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2
Gennaio 2002
[Gargonza]
Un partito e un'idea per il centrosinistra
Un partito e un'idea per il centrosinistra
GIORGIO RUFFOLO
Certo che
il centrosinistra, a capo del nuovo anno, sembra messo
piuttosto
male. È privo di un leader: come contraddire Berlusconi su questo
punto?
Sulla sua tolda, ci sono solo comandanti in seconda: troppi. È
disorganizzato in una coalizione malferma: basta seguire il recitativo
televisivo serale dei suoi molteplici portavoce per deprimersi. Fa
l'opposizione, sì, ma ponendo resistenze e ostacoli alla maggioranza,
non opponendogli un'alternativa di governo.
Questo terzo aspetto è senz'altro il più decisivo e critico,
per una
forza politica che fa del riformismo la sua bandiera. Il fatto è
che le
«riforme» e le controriforme, le sta facendo la destra. Una
destra che non manca
certo di contraddizioni, ma che un progetto ce l'ha e lo sta realizzando.
Le
sue mosse le sta mettendo in campo. E queste si collegano implicitamente
a
una visione della società che può essere senz'altro sgradevole:
mercatistica, privatistica, affaristica; ma che è a suo modo coerente
e non certo
priva di una base ampia di consenso.
Dove si riconoscono le riforme del centrosinistra? Se per riforme
intendiamo non i popperiani interventi a spizzico, ma cambiamenti istituzionali
di
fondo ispirati a un progetto di società, di riforme di questo genere
i
governi di centrosinistra ne hanno promosse due, rilevantissime:
l'ingresso nell'Unione monetaria europea e la riforma della Costituzione.
La prima
sono riusciti a realizzarla, suscitando nel paese una autentica tensione
di
consenso e acquisendo un merito storico imperituro. La seconda è
fallita.
Qualcuno ha parlato di una Canne. Ma dopo Canne il Senato romano andò
incontro al console Varrone per ringraziarlo di non aver disperato della
Repubblica.
Sul console D'Alema sono piovuti i sarcasmi più vili e più
ingiusti. Ha
fatto degli errori? Delle omissioni? È possibile. Ma il disegno
era
grande e giusto. È stato a un passo dal realizzarlo. E il suo fallimento
non è
stato dovuto solo al ribaltamento del tavolo di chi non si sentì
alla fine
tutelato sufficientemente nei suoi interessi più o meno inconfessabili.
Ma anche al sabotaggio di quella coalizione sommersa di radicalismo
estremista e di conservatorismo corporativo che, da sinistra, ha sempre
contrastato
il riformismo.
Oggi, all'opposizione, il centrosinistra si trova totalmente privo di
un
progetto riformista d'insieme. Non sta in questo la ragione essenziale
della sua crisi? Quale credibilità può avere e quale grado
di consenso può
suscitare una forza politica «riformista» che non dice per
quali riforme
di quel tipo strutturale che s'è detto intende battersi?
E sulla base
di quale progetto politico? Per la verità il più grande
partito del
centrosinistra, dei Ds, si impegnò nella elaborazione e poi
nell'approvazione solenne di un progetto, che avrebbe dovuto
concretamente marcarne l'identità e orientarne la politica. Ma
nessuno dei suoi
massimi dirigenti pensò mai di usarlo davvero come bussola.
Fu inalberato per qualche settimana come vessillo, e poi ammainato e
riposto chi sa dove. Radicata nella cultura dei partiti di origine marxista
è la
convinzione del progenitore che alla storia non si mettono mutande: con
il risultato, talvolta, di ritrovarcisi.
Quanto agli altri partiti componenti dell'Ulivo, il pensiero di
sobbarcarsi a quella fatica non li ha mai neppure sfiorati, impegnati
già
severamente com'erano a comporsi ricomporsi e scomporsi in complesse configurazioni
floreali.
È strano. A nessuno di questi riformisti immaginari (ricordo il
titolo
del libro di Vittoria Ronchey) viene in mente che le grandi riforme dell'età
socialdemocratica sono state ideate in progetti scritti, come talvolta
si afferma con sarcasmo, «a tavolino» (e dove mai li si dovrebbe
scrivere?):
che si tratti di Keynes o di Beveridge o dei fabiani, tutti comodamente
seduti alle loro belle scrivanie. Quelle grandi riforme sono figlie di
grandi riflessioni, che erano possibili allora e non più adesso,
dato
che i più eminenti intellettuali della sinistra sono costantemente
e
affannosamente impegnati a spostarsi, come le «squillo» di
un famoso
romanzo di Arthur Koestler, da un convegno e da una tavola rotonda all'altra,
senza soluzione di continuità.
Sta di fatto che il riformismo della sinistra italiana volteggia, ma non
atterra. È gonfio di parole, ma povero di cifre, di date, di
appuntamenti.
In queste condizioni penso che Berlusconi e la sua maggioranza possano
star sicuri che il «loro» riformismo, in parte, certo, mediatico,
non avrà
mai rivali preoccupanti per lungo tempo.
Se i leader del centrosinistra avessero un po' di tempo, potrebbero
concentrarsi su due impegni non del tutto frivoli. Il primo sarebbe
quello di costruire finalmente una proposta riformista d'insieme, seria
e
circostanziata, al paese. E centrata su un'idea forza. Se l'ideaforza
fondamentale della destra è il privatismo, in tutte le sue forme,
l'ideaforza della proposta della sinistra dovrebbe essere la
solidarietà, in tutte le sue forme: dalla lotta alla povertà
alla difesa dell'ambiente,
dallo sviluppo della spesa sociale e dei beni collettivi la scuola,
la
salute, la sicurezza personale, la sicurezza sociale alla promozione
della cultura, dalla modernizzazione delle amministrazioni e dei servizi
pubblici alla espansione e all'arricchimento dell'economia associativa
e
dell'autogestione sociale. Un'ideaforza formidabile davvero, poiché
è
sempre più chiaro che il malessere delle società ricche
del nostro tempo
dipende dalla scarsità di beni pubblici, non certo di beni privati.
Il secondo impegno potrebbe essere quello di costruire un partito, un
grande partito di tutti i riformisti italiani, fondato e impegnato su
quella
proposta: un nuovo Soggetto, nato da quel Progetto. Un partito, non una
coalizione, fatalmente centrifuga. Nuovo, non «inventato»:
e cioè
radicato nelle tradizioni storiche della sinistra, collocato nello spazio
geopolitico del socialismo europeo; ma libero finalmente dai condizionamenti
di una
nomenklatura che sopravvive a tutte le stagioni, e che attinge le fonti
della sua perennità non da un progetto di società, ma dal
manuale
Cencelli.
I dirigenti del nuovo partito dovrebbero nascere per naturale
fecondazione gioiosamente scaturita dagli incontri con la società
aperta e non per
clonazione burocratica. Come vecchio ex trotzkista, detesto i burocrati.
Penso sempre che, in quanto classe (o quasiclasse? Fate voi)
bisognerebbe eliminarli. Senza fare prigionieri: perché si riproducono
anche in
cattività.
http://repubblica.extra.kataweb.it/repubblica/Edizione_Giornaliera/scelta_web.html
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