Se facciamo una correlazione tra le ricette
per creare nuovo impiego proposte dalla destra e dalla sinistra
- dalla destra e sinistra che ci sono effettivamente, nei paesi
avanzati - i risultati che troviamo sono piuttosto ambigui:
destra e sinistra, quelle che ci sono, hanno una ricetta molto
simile nel Regno Unito e questa ricetta è piuttosto diversa
da quella della destra e della sinistra continentali europee.
Più in generale, tutte le ricette dei paesi anglosassoni,
sia quelle della destra che quelle della sinistra, hanno una
forte aria di famiglia: in Australia, Nuova Zelanda, Canada,
Stati Uniti, tutti predicano flessibilità di mercato
come ricetta dominante. Le cose stanno in modo diverso nell'Europa
continentale, dove i "flessibilizzatori" convinti non sono predominanti
né nella destra, né nella sinistra. E sono ancora
diverse in Giappone: anche qui i flessibilizzatori sono in minoranza
sia al Governo che nel principale partito di opposizione: per
quest'ultimo, poi, parlare di sinistra mi sembra eccessivo anche
se questo termine tollera forti stiracchiamenti.
Così stando le cose parlerò prima
di occupazione e di politiche per stimolarla, in Europa e in
Italia, oggi, alla vigilia dell'Unione Monetaria. Una volta
definite queste, mi porrò il problema se esista una sinistra
in Italia che sia in grado di sostenerle. Ciò mi condurrà
a sottolineare le due caratteristiche che fanno dell'Italia
un caso particolare, anche all'interno della "specie" delle
sinistre continentali europee: il peso del tutto eccezionale
che ha il sindacato nella definizione delle principali politiche
pubbliche e, per converso, la divisione e la relativa debolezza
dei partiti che si collocano tra la sinistra e il centro. Ciò
ha per conseguenza che quelle politiche strutturali che devono
accompagnarsi ad una strategia di rilancio dell'occupazione
debbono anche appoggiarsi sul consenso del sindacato, un gruppo
di interesse che spesso avrebbe buone ragioni organizzative
per opporvisi. Si tratta di una situazione anormale, probabilmente
non duratura e che dovrà essere oggetto di riflessione
e di iniziativa politica in tempi brevi.
Veniamo alla disoccupazione europea. Sulle
sue cause, e sulle differenze tra la situazione europea e quella
americana, sono state scritte biblioteche e non posso neppure
a volo d'uccello entrare nel merito tecnico degli argomenti
che si contrappongono. Quello che farò è una rapidissima
menzione delle principali tesi interpretative che si contrappongono,
per descrivere poi un po' più diffusamente quella che
trovo più convincente. Prima, però, vorrei sottolineare
un paio di elementi di contesto che non bisogna mai perdere
di vista.
Il primo è che - anche lasciando fuori
il Regno Unito, che ha seguito una politica economico-sociale
alquanto diversa dagli altri paesi europei - la disoccupazione
e i tassi di attività in Europa (e questi due aspetti
del mercato del lavoro vanno sempre valutati insieme) sono molto
diversi a seconda dei diversi paesi e, soprattutto, a seconda
delle diverse regioni in ogni paese. Vi sono paesi, ma soprattutto
regioni, in cui i tassi di attività sono alti e la disoccupazione
non è un problema. E vi sono regioni e paesi - tra i
paesi la Spagna, tra le regioni il nostro Mezzogiorno e i Lander
orientali tedeschi - in cui i livelli di attività sono
bassi e la disoccupazione è alta. In altri ancora, la
disoccupazione è alta, ma il tasso di attività
è abbastanza elevato da neutralizzare parzialmente gli
effetti della disoccupazione sul reddito famigliare.
