Percorso:

25 Gennaio 2008
Intervento del Presidente del Consiglio Romano Prodi
all'inaugurazione dell'Anno giudiziario

L’inaugurazione di questo anno giudiziario coincide con un momento particolarmente travagliato della nostra vita istituzionale. Per questo è ancora più importante richiamarci tutti ai fondamenti che reggono e debbono continuare a reggere il sistema dei poteri pubblici e l’equilibrio fra di essi. I fondamenti stanno nella Costituzione repubblicana, di cui celebriamo in questi stessi giorni il sessantesimo anniversario.

I principi sono chiari.

Il primo, fondamentale, principio al quale dobbiamo tutti rispetto è che “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (articolo 101, secondo comma): non hanno altre dipendenze, ma la loro “dipendenza” essenziale è dalla legge, non solo nel senso che, come tutte le autorità pubbliche, possono esercitare i poteri loro attribuiti soltanto sulla base e nei limiti di ciò che la legge prevede, ma anche nel senso che il loro compito, la loro “missione”, non è quella di provvedere, secondo criteri soggettivi individuali o di gruppo, a interessi pubblici rimessi alla loro cura, ma è solo quella di attuare correttamente e in modo imparziale la volontà della legge quando essa viene violata o nei casi di controversia. La soggezione del giudice alla legge va dunque al di là del comune principio di legalità, che condiziona qualsiasi azione delle autorità, anche amministrative.

E’ pur vero che l’applicazione della legge non si riduce quasi mai ad un’operazione meramente logico-deduttiva. Essa richiede infatti un’attività interpretativa che può essere complessa, e che spetta proprio al giudice fare. Per questo non è realistica la visione del giudice come semplice “bocca della legge”. La legge deve essere interpretata e applicata ai fatti concreti; fatti che, a loro volta, devono essere accertati e provati. Ma ciò che il giudice decide non può essere il frutto di una sua scelta libera nel fine, mossa da sue soggettive preferenze; essa deve essere il frutto dello sforzo di “rendere giustizia”, cioè di trovare, nel caso concreto, la soluzione corretta dal punto di vista di un ordinamento che ha una sua oggettività, una sua logica complessiva, e che compone nella propria complessiva coerenza i diritti e i doveri di tutti.

L’interpretazione e l’applicazione giudiziaria della legge non sono pure operazioni logico-formali in cui si possano usare, né forzare a piacimento, i margini di plurivocità quando non di ambiguità propri di ogni proposizione normativa, tanto meno seguendo il cinico detto secondo cui la legge si applica ai nemici e si interpreta per gli amici. Sono operazioni che devono sempre essere guidate dai principi che reggono e innervano, per così dire, il sistema normativo; guidate quindi dal criterio della conformità ai principi della Costituzione, dal canone della ragionevolezza come espressione del principio di eguaglianza, e in definitiva dal buon senso, perché al “summum jus” non corrisponda una “summa iniuria”. Solo così la “jurisprudentia” (e non è privo di significato che in questo termine compaia la parola “prudenza”) merita di essere definita, secondo l’espressione latina che leggiamo scolpita sulla facciata dei palazzi di giustizia, “divinarum atque humanarum rerum notizia, iusti atque iniusti scientia”.

Tanto più ciò è vero in un ordinamento, come quello odierno che si intreccia sempre più strettamente con altri ordinamenti, primi fra tutto quello europeo e quello internazionale. Sempre più, infatti, si fanno strada principi e diritti che toccano le esigenze essenziali degli esseri umani, la cui eguale dignità è il fondamento delle carte internazionali dei diritti. Anche e soprattutto i giudici sono coinvolti in questa nuova realtà.

