Il caso Unipol - Alfredo Reichlin - da l'Unità 6 gennaio 2006
Se gli affari fanno politica
Bisognerebbe cominciare a parlare della sostanza dei problemi - davvero molto complicati - che emergono dalla feroce campagna di delegittimazione dei Ds. Perché se non si parla di questi problemi non si capisce niente. Davvero tutto consiste nella colpa dei dirigenti della sinistra di aver fatto troppo il «tifo» per la scalata della Bnl da parte di una società finanziaria sorretta dalle cooperative? Io non sono tra quelli che alzano le spalle quando si ricorda Berlinguer. Non mi è mai piaciuto un certo stile politico né apprezzo le troppe telefonate.
Penso però che la cosa più «morale» che si possa fare non è dare lezioni di moralità a chi proprio non ne ha bisogno. E cominciare a sollevare il grande tema politico che questo polverone sta nascondendo. Perché - come ci ha insegnato Gramsci - in ciò sta la misura della moralità di un capo politico: nella sua capacità di assolvere al compito che la storia mette sulle sue spalle. E oggi questa capacità consiste (ecco la vero riflessione critica) nel misurarsi con la enorme partita politica e morale che si gioca con queste elezioni, a cominciare dalla necessità di rompere il rapporto incestuoso tra politica e affari che è davvero molto profondo. E lo è essenzialmente per una ragione: perché è connaturato al modo di essere del capitalismo italiano.
E non potrebbe essere altrimenti dopo decenni di protezionismo statale, di economia mista, di banca pubblica, e poi di difesa della concorrenza attraverso la svalutazione della lira e la creazione di un sistema organizzato di corruzione che mentre arricchiva certi politici (il CAF) consentiva alle imprese di lucrare sovrapprezzi sino al 30 per cento (calcoli Bankitalia). Senza dimenticare il piccolo particolare che, dopo la crisi del sistema politico della Prima repubblica, il mondo delle imprese ha assunto direttamente, per la prima volta nella storia del Paese, la direzione politica.
Si è seduto a Palazzo Chigi. Perché questo era Berlusconi. Era (ed è) è un grande imprenditore, il quale non ha goduto solo del consenso della miriade di piccole imprese che si esprimeva nella direzione della Confindustria di allora, ma della benevolenza degli Agnelli.
Perché ricordo queste semplici verità? Perchè mi preoccupa la debolezza culturale di una certa sinistra la quale vuole governare ma non si rende ben conto che una cosa è criticare certi atteggiamenti di D'Alema o di Fassino ma ben altro cosa è il fatto che il fallimento di Berlusconi non si risolve semplicemente come il fallimento di un uomo, ma pone seri interrogativi sulla capacità del mondo degli affari di evolvere verso la formazione di una grande borghesia capace di essere classe dirigente e di non ridursi a un coacervo di lobby.
È vero che con Montezemolo una novità c'è stata. Ma se debbo cercare una spiegazione della violenza con cui i giornali controllati dalla Confindustria (Corriere, Stampa e 24 Ore) attaccano fino all'insulto i ds questa spiegazione io la trovo nella scelta del nuovo «salotto buono» di non limitarsi a fare quel semplice lobbismo che consiste nel condizionare le singole decisioni del governo ma di puntare più in alto fino a influenzare la conformazione del sistema politico, intervenendo nei processi stessi di organizzazione dei partiti politici.
Mi si dirà che ognuno fa il suo mestiere. Giusto.
È infatti con le nostre ingenuità che io me la prendo. La violenza di questa aggressione non è un complotto di misteriosi congiurati. È direttamente proporzionale alle preoccupazioni politiche di un mondo economico che si fonda tuttora in larga parte sulle «scatole cinesi» e sui patti di sindacato. Per cui si entra nel controllo di una impresa con il 2-3 per cento. E questo non si fa per renderla più produttiva ma per altri scopi: tessere «relazioni», conoscere il lato nascosto del mercato per compiere speculazioni finanziarie, ottenere prestiti a costo minimo delle banche in cui ci si è infilati, ecc., ecc. È il gioco che hanno insegnato anche a Consorte. Voglio dire che in larga misura è la struttura stessa di questo sistema che mentre richiede protezioni politiche e giornalistiche si guarda bene dal muovere un dito per aprire ed allargare i mercati. Anzi. Vade retro cooperative. L'errore di Unipol è non aver capito in quale ingranaggio stava mettendo il dito.
Torno così al tema politico. E mi chiedo se chi ci ammonisce (giustamente, io dico) a non confondere politica e affari si rende conto della partita che si gioca con le prossime elezioni. Essa riguarda il riassetto più complessivo dei poteri, di tutti i poteri, cosa che da tempo è in discussione: dalla proprietà delle banche, all'indipendenza della magistratura, al rapporto troppo stretto tra il grande potere economico e i giornali. Ed è proprio per questo che il ruolo della politica diventa cruciale. Perché se non è la politica che ritrova la forza per dettare le nuove regole, succede semplicemente questo: l'Italia va allo sbando e altri decideranno del suo destino.
Ecco la vera discussione politica che dobbiamo fare. Una seria discussione critica (e anche autocritica) che dobbiamo aprire non solo al nostro interno, ma con gli alleati e con le forze produttive e intellettuali del paese.
Non si tratta solo di difendere i diritti delle cooperative e di impedire che il mercato finanziario come quello dei diritti di proprietà sia una specie di circolo chiuso di tipo massonico. Ben altro è il compito che spetta oggi alla sinistra. La verità è che solo una forza con la nostra storia può dare al paese la garanzia di cui esso ha ormai un assoluto bisogno. Parlo della garanzia che la politica non si lascerà strumentalizzare nelle lotte per la nuova distribuzione del potere economico e si impegnerà per impedire il declino nel solo modo possibile: garantendo l'interesse generale attraverso l'autorità dello Stato di diritto e creando una economia più competitiva più aperta e più orientata al futuro.
Lo so che non è semplice. Richiede un alto profilo culturale, una politica che guidi, orienti, non si lasci schiacciare dalle urgenze quotidiane, non giochi di rimessa ma sia in grado di esprimere lo spessore e la capacità di progetto necessari a tornare sul ponte di comando e a trasmettere la consapevolezza che solo essa potrà guidare adeguatamente il paese. Noi abbiamo questa capacità? Altro che questione morale. Non è l'onestà che ci manca.
Teniamo quindi i nervi a posto. Gli uomini seri che guardano con ansia e preoccupazione al futuro della democrazia italiana non possono non rendersi conto di quali conseguenze avrebbe un disegno politico (che io credo esista, altrimenti non si spiega questo enorme miscuglio di accuse infamanti, di sospetti tenebrosi, di manipolazione delle inchieste giudiziarie e delle intercettazioni telefoniche, in cui l'anticomunismo di destra e quello «gruppettaro» si danno la mano) e che è volto a colpire i Ds, riducendoli a una forza delegittimata anche moralmente che può soltanto dare i suoi voti a un nuovo governo ma non può più pretendere di partecipare in posizione eminente alla sua guida.
Questo disegno non esiste, oppure è soltanto velleitario? Tanto meglio. L'importante è che le persone serie misurino le conseguenze. Credono davvero che in quel caso si creerebbero le condizioni per dare al paese una guida politica capace di fare appello alle sue energie profonde per ridargli fiducia e rimetterlo in cammino? Altro che superamento del rapporto tra politica e affari. Gli affari tornerebbero a comandare. E nella debolezza del sistema politico, privato della sua ossatura fondamentale, sarebbe il potere economico a usare i partiti, e non viceversa.