Il secondo elemento di contesto è quello
dell'Unione Monetaria. Per gran parte degli anni '90, l'esigenza
di rispettare i criteri di convergenza del trattato di Maastricht
ha imposto a molti paesi - soprattutto a quelli che provenivano
da, diciamo così, situazioni più disordinate -
politiche fiscali e monetarie molto restrittive. Questo ha prodotto
un rallentamento significativo nella crescita economica, rallentamento
più forte nei paesi provenienti dalle situazioni più
"disordinate", se vogliamo continuare a usare questo eufemismo.
In Italia, nel corso degli anni '90, si è perso almeno
un punto annuo medio rispetto agli altri paesi europei e quasi
due rispetto agli Stati Uniti: su un periodo che ormai è
quasi decennale, si tratta di otto-quindici punti percentuali
di arretramento relativo nel reddito pro capite, a seconda del
paese con il quale ci confrontiamo, e non è una piccola
cosa. Fa sempre parte del contesto che stiamo descrivendo il
realistico timore che i patti di stabilità - cioè
i vincoli sulla politica fiscale dei singoli paesi chela Germania
ha imposto al vertice di Amsterdam - protraggano una situazione
di scarso sviluppo per tutti i prossimi anni; per tutti gli
anni, e non saranno pochi, in cui la credibilità dell'Euro
sarà avvertita come il problema dominante. Un articolo
anonimo uscito sulla rivista "Mulino-Europa" nel maggio dell'anno
scorso, dal titolo significativo: "Un'era glaciale per l'economia
europea", spiega molto bene, anche a non tecnici, come questa
conseguenza di patti di stabilità sia, più che
un timore, una previsione piuttosto realistica.
Fatte queste osservazioni di contesto veniamo
alle principali interpretazioni del fenomeno. Queste sono tre:
quella dominante, neo-classica nel suo impianto di base; quella
keynesiana, e quella strutturalistica, se vogliamo dare a quest'ultima
l'onore di una interpretazione coerente, ciò che solitamente
non avviene, ma credo invece si meriti.
- L'interpretazione dominante ha diverse versioni, le quali
tutte si riconducono all'idea che - qualora i tre grandi mercati
(del lavoro, dei prodotti e dei capitali) siano fatti funzionare
senza interferenze - la disoccupazione involontaria non può
esistere. Certo, di fronte a shock particolarmente gravi ci
possono essere squilibri momentanei. Ma poi i mercati aggiustano
le quantità domandate e offerte anche se l'aggiustamento
può provocare variazioni nei prezzi relativi dei beni
e dei fattori molto forti. L'aggiustamento agli shock degli
anni '70 e primi '80 ha così comportato - nei paesi
che l'hanno consentito, come gli USA - una riduzione della
quota del lavoro nel reddito e, all'interno di questa quota,
un forte aumento delle disuguaglianze nei salari e negli stipendi.
Ma si è creata molta occupazione aggiuntiva, il livello
di attività è rimasto alto e il tasso di disoccupazione
contenuto. L'opposto è avvenuto nell'Europa continentale,
dove i mercati ( e i mercati del lavoro in particolare) sono
stati impediti nel loro funzionamento: qui la diseguaglianza
distributiva è stata più contenuta, ma in compenso
la creazione di lavoro è stata stentata e il tasso
di disoccupazione è molto cresciuto.
- I Keynesiani respingono questa interpretazione e sottolineano
un aspetto della storia recente del tutto diversa: c'è
stata maggiore occupazione dove la crescità e gli investimenti
sono stati più forti e dove la politica fiscale e monetaria
ha consentito questo sviluppo. (La risposta della visione
dominante è che la politica economica ha potuto essere
più espansiva proprio perché i mercati funzionavano
meglio, gli intralci regolativi delle stato erano meno opprimenti
e il potere monopolistico di sindacati e imprese più
debole: altrimenti ci sarebbe stata inflazione e la politica
espansiva, invece di stimolare la produzione di beni reali,
avrebbe solo provocato maggiori prezzi).