Essi non sono più i solitari artefici di una giurisprudenza “autarchica”, legata a tradizioni nazionali. Sono infatti sempre più partecipi di un coro assai vasto, a comporre il quale concorrono anche le giurisprudenze di Corti sovranazionali e di quelle di altri paesi. Sono significativa espressione di questa realtà le recentissime, importanti sentenze della Corte costituzionale (n. 348 e n. 349 del 2007) che hanno definitivamente chiarito come i giudici nazionali, nell’interpretare le nostre leggi e nel valutarne la legittimità costituzionale ai fini della sollevazione delle relative questioni davanti al Giudice costituzionale, abbiano l’obbligo di riferirsi come “parametri” anche alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Il secondo, non meno fondamentale, principio che orienta la nostra Costituzione è “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (articolo 104, primo comma). L’indipendenza “esterna” del corpo giudiziario è condizione per la indipendenza del singolo giudice. Gli studiosi hanno discusso sull’uso del termine “ordine”, talora vedendovi l’intento di negare alla magistratura lo statuto di vero e proprio potere, al pari degli altri poteri dello Stato. In realtà nel nostro quadro costituzionale la magistratura è in tutti i sensi un “potere”, posto sullo stesso piano degli altri. Lo testimonia il fatto che i conflitti che sorgono fra la magistratura e altri poteri - e sorgono non di rado – costituiscono la fattispecie più frequente di conflitti di attribuzioni fra poteri dello Stato portati all’attenzione della Corte costituzionale. Ciò che vi è di caratteristico piuttosto è che la magistratura è potere “diffuso”, nel senso che ogni ufficio giudiziario investito di funzioni giudicanti, e anche, per altro verso, ogni ufficio della magistratura requirente, si presenta rispetto agli altri poteri statali come un “potere” di pari rilevanza. Come ha affermato la Corte costituzionale fin dal 1975 infatti, ogni ufficio esplica le sue funzioni “in condizioni di piena indipendenza, costituzionalmente garantita”. E tuttavia la qualificazione della magistratura come “ordine” non è priva di significato. Questa espressione infatti ha il senso di sottolineare che il “potere” di cui la magistratura è investita, è pur sempre al servizio di principi e interessi che stanno al di fuori di essa. E’ infatti un potere posto al servizio esclusivo dell’”ordine” giuridico della Repubblica. Potremmo dire che la magistratura è e dovrebbe essere, più di ogni altro, un potere “disinteressato”; mai portatore di interessi propri ma sempre e solo custode dei diritti di tutti.

Nella indipendenza dell’ordine giudiziario si radica la funzione di autogoverno (temperato dalla presenza minoritaria di membri “laici”) propria del Consiglio Superiore della magistratura. E’ questo un modello che altri Paesi ci invidiano perché assicura nel modo migliore l’assenza di condizionamenti indiretti dell’operato dei magistrati da parte dei poteri politici. Ma proprio per questo, e per la natura e i compiti propri della magistratura, è indispensabile che le attribuzioni del Consiglio Superiore, compresa quella delicatissima di reprimere sul piano disciplinare condotte di singoli magistrati contrastanti con le fondamentali regole deontologiche, siano svolte al di fuori di ogni logica spartitoria e di ogni tentazione di difesa corporativa. E’ di fondamentale importanza, infatti, che il Consiglio Superiore operi sempre in una logica di garanzia dei diritti del singolo ma anche, allo stesso tempo, dei principi del merito, dell’efficienza e della responsabilità professionale. L’attività anche recente della Sezione disciplinare - a cui non a caso la giurisprudenza attribuisce natura e connotati giurisdizionali - conferma l’importanza di attenersi sempre con rigore al rispetto di tali caratteri.

Un terzo principio costituzionale che dobbiamo tenere ben fermo è che“Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” (articolo 112). Proprio questo principio, oggi talora contestato, ma a mio giudizio a torto, costituisce la garanzia che l’azione penale sia esercitata non in base a valutazioni soggettive di opportunità, ma sempre e solo per imporre l’osservanza della legge. Aspetto questo che giustifica anche che la funzione requirente sia attribuita a magistrati appartenenti all’ordine giudiziario.

Ciò però comporta necessariamente che i poteri di investigazione non vengano mai utilizzati per scopi diversi dall’accertamento e dal perseguimento dei reati: di fatti cioè che abbiano reale consistenza di violazione della legge penale. In base alla Costituzione, il sistema dei reati e delle pene è assoggettato non solo al principio di stretta legalità, ma anche, e con forza non minore, al criterio secondo cui la sanzione penale è l’extrema ratio. Una sanzione da utilizzare solo quando, secondo l’apprezzamento del legislatore, altri strumenti risultino insufficienti o inadeguati. Non ogni disfunzione, non ogni fenomeno di malcostume, di cattiva amministrazione, o di deviazione da criteri di correttezza istituzionale, può per ciò solo essere occasione o oggetto di procedimento penale.

