambiamento.
Ma le cose, come si è visto più chiaramente in seguito,
stavano
esattamente all'opposto. Proprio perché il partito comunista (italiano,
n.d.r.) era qualcosa di diverso, poteva essere capace di operare una
conversione; fosse stato il Pcf, non ci sarebbe stato nulla da fare: non
si sarebbe letto nel suo Dna nulla che potesse far pensare a una sua
sopravvivenza nel mondo nuovo.
Era dunque proprio la peculiarità del Pci che imponeva la sua
conversione al liberalismo. A un liberalismo non convenzionale, ma che
si fondasse su saldi valori e perciò in grado di contaminare e
unificare
ispirazioni diverse: i diversi riformismi italiani, le diverse volontà
di rinnovamento laiche e cattoliche. Ma una sincera interpretazione
della svolta, del suo travaglio morale e intellettuale, non poteva e non
doveva ridursi all'uso di parole come "liberalismo" o "mercato",
come se
fossero biglietti da visita, simboli da sbandierare per entrare nel
salotto buono.
L'epoca nuova non poteva che avere nel liberalismo il suo punto di
riferimento comune a tutti, per quel che riguarda la sfera etica, quella
economica, quella delle istituzioni e del rapporto tra i poteri.
Questo si è affermato con la svolta.
E' da qui che si riapre la sfida tra opzioni alternative. Se si vuole,
tra destra e sinistra."
L'ultima
frase, sia pure appena accennata, è quasi un timido
suggerimento a non parlare più di destra e di sinistra.
Purtroppo invece, in tutti questi anni, si è voluto continuare
a
chiamare "destra" e "sinistra" le due parti sociali
alternative.
Ma queste
sono parole che falsano la realtà. Infatti nell'attuale epoca
postindustriale la vera competizione fra le persone normali, in ogni
sistema che sia democratico e liberale, si esplica lungo l'asse tra il
"solidarismo" e il "liberismo", quindi tra due concezioni
economiche e
morali rispetto alle quali risultano sempre più trasversali la
destra e
la sinistra (che pure sussistono e con le rispettive diverse identità,
invariate, ma la cui contrapposizione è attenuata, perché
è diventata
di rilievo sociale ed economico decrescente, ormai marginale).
E' banale
rilevarlo, ma è un fatto che l'attributo "centrosinistra"
usato per la coalizione dell'Ulivo, con il trattino o senza, con una
sola parola o con due, ha avuto un doppio effetto negativo. Da una
parte, ha impedito ai post comunisti di prendere piena coscienza
del significato epocale della svolta del 1991 e quindi ha frenato nel
partito la maturazione dell'evoluzione liberale. Dall'altro lato, il
termine "sinistra" regala argomenti alla propaganda ingannevole
con cui Berlusconi, rasentando il ridicolo, ma con efficacia elettorale,
continua a demonizzare il "Pci-Pds-Ds che è rimasto comunista".
Certo la crisi dell'Ulivo non ha solo una motivazione lessicale, ma
è indubbio che il mancato rinnovo del lessico ha contribuito alla
sconfitta elettorale. Cambiare nome alla coalizione, chiamandola
solidarista anziché centrosinistra, non risolve la crisi, però
aiuta.
Aiuta ad attenuare il "timore della sinistra" che è ancora
molto
diffuso fra gli elettori non di sinistra. Ma aiuta pure la sinistra a
capire che la sua prospettiva non deve essere l'egemonia in una
coalizione e che l'obiettivo politico di valore strategico, oggi,
non è più l'unità della sinistra, bensì l'unità
dei solidaristi.
C'è
infine un importante nodo politico che non si è potuto sciogliere,
finora, proprio perché la svolta è rimasta incompiuta: il
rapporto tra
Ds e Rifondazione comunista. La scissione di Rc ha la sua origine
e motivazione nella svolta verso il liberalismo: gli scissionisti,
avendo rifiutato i contenuti liberali di quella trasformazione, si sono
collocati in una posizione conflittuale rispetto al Pds-Ds, addirittura
antitetica. Basterebbe questo per escludere ogni possibilità di
collaborazione politica. In più, Rc ha assunto un ruolo di sinistra
"antagonista", ossia antisistema, o comunque di opposizione
al governo, a qualunque governo nell'ambito del sistema democratico
e liberale. Anche per questo, a maggiore ragione, l'assetto politico
bipolare esclude ogni ipotesi di coinvolgimento - sia interno, sia
esterno (cioè consociativo) - di Rc nella coalizione solidarista
(oggi
l'Ulivo) che, nella prospettiva dell'alternanza di governo, si deve
opporre a quella liberista (oggi, la Casa di Berlusconi).
Ovviamente, qui si parla di livello nazionale di governo, il che non
esclude che nelle amministrazioni periferiche si possano comunque
realizzare convergenze elettorali e politiche con Rc, in ragione del
prevalere di specificità locali.
Dopo dieci
anni dalla svolta, si può pretendere che finalmente il
partito dei Ds compia scelte decise e prive di ambiguità. Due sono
queste:
1) La democrazia liberale.
Quindi il bipolarismo che comporta il rifiuto di ogni tentazione
consociativa in parlamento, sia con il polo liberista, sia con le forze
politiche antagoniste (come Rc).
2) Un'alleanza per governare, aperta e paritaria.
Quindi una strategia di coalizione che preveda intese di programma
e organizzative fra diversi, senza esclusioni a priori (perciò
fra
diversi di sinistra e non di sinistra) e con pari dignità (quindi
senza
tentazioni egemoniche).
Cordialità.
Genova, 19/10/2001. Umberto Candito (umberto.candito@libero.it)
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