- Il terzo modello interpretativo, quello strutturalistico,
critica quello dominante perché sottolinea che, di
fronte a shock molto profondi (in particolare shock come quelli
che provengono da una rapida internalizzazione o dalla rivoluzione
tecnologica), i mercati non consentono aggiustamenti facili,
rapidi o poco dolorosi: l'ignoranza dei giocatori, la variazione
nelle regole del gioco, la rottura dei patterns di commercio
consolidati sono troppo intense. Critica però anche
il modello keynesiano perché questo sottovaluterebbe
le rigidità preesistenti e dunque la necessità
di aggiustamenti molto forti tra settori, regioni e qualifiche
del lavoro. Si fa presto a predicare maggiori investimenti
e maggiore crescita: questi possono venire solo se si consente
l'emersione e lo sviluppo di nuovi settori trainanti e la
rapida scomparsa di quelli obsoleti.
Sono stato vergognosamente apodittico, ma forse
ciò basta a dare un'idea di quel che bolle in pentola
tra gli economisti. Due osservazioni sono necessarie. La prima
è che, per ragioni di chiarezza, ho presentato le diverse
interpretazioni come molto divergenti. Quando si tratta di dare
suggerimenti pratici, tuttavia, prevalgono interpretazioni meno
contrapposte, spesso addirittura eclettiche. Tra i keynesiani
ragionevoli, per esempio, tutti sono d'accordo che un bel po'
di flessibilità di mercato ci vuole: caso tipico di riconoscimento,
che sfiora quasi l'eclettismo, è il Libro Bianco di Delors,
che è ancora la Bibbia delle sinistre moderate europee.
Ma questo atteggiamento è più generale e si può
ritrovare negli interventi di Fitoussi o persino in quello,
presentato con molta nettezza, di Modigliani e La Malfa nella
loro lettera al Corriere del 3 gennaio scorso. La seconda osservazione
può forse sorprendere: tra gli economisti delle tre grandi
scuole, nessuno condivide la preoccupazione che, a seguito del
progresso tecnico e della concorrenza di paesi a bassi costi
salariali, il lavoro sia venuto a mancare nei paesi ricchi e
sia dunque necessario suddividere quel poco che resta. Le ricette
per l'occupazione possono essere diverse (accettare salari più
bassi e flessibilità più spinta; fare più
investimenti e politiche più espansive; produrre innovazione,
istruzione e investimenti in settori strategici), ma la convinzione
è la stessa tra tutti gli economisti "seri", o che tra
loro si riconoscono come tali anche se appartengono a scuole
diverse: il lavoro non manca mai e i vari Rifkin e compagni
sono, al meglio, degli esagerati o, al peggio, dei ciarlatani.
Queste sono le interpretazioni che offre il
convento degli economisti e non posso ora entrare in un'analisi
critica più dettagliata. Ma anche da questa sommaria
presentazione è subito evidente come alla sinistra (ma
in realtà anche alla destra: insomma, ad ogni politico
che abbia a cuore il consenso elettorale) piacerebbe molto che
l'interpretazione giusta fosse quella keynesiana. Nella sua
versione pura, infatti, essa produce una politica economica
che non ha alcun costo politico, che fa contenti impresi e sindacati,
produttori e consumatori: più investimenti, più
sviluppo, politiche monetarie fiscali meno restrittive. Peccato
che in questa versione pura oggi non funzioni, e che persino
i keynesiani, quantomeno i più consapevoli, ci attacchino
una sgradevole coda di interventi strutturali, di flessibilità
da assicurare affinché il mulino dello sviluppo, una
volta messo in moto, macini prodotti e non prezzi, ricchezza
reale e non inflazione.
Come gli economisti che ho prima ricordato,
come i keynesiani, anch'io sono convinto che l'era in cui Maastricht
e i patti di stabilità ci hanno introdotto corra seriamente
il rischio di trasformarsi in un'era glaciale; che dunque un
compito importante per la sinistra sia quello di "scongelarla".