Si parla talvolta, impropriamente, di supplenza giudiziaria. Ma se i magistrati fanno il loro mestiere, individuando e colpendo i reati e solo i reati, non c’è nessuna supplenza, ma solo esatta applicazione della legge. E se così avviene, allora non conta né può contare il fatto che, quando colpevoli, anche i soggetti rivestiti di funzioni e responsabilità politiche siano colpiti al pari di ogni altro. Anzi guai se non fosse così. Se invece si verificasse che taluni magistrati utilizzino gli strumenti dell’investigazione e dell’azione penale fuori dai casi strettamente previsti dalla legge, magari con l’intenzione di ovviare a veri o presunti difetti di funzionamento del sistema politico-amministrativo o a casi di carenze di controlli o di insufficienza dei meccanismi di responsabilità di altro genere, allora saremmo ben al di là di un’opera di supplenza. Saremmo di fronte a fenomeni assai più gravi di vera e propria distorsione, per non dire di eversione, del tessuto istituzionale. Il sistema dei reati e delle pene non tollera per sua natura applicazioni “elastiche”. Un reato, o c’è o non c’è. Non esistono “quasi reati”. Questa nettezza di confini è indispensabile per mantenere al funzionamento dello strumento penalistico i caratteri costituzionalmente necessari di stretta legalità e di prevedibilità. Ciò è tanto più necessario in quanto l’uso dello strumento giudiziario può condurre, attraverso misure restrittive della libertà personale, a provocare pregiudizi gravissimi e irreparabili alla vita delle persone. Pregiudizi che nemmeno il riconoscimento ex post dell’errore può adeguatamente riparare. Proprio il fatto che la Costituzione preveda espressamente la “riparazione degli errori giudiziari” (articolo 24, quarto comma), anche indipendentemente dall’accertamento di condotte illecite, conferma che in questo campo l’errore deve essere il più possibile evitato, perché ha conseguenze di gravità estrema.

Signori Magistrati,

se tutti ci mantenessimo strettamente fedeli a questi che sono i principi della Costituzione, le tensioni e i conflitti che oggi tanto spesso vediamo manifestarsi fra politica e giustizia perderebbero i loro caratteri di virulenza e il loro aspetto di anomalie che affliggono la vita istituzionale del Paese.

Lo stesso monito rivolgo a quanti si impegnano nell’attività politica.

Dobbiamo tutti evitare di ragionare in termini di “ceti” e di relativi interessi. Chi è investito di compiti politici non può invocare esenzioni o prerogative di fronte alla giurisdizione diverse da quelle previste dalla Costituzione. Peraltro va sempre ricordato che anche le immunità e le prerogative contenute nella Carta fondamentale devono essere considerate sempre come eccezioni rispetto al principio generale dell’eguaglianza di fronte alla legge stabilita dall’art. 3 Cost. Proprio per questo esse devono essere applicate con criteri di tassatività.

Ne è conferma la giurisprudenza della Corte costituzionale, che, proprio a questi principi ha tante volte dovuto censurare leggi di privilegio o annullare deliberazioni di organi politici. La politica dovrebbe cessare dunque di pensare ed agire come se l’investitura popolare abilitasse a qualsiasi trasgressione, come se la violazione della legge, e tanto più della legge penale, fosse giustificabile sulla base di interessi “politici” e fosse comunque giustificata da una sorta di stato di necessità politica.

Ma, a sua volta, chi è investito della funzione giudiziaria non può mai agire come se disponesse di un potere libero, da mettere al servizio di qualsiasi causa che egli soggettivamente ritenga meritevole. Deve invece attenersi strettamente ai limiti della sua funzione, con tutta la prudenza richiesta a chi maneggia armi capaci di produrre, se usate impropriamente, danni irreparabili ai cittadini.

Le tensioni clamorose che si manifestano nei rapporti fra giustizia e politica - su cui si innesta un sistema dell’informazione spesso incline ad amplificare lo scontro più che a informare e far ragionare sulle condizioni del buon funzionamento delle istituzioni - non devono però farci dimenticare che la giustizia è in definitiva un servizio pubblico. Come tale esso non solo deve essere svolto nel rispetto dei principi che lo riguardano, ma deve anche essere organizzato e attuato con competenza ed efficienza.

E’ dovere specifico del Governo, del Parlamento e della stessa Magistratura non distogliere l’attenzione dall’obiettivo di rendere efficiente il sistema della giustizia penale e civile. Un obiettivo troppe volte vistosamente fallito. Così come non si può accettare in nessun modo che dalle case delle nostre città escano sacchi di rifiuti che non si smaltiscono perché non si sa dove portarli, allo stesso modo non è accettabile che in una causa civile una udienza venga fissata, come si è letto anche in questi giorni, al 2013 se non al 2020. Né è accettabile che una sentenza sia depositata a distanza di anni dal momento della decisione. Queste cose non si possono semplicemente ammettere, quale che possa essere la giustificazione.

