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04-01-2002 - La Repubblica GIUSEPPE D'AVANZO
IL DIRITTO CALPESTATO
SE IL processo
a Silvio Berlusconi e al suo amico Cesare Previti non troverà presto
una decente soluzione, fiorirà nel nostro Paese un «illegalismo
istituzionale» che manderà a carte quarantotto l'amministrazione
della giustizia, l'ordinamento giudiziario, il codice penale, la sua procedura
e, quel che più conta, il diritto fondamentale che, in tutti i
tribunali, campeggia a grandi lettere nella formula: «La legge è
uguale per tutti». Il dubbio che quel diritto fondamentale fosse
pericolosamente in bilico si è già affacciato quando la
nuova maggioranza ha varato in tutta fretta tre leggi (falso in bilancio,
rogatorie, rientro dei capitali dall'estero).
Tre leggi che, pur non previste dal programma di governo e nel concreto
rischio di trasformare l'Italia in un «paradiso penale», avevano
l'assai poco nobile obiettivo di liberare il presidente del Consiglio
Silvio Berlusconi, l'azienda del presidente del Consiglio (Fininvest)
e gli amici del presidente del Consiglio (Cesare Previti) da grattacapi
giudiziari.
Era parso il fondo del barile. Il gioco è in corso. Un attore del
gioco, imputato e anche leader politico e capo del governo, fa approvare
dal suo governo e dalla sua maggioranza regole che avvantaggiano un esito
a lui favorevole. Già poteva bastare. La mossa, ad alto costo per
l'equilibrio dei poteri dello Stato, ad altissimo costo per la credibilità
internazionale del Paese, non è però sufficiente ad annichilire
i processi che hanno sullo scranno degli imputati il presidente del Consiglio
e gli amici del presidente del Consiglio e dunque, nel pomeriggio di Capodanno,
si è provveduto a una seconda mossa che costringe tutti ad alzare
il braccio per toccare il fondo del barile.
Accade che il governo, dopo aver cambiato le regole del gioco, decide
di rimuovere l'arbitro della partita sostenendo che la partita finora
giocata non è valida: deve tempo di gioco è ormai agli sgoccioli.
riprendere daccapo anche se il
L'affare è molto tecnico. Si può raccontare così.
Un giudice chiede un altro incarico. E' in un tribunale penale, vuole
il tribunale di sorveglianza. Lo ottiene. Prima di prendere possesso del
nuovo banco, conclude i processi più complessi che ha in affidamento
(complessi: per la gravità del reato, per l'affanno creato agli
imputati, per il numero dei testimoni coinvolti, per il tempo e il denaro
investiti dallo Stato). E' il percorso previsto da leggi e regolamenti.
E' una consolidata prassi. E' anche una scelta di buon senso, e doverosa
se si vuole un processo di «ragionevole durata»: perché
gettare al vento anni di lavoro distruggendo quel che è stato già
vagliato costringendo l'imputato ad affrontare, dopo anni di patimento,
un altro processo?
Così, da anni, accade che il ministro di Giustizia proroghi quel
giudice nel suo incarico fino a lavoro concluso. Anche Roberto Castelli,
ministro di Giustizia del governo Berlusconi, lo ha fatto prorogando,
una prima volta, la «missione» del giudice a latere del processo
IriSme (imputati Silvio Berlusconi e Cesare Previti).
Ora Castelli è chiamato a una seconda proroga. Prima di affrontare
lenticchie e cotechino, la rifiuta. Mutato il tribunale, il processo dovrebbe
ricominciare daccapo assicurando agli imputati una sicura prescrizione
del reato (tempo scaduto). Il ministro però sa che in extremis
il presidente della Corte d'Appello può «applicare»
(distaccare) quel giudice dal tribunale di sorveglianza al processo IriSme
e dunque smentisce se stesso: è vero scrive un alto funzionario
per conto di Castelli un dipartimento del ministero ha prorogato
l'incarico di quel giudice, ma la Corte dei Conti (non si sa sollecitata
quando, come, da chi e perché) ha dichiarato illegittima quella
direzione e quindi tutti i suoi atti. Dunque anche la proroga del giudice
a latere del processo IriSme. Che deve dichiararsi nullo sostengono
subito in aula gli avvocatiparlamentari di Berlusconi e ricominciare
daccapo (ci risiamo) anche se il tempo della prescrizione del reato è
in scadenza.