In altre parole, accanto agli obiettivi di convergenza fiscale
e finanziaria, accanto all'obiettivo di un Euro credibile (lasciamo
stare se forte o debole), la sinistra deve porsi con forza un
obiettivo di investimenti, di sviluppo e di occupazione. E deve
insistere con forza su un comitato Euro-x (com'è stato
abbozzato al vertice del Lussemburgo) nel quale questi obiettivi
reali possano essere formulati e controllati. Torno a dire:
questi sono obiettivi sia per la sinistra, sia per la destra,
ed è una distorsione prevalentemente italiana che una
finalità di rilancio dell'economia e un atteggiamento
di preoccupazione verso Maastricht e le attuali politiche europee
sembrino di più una bandiera della destra che della sinistra.
Si leggano le interviste che Luca Paolazzi ha fatto a Ciampi
e Martino in un recente libretto del Sole 24 Ore ("Euro", si
intitola) e si provi a indovinare, dagli argomenti, chi è
più di sinistra dei due. La realtà è che
la destra italiana, un po' per convinzione (è il caso
di Martino), un po' per opportunismo (per dare l'illusione di
creare il famoso milione di posti di lavoro; per accontentare
nell'immediato imprese e commercianti), ha sbagliato le priorità
nazionali nel momento cruciale: nel '94-'95, in un paese sfasciato
com'era allora l'Italia, l'ingresso nell'Unione Monetaria Europea
costituiva la priorità nazionale, anche a costo di sofferenze
immediate sul piano dell'occupazione. A differenza di Berlusconi-Martino,
la coppia Prodi-Ciampi ha interpretato perfettamente questa
priorità nazionale e ha vinto.
Una volta entrati nell'Unione Monetaria, la
musica può cambiare e la sinistra deve tirar fuori, in
Italia, e in Europa, il pezzo di analisi keynesiana (o meglio,
strutturalistica) che le è più congeniale, deve
reagire all'esasperazione oltre ogni ragionevole limite del
punto di vista dominante. Capisco e rispetto una posizione di
opportunità politica: fino al 2 gennaio 1999, fino a
quando il nostro paese non entrerà effettivamente nella
moneta unica e sarà scomparso ogni pericolo di speculazione,
la consegna è "non fate onde", non diffondete opinioni
che potrebbero essere fraintese come insofferenza alla dura
politica fiscale cui dobbiamo sottoporci. Dubito però
che sia questo il motivo per il quale non si discute: autorevoli
esponenti della sinistra sono intervenuti non sulle questioni
di principio di Modigliani-La Malfa, sulle quali potevano esprimere
il loro giudizio senza alcuna conseguenza negativa, ma sulle
simulazioni di possibili percorsi del rapporto debito/PIL che
il Tesoro ha prodotto proprio per presentarsi nella luce migliore
ai propri partners europei, e questo è stato quantomeno
incauto. I motivi per i quali non si discute, purtroppo, sono
altri. Da un lato è il tradizionale disinteresse della
politica italiana per questioni di principio, per problemi di
strategia, e invece la predisposizione a reagire in modo immediato
alle più minute increspature del dibattito del giorno
per giorno; dall'altro lato, anche quando si è consapevoli
dei gravi dilemmi cui ci conduce la politica che abbiamo intrapreso,
gioca l'italianissima speranza dello "Stellone" e quell'atteggiamento
così bene espresso dal detto: "Non fasciatevi la testa
prima che sia rotta".
Se la discussione conduce ai problemi di fondo,
se non si limita a banali contrapposizioni ("E' troppo", "E'
troppo poco") su proiezioni simulative prodotte per altri scopi,
salta fuori il vero problema, quello che né la destra
né la sinistra in cerca di consensi elettorali vogliono
affrontare. In futuro si potrà fare la voce grossa in
Europa; a casa propria si potrà fare una politica fiscale
più coraggiosa e convincere l'Europa ad accettarla: ma
questo si riuscirà a fare tanto più credibilmente
quanto più si è spietati e decisi nelle riforme
strutturali e nella liberalizzazione dei mercati. E' questo
il punto che Modigliani-La Malfa non sottolineano abbastanza,
il grosso limite della loro lettera; non lo sottolineano abbastanza
forse perché, così facendo, la ricetta keynesiana
aggregata si trasforma in una ricetta strutturalistica disaggregata,
e anche piuttosto costosa politicamente. Ma si tratta di una
ricetta molto più credibile in Europa, e molto più
efficace in termini di crescita futura e occupazione in Italia.
