22 aprile 2007
Una maratona di 12 anni
e ora l'ultimo chilometro
Lettera di Romano Prodi a "La Repubblica"
Gentile Direttore,
dodici anni fa passeggiando con Parisi in un
weekend bolognese... potrebbe cominciare così il "diario del Partito
Democratico". Cosa succedeva in quella passeggiata? Si discuteva degli
equilibri di una coalizione che voleva prepararsi a una dura e difficile -
allora si sperava non lunga, ma fu poi lunghissima - campagna elettorale,
ci si scambiava opinioni soprattutto sulla perplessità che, quel giorno,
emergeva da un editoriale sul Corriere della Sera nel quale si delineava
il pericolo che intorno alla Quercia si sviluppassero solo "cespugli". Fu
quel pomeriggio che decidemmo, per le strane ispirazioni che in politica,
talvolta, ti colgono, di rispondere che, accanto alla quercia, avremmo
piantato un robusto e frondoso ulivo. Tredici anni fa, guardando in
televisione le prime performance politiche di Berlusconi... potrebbe
essere un altro incipit dello stesso diario.
Analizzando il messaggio e, soprattutto, il linguaggio del
neocandidato del centrodestra, il suo sapere catalizzare quel
sentimento di rifiuto della politica che il terremoto di tangentopoli
aveva generato in tanta parte del Paese, quella straordinaria attitudine
alla semplificazione, che in un discorso a Roma circa un anno dopo mi
portò a definire la sua la politica del "Se po ffa", "la politica di un
partito che sembrava il partito di quelli che lasciano la macchina in
seconda fila" mi consolidavo nella convinzione che si dovesse offrire al
centrosinistra una visione politica eticamente nuova, ma che tenesse anche
conto del cambiamento che la legge elettorale imponeva alla politica e ai
partiti. Mutazione, quest'ultima, che Berlusconi dava il segno di avere
compreso appieno, mentre il centrosinistra, che pure del nuovo sistema
elettorale poteva arrogarsi la paternità, sembrava non cogliere,
continuando anzi a "ragionare proporzionale".
Quattordici anni fa, discutendo con gli amici cattolici democratici...
ecco un altro punto di partenza in questa ricerca delle radici del Partito
democratico. Fu infatti dura, difficile, a volte aspra, la discussione tra
quanti volevano fare risorgere dalle sue ceneri il partito dei cattolici
per conservare un baluardo, una fortezza che, dopo la caduta del muro di
Berlino, per molti di noi, a cominciare da Nino Andreatta, non aveva più
senso. Ci fu una forte contrapposizione tra quanti non accettavano di
vedere finire l'esperienza della Dc come catalizzatore di tutto il voto
cattolico e quanti consideravano necessario superare la questione
cattolica, ritenendo che la fede dovesse essere guida morale ed etica, ma
non motivo di condizionamento delle scelte di schieramento politico. E
questa contrapposizione fu particolarmente dolorosa anche perché ci
rendevamo conto di quante e quali conseguenze avrebbe potuto portare in
futuro.
O ancora, quattordici anni fa, i primi incontri e i primi confronti
con Reichlin, D'Alema, Veltroni, Burlando, con la constatazione che,
ormai, erano caduti muri e steccati ideologici, che le differenze di
visione erano pochissime, che si condividevano linee molto simili nella
concezione del mondo, del progresso, del futuro. E, infine, ultimo
possibile incipit di questo diario, quindici anni fa lavorando con lena e
passione al fianco di Mario Segni al progetto di una nuova Italia, che
doveva nascere dal Referendum e dalla imposizione di nuove regole, a
partire dall'introduzione del sistema elettorale maggioritario e del
Presidenzialismo.