Il tempo non è una variabile irrilevante, come del resto ben sa chi deve operare sotto la minaccia di termini perentori la cui scadenza conduce a conseguenze irreparabili. La ragionevole durata dei processi, prima ancora che un diritto garantito dalla Costituzione e dalla Convenzione europea dei diritti, è un’esigenza elementare del sistema giustizia. Un apparato in cui fatti di questo genere si verificano è un apparato malato: quali che ne siano, ripeto, le ragioni. Coloro che a questo apparato sono preposti e tutti coloro che ne fanno parte non possono adagiarsi sulla constatazione della molteplicità delle cause e degli ostacoli, della scarsità di risorse, della diffusione delle responsabilità. Ci sono livelli minimi di efficienza del servizio il cui mancato raggiungimento chiama in causa tutti coloro che sono in qualsiasi modo coinvolti, dal Consiglio Superiore al Ministro, all’ultimo cancelliere.

Non possiamo fatalisticamente accettare che lo stato attuale sia inevitabile. Né possiamo restare in attesa della “riforma” di turno che risolva il problema o prometta di risolverlo, mentre intanto le cose continuano ad andare avanti in un modo così rovinoso. I fatti dimostrano che, là dove vi sono persone (capi di uffici, magistrati, dirigenti, funzionari) che si attivano con capacità e convinzione per rendere ragionevoli i tempi delle procedure, questo avviene.

Occorre dunque che tutti, ad ogni livello, assumano un impegno straordinario in questo senso: dal Governo e dal Ministro, che dovranno fare la propria parte con adeguati provvedimenti al Parlamento che è chiamato a correggere le eventuali disfunzioni normative e ad assicurare le risorse adeguate. La stessa richiesta rivolgo al Consiglio Superiore; ad esso spetta scegliere i capi degli uffici, valutare se sia opportuno consentire a tanti magistrati di assumere o mantenere incarichi extragiudiziari oggettivamente in contrasto con la necessità di garantire l’efficienza degli uffici giudiziari. Così come spetta al Consiglio Superiore giudicare in sede disciplinare i casi più gravi di trascuratezza che incidono sui tempi della giustizia. Ai capi degli uffici giudiziari, che del problema dei tempi dovrebbero fare uno dei loro impegni fondamentali chiedo uno sforzo straordinario in nome del bisogno di giustizia che sale da ogni parte del Paese. Infine voglio rivolgere un accalorato appello ai magistrati, ai singoli magistrati tutti e ciascuno dovrebbero sentirsi coinvolti in questa vera emergenza. Ai dirigenti, ai funzionari, e agli altri operatori della giustizia, esterni all’apparato giudiziario rivolto un invito a dare sempre tutta la loro collaborazione, superando con uno sforzo di entusiasmo e di generosità, anche le tante disfunzioni organizzative che purtroppo continuano a gravare anche su di loro. Solo uno sforzo corale e solidale di tutti potrà consentire di porre rimedio a questa vera e propria, non più tollerabile, piaga del nostro sistema giudiziario. Un sistema che oggi è visto purtroppo anche sulla scena europea e internazionale come uno degli aspetti più negativi del nostro Paese.

Un ordinamento e una Magistratura che rispondano meglio e in modo più efficiente alla domanda di giustizia dei cittadini e del Paese renderanno anche il potere giudiziario più forte e credibile, più capace di conquistare o riconquistare, insieme alle altre istituzioni, la fiducia delle persone comuni. I cittadini chiedono ai poteri pubblici di rispondere in modo efficiente ai bisogni fondamentali della collettività.

A questa domanda tutti noi dobbiamo dare risposta e più di tutti lo deve fare proprio la magistratura, il cui potere rischia altrimenti di essere percepito come arbitrio e prepotenza e non come giustizia e garanzia.

Signori magistrati, sappiamo di chiedervi molto ma sappiamo che avete le capacità, la sensibilità, l’orgoglio e la forza morale per corrispondere alle nostre richieste. Noi tutti vogliamo vedere sempre in voi il presidio della nostra libertà e i primi difensori delle nostre leggi e della nostra Costituzione.

Il Paese vi permette sostegno e fiducia e vi chiede di essere sempre memori della funzione altissima che la Costituzione vi affida. Sono certo che ciascuno di voi, operando nel rispetto rigoroso dei propri poteri e nell’adempimento leale dei propri doveri, concorrerà a ridare fiducia ai nostri concittadini.



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