Il dibattito vero si sposta allora, come si deve spostare, dalle
poste aggregate e generiche delle entrate e uscite totali e
dei saldi di finanza pubblica a quello che c'è dietro
e dentro queste cifre.
Com'è ovvio, per ridurre le tasse (promessa
fatta e che credo vada rispettata, perché è utile
sia politicamente sia economicamente) non c'è affatto
bisogno di compromettere l'avanzo primario. Innanzi tutto si
possono ridurre le aliquote - che è ciò che conta
per le persone oneste - senza ridurre il gettito e la pressione
fiscale, se la lotta all'evasione e il miglioramento dell'amministrazione
finanziaria procedono in modo spedito. Secondariamente, anche
se si riduce il gettito, si possono ridurre le spese; e di spese
correnti da ridurre ce ne sono moltissime a cominciare da quelle
previdenziali. Fatte queste cose, e messe in cantiere tutte
le riforme di aggiustamento strutturale e di liberalizzazione
a cui ci siamo impegnati, si può avere il credito necessario
per chiedere all'Europa di non insistere su una raccomandazione
di rientro precipitoso al rapporto debito/PIL di Maastricht,
ciò che ci imporrebbe avanzi primari nell'ordine del
5,5-ó% per tutto il prossimo decennio. Lo ripeto ancora:
nessuna esitazione anche rispetto ad esami e impegni europei
circa le riforme strutturali; nessuna esitazione rispetto a
vincoli sul saldo corrente: nel '98 noi saremo in avanzo corrente
e questo può anche aumentare. Ma in cambio di questa
nostra determinazione, noi dobbiamo ottenere dall'Europa (...quando
saremo nell'Unione Monetaria, perché fino al primo gennaio
dell'anno prossimo dovremo stare molto quieti) due cose. (a)
Una politica comune, una politica europea contro la disoccupazione
e per grandi investimenti strutturali. Probabilmente il programma
del Libro Bianco va ritoccato, ma nella sua intuizione di fondo
e per il suo valore simbolico andava benissimo. (b) La possibilità
di rientrare dal debito meno precipitosamente di quanto sarebbe
astrattamente possibile, e questo significa prevedere avanzi
primari meno jugulatori e deflazionistici. Se accettiamo vincoli,
anche pesanti, sulla necessità di stare in avanzo corrente,
avanzi primari meno jugulatori si trasformano in maggiori risorse
per investimenti pubblici e proprio questo è lo scopo
dell'esercizio.
Guai se diamo all'Europa l'impressione di non
voler rientrare velocemente dal debito perché non intendiamo
fare riforme o ridurre la spesa corrente per motivi di consenso.
Ma se vogliamo fare investimenti, e investimenti pubblici plausibili
- investimenti che i privati non farebbero, ma che sono palesemente
utili - io credo che l'Europa lo debba concedere. Lo deve concedere
se prevale a livello europeo un impegno di lotta contro la disoccupazione:
in questo caso avere nel continente un grande paese che rema
contro, che fa una politica fiscale deflazionistica per rientrare
il più rapidamente possibile al 60% nel rapporto debito/PIL
è palesemente un controsenso. Una ultima nota, per non
lasciare equivoci. Ho appena detto che gli investimenti pubblici
devono essere plausibili; tali cioè che non possano essere
fatti meglio dai privati e indispensabili per allentare vincoli
e porre basi per un forte sviluppo. E' il caso di insistere
su questo punto perché gran parte degli investimenti
pubblici ad un livello avanzato di progettazione nei diversi
Ministeri non hanno queste caratteristiche, e si pone dunque
un compito urgente di sfrondamento e riprogettazione. Non possiamo
permetterci il lusso di fare buche per terra e poi riempirle,...
o fare ponti sullo stretto di Messina.