Ma nelle maratone, come si sa, il punto di partenza conta
relativamente. Ciò che conta è arrivare al traguardo e, soprattutto,
vincere. E oggi siamo arrivati all'ultimo chilometro. Siamo arrivati a
quel punto della corsa in cui, dopo avere superato tutte le crisi, dopo
avere pensato più volte all'abbandono, dopo avere pensato di non farcela,
si sente rinascere l'energia, ci si sente improvvisamente freschi e ci si
prepara alla volata finale. Credo che nei giorni scorsi si siano dati un
impulso e una carica al Partito democratico tali da renderne la nascita
ineluttabile anche al di là delle nostre volontà. E' per questo che
ritengo una discussione di retroguardia quella sulla collocazione
internazionale del Partito democratico. Il progetto è di tale portata che
dobbiamo avere l'ambizione che sia l'Europa riformista, il mondo
riformista a seguirci, non noi a cercare ospitalità sotto l'ombrello
altrui. Anche perché questo dilemma lo hanno già risolto i leader europei
venuti a parlare dalla pedana dei congressi della Margherita e dei Ds
quando hanno semplicemente riconosciuto un fatto ovvio: che a Strasburgo
le forze del centrosinistra possono vincere solo se stanno insieme e che
la soluzione italiana può anche essere la soluzione europea.
Io inoltre ritengo fondamentale per il successo del Partito
democratico, molto più che il tema della sua collocazione
internazionale, affrontare e consolidare alcuni punti programmatici a cui
guardare come a delle linee guida essenziali.
In primo luogo dovremo fare nostro il bisogno di Europa che il Paese ha e
dovremo sapere spiegare al Paese l'inevitabilità della scelta europea. E
dovremo dimostrare il nostro convinto europeismo anche nel coltivare una
classe dirigente giovane e che abbia una visione sopranazionale, giovani
donne e uomini da mandare a Strasburgo con le elezioni del 2009 a
misurarsi con la politica delle grandi scelte che il nostro continente è
chiamato a compiere. Giovani che vadano a imparare l'Europa per tornare in
Italia a insegnare l'Europa.
Inoltre, senza evocare ancora una volta "lo spirito delle primarie",
dobbiamo però trarre da quella esperienza un grande insegnamento, un
segnale che quella domenica di ottobre ci è arrivato chiaro e forte e che
non possiamo perdere: la politica del nuovo secolo è partecipazione ed ha
successo solo in quanto è partecipata. Dobbiamo quindi inventare nuovi
modi per allargare il coinvolgimento dei cittadini, in una dialettica
dell'inclusione e della condivisione tale da fidelizzare il loro consenso.
E poi una politica economica forte, assertiva e giusta, che ci renda meno
fragili nel contesto europeo, più competitivi nello scenario
internazionale, più aperti alle regole di mercato, ma che guardi anche a
una più equilibrata distribuzione della ricchezza all'interno del Paese,
da realizzarsi senza sciagurati dibattiti dottrinari, tesi a distrarre dai
problemi reali.
E il governo sta lavorando a tutto questo: all'equità fiscale, come
alle politiche per la famiglia e i giovani, alle liberalizzazioni,
come alle nuove regole di governance dell'economia, alla politica
della casa, per i giovani per la famiglia, con l'obiettivo di
restituire agli italiani, a fine legislatura un paese di nuovo in
equilibrio, che si regga saldo sulle sue gambe. Un Paese con meno
conflitti, anche di interessi. Con una politica estera che lo renda un
nuovo protagonista dell'impegno multilaterale per la pace.
Ecco, è per questo, perché ritengo che al compimento dei prossimi
quattro anni avremo costruito il Partito democratico e realizzato
questi obiettivi di governo, che venerdì ho annunciato nel corso dei due
congressi la mia intenzione di considerare conclusa la mia missione con la
fine della legislatura. Ho sempre detto di non considerarmi un uomo per
tutte le stagioni, così come ho sempre pensato che il Paese abbia bisogno
di dare spazio a forze giovani che si mettano con entusiasmo e con forza
al servizio del Paese. Io, finita la maratona, conto solo di godermi il
piacere di una bella doccia.
(22 aprile 2007)
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