Fin qui i fatti. Soltanto in apparenza tecnici. Perché la sostanza
di quel che accade da qualche mese a questa parte è chiara come
l'acqua di una fonte.
Silvio Berlusconi interpreta il suo sacrosanto diritto alla difesa non
come un diritto da far valere nel processo, ma come un diritto da spendere
per difendersi dal processo. Per dirla in modo ancora più essenziale:
Silvio Berlusconi di Arcore non accetta di essere giudicato. Nel processo
dei «normali» dei Mario Rossi di Carugate, dei Raffaele
Esposito di Villa Literno le parti affrontano e sezionano i fatti;
scovano, adducono, deducono, calcolano prove; espongono le proprie ragioni,
contraddicono le ragioni dell'altro; escutono, controescutono confidando
nelle performances inventive, strategiche e tattiche degli avvocati. Berlusconi
non dovrebbe temere l'imperizia del suoi avvocati (li ha eletti anche
in Parlamento) né, a quanto sostiene, i fatti. E nonostante gli
straordinari atout (consapevolezza di innocenza, ottimi avvocati) si tiene
lontano dal processo.
La sua difesa è tutta «politica» e mai tecnica, come
accade ai «normali» e come converrebbe a chi ha così
alte responsabilità. Per evitare quel processo (e i processi all'amico
Cesare Previti), Berlusconi getta sul piatto della bilancia il suo peso
di leader di una maggioranza di governo capace di cambiare le leggi, i
reati, le forme del processo, di far approvare a un ramo del Parlamento
risoluzioni contro i suoi giudici. Da ieri, con la mossa del ministro
Castelli, si è spinto anche a utilizzare contro il tribunale che
deve giudicarlo le prerogative di capo di governo in attesa che i suoi
avvocati muovano contro i suoi giudici, per la settima volta, l'accusa
di «legittimo sospetto» (fattori esterni alternano il giudizio).
E' una strategia (o una necessità) che ha altissimi costi collettivi.
In altre occasioni, Repubblica ha riflettuto sulla pericolosa torsione
degli equilibri costituzionali. Oggi appare più rilevante considerare
il deficit di legalità che il Paese paga alla privata battaglia
del cittadinoimputato Silvio Berlusconi. Con la legge sul falso in bilancio
si è oscurata la trasparenza del mercato. Con la legge sulle rogatorie,
si sono pregiudicati i processi contro quel crimine organizzato capace
di trasferire cospicui capitali all'estero. Con il rientro dei capitali
dall'estero, si sono premiate quelle società, imprese e criminali
che, negli anni, hanno costituito all'estero «fondi neri»
destinati alla corruzione o all'evasione fiscale. Con l'invito di un sottosegretario
(Carlo Taormina) ad «arrestare» i giudici di Milano (mai smentito
da Berlusconi) si è intimidita la magistratura. Con la risoluzione
del Senato contro quei giudici di Milano (sempre gli stessi, chiamati
a decidere di Berlusconi) si sono poste le premesse di una dipendenza
del potere giudiziario dall'Esecutivo. Con la decisione di Capodanno del
ministro di Giustizia, che impedisce a un giudice di finire il suo lavoro
prima di assumere un altro incarico, si è dichiarata la morte di
migliaia di processi. A meno che il provvedimento di Castelli valga per
Silvio Berlusconi di Arcore e non per Mario Rossi di Carugate.
Se così fosse, quell'illegalismo istituzionale che sta distruggendo
l'amministrazione della giustizia e l'ordinamento giudiziario potrebbe
aver fine. Anche se dalle aule dei tribunali andrebbe cancellata quella
legittima speranza che recita: «La legge è uguale per tutti»
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