Io non so se questo programma, che a me sembra
ragionevole, sia di destra o di sinistra. So soltanto che, per
entrambe, si tratta di un programma costoso in termini di consenso.
E' costoso perché comprime la spesa corrente e promette
liberalizzazioni e ristrutturazioni che feriscono numerosissimi
interessi. Ma è l'unico programma che è compatibile
con una posizione negoziale forte in Europa, con un rilancio
degli investimenti e dunque, nel medio periodo, con la ripresa
dell'occupazione.
Un po' per onestà intellettuale e un
po' per suscitare dibattito ho mischiato con l'analisi di una
possibile strategia per lo sviluppo e l'occupazione due affermazioni
intenzionalmente provocatorie. Avviandomi alla conclusione,
vorrei riprendere queste affermazioni, qualificarle e, così
facendo, aprire il discorso ad una riflessione esplicitamente
politica. La prima affermazione provocatoria è costituita
dalla giustificazione delle politiche di riforma strutturale
e di flessibilità nei mercati come uno "scotto da pagare"
affinché gli stimoli all'investimento e all'espansione
possano dar frutti in termini di maggior reddito reale e occupazione
(ovvero - ma si tratta del lato diplomatico della stessa cosa
- affinché il nostro paese possa acquistare in Europa
una posizione negoziale credibile quando propone misure di rilancio
dell'occupazione). La seconda affermazione provocatoria è
quella di avere considerato destra e sinistra come egualmente
esitanti di fronte a misure di trasformazione strutturale e
di flessibilizzazione dei mercati; misure che sarebbero, per
entrambe, impopolari e costose.
Le due affermazioni sono collegate, e la carica
provocatoria deriva, almeno in parte, dalla loro genericità,
dal fatto che non siamo entrati nel dettaglio delle misure di
innovazione strutturale e di liberalizzazione dei mercati che
sono necessarie per favorire lo sviluppo economico e l'occupazione.
Quando vi entreremo, con le relazioni di Ichino e Morando, vedremo
che tali riforme costituiscono effettivamente dei costi da pagare,
delle possibili minacce alla popolarità e al successo
elettorale di tutte le forze politiche. Per un altro lato, tuttavia,
esse rappresentano degli obiettivi, dei valori, che le forze
politiche si propongono come elementi costitutivi della propria
identità. E se è così, necessariamente
si creano (o dovrebbero crearsi) divaricazioni tra le misure
strutturali e i processi di liberalizzazione che propone la
destra e quelli che propone la sinistra.
Per la sinistra le misure di trasformazione
strutturale e liberalizzazione dovrebbero sì mirare ad
un rapido adattamento della struttura economica a nuove condizioni
di sviluppo, ma dovrebbero anche garantire condizioni di rigorosa
equità tra tutti i partecipanti al mercato. E' questo
il modo in cui Ichino difenderà le sue proposte di avvicinamento
tra le condizioni di tutela degli "insiders" nel mercato del
lavoro con quelle degli "outsiders"; ed è questo il modo
con cui Morando criticherà i risultati della riforma
previdenziale, mettendo in rilievo le iniquità che permangono
tra titolari di diversi regimi e soprattutto tra generazioni.
In via generale, in tema di equità, non dovrebbe esser
difficile una intesa di principio con un centro destra genuinamente
liberale: la concorrenza, la lotta contro i privilegi indotti
da condizioni monopolistiche naturali o artificiali, può
consentire un bel pezzo di strada insieme.
Dove le strade si divaricano, almeno in linea
di principio, è a proposito di un altro valore cardine
della sinistra, la solidarietà. Per la sinistra la concorrenza
è sicuramente apprezzabile, sia come strumento che favorisce
un maggior benessere per i consumatori e un miglior adattamento
dell'economia a nuove piste di sviluppo, sia come strumento
che garantisce parità di accesso a tutti, almeno in via
di principio. Ma si tratta di uno strumento che non viene idealizzato.
In situazioni storiche concrete esso può provocare differenze
nelle condizioni di vita così grandi - e, in particolare,
situazioni di esclusione così inaccettabili dai beni
che garantiscono benessere minimo e autostima - che i poteri
pubblici devono intervenire per ragioni di solidarietà.
Quali siano le condizioni essenziali di cittadinanza, quelle
condizioni minime di benessere e autostima, è una questione
aperta. E sicuramente concezioni troppo "livellatrici" della
solidarietà e strumenti troppo statalistici e regolativi
per attuarla possono essere controproducenti per gli stessi
obiettivi che ci si propone e contrastanti con le esigenze di
adattamento del sistema economico. Ma senza una forte spinta
verso la solidarietà e forti strumenti regolativi per
renderla concreta, la sinistra non esiste. Oggi, in Gran Bretagna,
è in corso un esperimento straordinario per ridurre al
minimo, da parte di un governo che si autoproclama di sinistra,
l'uso di strumenti regolativi e di trasferimenti a carico del
bilancio statale, al fine di indurre il più possibile
coloro che ne erano i beneficiari ad aiutarsi da soli: "Welfare-to-work",
è il nuovo slogan. E' un esperimento i cui primi passi
stanno provocando polemiche furiose (si veda ad esempio l'articolo
su Frank Field, l'innovativo ministro per le politiche sociali
del governo laburista, sul New Statesman del 30 gennaio) e che
dobbiamo seguire con grande attenzione.
L'equità presa sul serio può
essere altrettanto costosa in termini di popolarità che
non l'efficienza: essa minaccia un numero molto grande di piccole
"rendite regolative" - nel mercato del lavoro, nel welfare -
che normalmente la sinistra ha difeso quando non ha addirittura
prodotto. E la solidarietà presa sul serio - ad esempio,
un efficace sistema di reddito minimo - o non è finanziariamente
sostenibile, oppure, per esserlo, essa deve sfrondare pesantemente
l'attuale sistema pensionistico-assistenziale, e dunque urtarsi
contro le rendite regolative di cui dicevo. In via generale
qui non posso dire altro, se non consigliare a tutti la lettura
del bellissimo libro di Maurizio Ferrera (Le trappole del Welfare),
appena pubblicato dal Mulino.
Ferrera analizza la questione a livello comparativo,
mostrando quanto vi è di comune e quanto di diverso nei
problemi che le forze politiche devono affrontare nei vari casi
nazionali. Noi siamo in Italia e ci poniamo dal punto di vista
della sinistra italiana. Com'è messa la nostra sinistra
nell'affrontare le "Trappole del Welfare", del mercato del lavoro,
e in generale i problemi di aggiustamento e trasformazione strutturale
che occorre risolvere per lanciarsi in una nuova e sostenibile
fase di sviluppo? Le tradizioni, le culture, le condizioni di
forza della sinistra sono tra loro diverse in Europa, come ho
suggerito all'inizio di questa relazione. All'interno del genere
"sinistra" e della specie "sinistra continentale", il caso italiano
si segnala per un tratto caratteristico di cui è difficile
sopravvalutare l'importanza, e a questo vorrei dedicare le mie
ultime osservazioni.
Nella crisi che ha scosso il sistema politico
italiano negli anni '90, il sindacato ha giocato un ruolo di
stabilizzazione straordinario e la sua influenza sulla formazione
della politica economica è cresciuta a dismisura. La
"sinistra-che-c'è" oggi include il sindacato come sua
parte costitutiva: non come un poderoso gruppo di interesse,
non come una "organizzazione di massa" legata ai partiti da
una cinghia di trasmissione, bensì come attore politico
in prima persona; anzi, come attore predominante nella definizione
di un ampio spettro di politiche pubbliche, proprio quelle che
insistono su gran parte delle trasformazioni strutturali e dei
processi di liberalizzazione di cui abbiamo parlato. D'altra
parte, però, il sindacato è una organizzazione
privata che risponde ai suoi iscritti e ne deve verificare continuamente
il consenso. I suoi iscritti sono lavoratori occupati - soprattutto
in medie e grandi imprese e nella pubblica amministrazione -
e sono, sempre di più, pensionati: insomma proprio quei
soggetti che, dal punto di vista dei loro interessi economici
di breve periodo, sarebbero svantaggiati da una parte delle
riforme di trasformazione strutturale e di liberalizzazione.
E soggetti che sarebbero anche svantaggiati da un programma
rigoroso di equità, attento alle esigenze dei non tutelati
e delle giovani generazioni. Come la mettiamo? E' possibile
chiamare la volpe a fare la guardia al pollaio?
Nel futuro prevedibile (diciamo: per tutto
il tempo in cui l'Ulivo riuscirà a conservare il Governo)
mi sembra improbabile un mutamento significativo della situazione
attuale e probabilmente continueremo ad assistere al tiro alla
fune cui abbiamo assistito nei due anni passati: partiti dell'Ulivo
relativamente defilati, senza forti programmi autonomi, che
affidano al sindacato il giudizio ultimo sulla sostenibilità
delle politiche sociali proposte dal governo; un governo che
cerca di difendere le ragioni del risanamento e delle politiche
strutturali che le devono accompagnare e tratta in modo prevalente
col sindacato, da una parte, e con Rifondazione Comunista, dall'altra;
un sindacato che è frenato, da un lato, dagli interessi
che rappresenta e dall'altro, in misura ancora maggiore, da
Rifondazione Comunista. Uno scatto di autonomia e di orgoglio
riformistici dei partiti dell'Ulivo all'interno di questo gioco
è ostacolato dalla loro divisione e dalla presenza di
opinioni discordi all'interno dei partiti più grandi
(nei Popolari, ma soprattutto nel PDS); se il passaggio all'Unione
Monetaria si compie senza traumi, è piuttosto ipotizzabile
un rafforzamento del governo nei confronti di tutti gli altri
soggetti del gioco.
In queste condizioni, e se la debolezza relativa
di Rifondazione dovuta all'esito della crisi di ottobre permane,
si può nutrire la ragionevole speranza di uno sviluppo
"quasi olandese": di fronte ad un governo più forte e
a Rifondazione più debole, il sindacato potrebbe interiorizzare
in modo più deciso i vincoli della situazione, riconoscere
che sono necessari ulteriori passi in avanti in tema di flessibilità
del mercato del lavoro, equità e sostenibilità
del sistema di welfare. Il sindacato, insomma, potrebbe riconoscere
che la stessa possibilità di politiche più espansive
dipende dall'attuazione di riforme strutturali delle quali il
welfare e il mercato del lavoro sono parti importanti. Finché
il centro sinistra rimane frammentato, finché opinioni
discordanti o personalità in conflitto si paralizzano
a vicenda impedendo la formazione di un programma riformatore
fortemente condiviso, è su una assunzione ancor più
esplicita da parte del sindacato del suo ruolo di attore politico
che sono affidate le nostre speranze. Non è certo una
situazione normale e non può certo durare a lungo: ma
la scarsa coesione del centro sinistra politico, di quello che
dovrebbe essere il blocco omogeneo della maggioranza, la rende
per ora quasi auspicabile.
(1) Si tratta del testo della relazione introduttiva
a un seminario del PDS tenutosi a Milano il 2 febbraio scorso:
gli altri relatori erano Pietro Ichino, per le politiche del
lavoro, ed Enrico Morando, per le politiche sociali e la previdenza.
Mi dispiace di non aver avuto il tempo di modificare gli innumerevoli
passaggi che rivelano la sua origine di comunicazione orale.
Quanto al contesto in cui la relazione è stata tenuta,
questo ha certamente influito sulla semplificazione dell'analisi,
ma non sulle tesi sostenute.