E' passato un anno dall'inizio
della nostra attività politica e, proprio alla scadenza
di questo anniversario, sono accaduti avvenimenti che ci obbligano
ad una profonda riflessione sia sul cammino percorso che sulla
strada da intraprendere per il futuro.
Per fare questo è necessario prima di tutto pensare
alle scelte fondamentali che sono state alla base del nostro
lavoro a partire dal 2 febbraio 1995.
Come in tutti i disegni di ampio respiro, le basi intellettuali
e le linee strategiche sono estremamente semplici.
Il punto di partenza era da un lato la consapevolezza che
occorresse avviare un processo di grande trasformazione del
Paese, con un piano organico di riforme culturali ed istituzionali
ormai non più rinviabili, dall'altro la constatazione
dell'impossibilità di raggiungere questi obiettivi a
causa di quella permanente instabilità politica che ha
consentito, in meno di cinquant'anni di storia democratica,
la formazione di più di cinquanta governi, pregiudicando
gravemente la possibilità di ricostruire le fondamenta
della nostra vita civile.
Di conseguenza occorreva dare al governo una forza ed una
durata che permettessero di affrontare le grandi riforme necessarie
per completare il cammino della democrazia e per riportare l'Italia
ad un dignitoso confronto con gli altri Paesi europei.
Quest'osservazione portava ad una seconda constatazione, che
cioè non vi era nessuna possibilità di un passaggio
alla democrazia compiuta se non sulle basi di una reale e concreta
alternanza nel governo del Paese.
Ne derivava la necessità di creare una formazione di
centro-sinistra che, nel momento terribile dello sbandamento
dell'inizio del 1995, potesse costruire la base della costruzione
del più grande raggruppamento riformista che mai vi era
stato in Italia.
Il programma è apparso subito così normale e
comprensibile da suscitare un immediato coro di approvazioni
e un'insperata valanga di adesioni.
Anche perché lasciava trasparire per la prima volta
la caduta di un altro steccato che aveva reso difficile le necessarie
forme di collaborazione del campo riformista, e cioè
l'antica separazione tra cattolici e laici. Se un raggruppamento
di centro-sinistra doveva nascere, esso doveva quindi mettere
insieme le tradizioni e le forze del socialismo democratico
(di cui in PDS era ormai il principale erede) del cattolicesimo
democratico, del liberalismo europeo, dei repubblicani e degli
ambientalisti.
Una coalizione difficile, come era difficile la sfida che
ci stava davanti, ma una coalizione assolutamente necessaria
per la salvezza del nostro Paese.
Questi obiettivi hanno trovato immediato riscontro nelle manifestazioni
di consenso popolare che hanno accompagnato i nostri sforzi,
quasi a volere confermare la coincidenza tra le nostre intuizioni
e le attese di larga parte degli italiani.
Mentre questo disegno si andava delineando con sempre maggiore
precisione, nascevano infatti in Italia con moto del tutto spontaneo,
i "Comitati per l'Italia che vogliamo", con lo scopo preciso
ed esclusivo di mettersi al servizio di questo disegno, che,
ricordiamo, si riassume nella creazione di una coalizione riformista
e nella preparazione di una alternanza democratica, attraverso
la collaborazione di forze politiche che avevano fin allora
agito in modo autonomo.
I comitati, pur con un ovvio diverso livello di visibilità
e di capacità operativa, si sono diffusi in tutto il
Paese, fini a raggiungere l'incredibile numero di 3.800.
Essi sono presenti, anche se con diversità di accentuazione,
in tutte le province italiane e, pur nella diversità
degli stili e dei comportamenti, hanno portato avanti in modo
straordinariamente efficace la bandiera della coalizione democratica.
L'aspetto più emozionante di questa avventura, del
tutto nuova per il nostro Paese, è stato quello di constatare
come la coalizione che si voleva costruire non era per nulla
astratta o artificiosa, ma ripetiamo corrispondeva ad un modo
di sentire profondamente diffuso e condiviso.
Con un'osservazione, che è poi diventata per noi un
felice slogan, era diventato facile constatare come si mettevano
spontaneamente a servizio della coalizione migliaia e migliaia
di persone che avevano da tempo desiderato l'abbattimento del
"muro di Berlino", sia che vivessero da un lato che dall'altro
del muro stesso.
Nella maggior parte dei casi l'esperienza ha fatto emergere
una profonda condivisione di valori e di disegni politici ed
ha permesso veramente di costruire qualcosa di nuovo e di inedito
per l'Italia.
Ma c'è di più: in un Paese in cui sembravano
ormai definitivamente esauriti i luoghi diretti o indiretti
della formazione politica (ed è questo che ha potuto
far emergere una classe politica completamente estranea ai nostri
problemi e alla nostra realtà) all'improvviso si andava
delineando un movimento spontaneo che non solo riproponeva il
gusto dello studio, e della discussione, ma che per la prima
volta poneva i cittadini stessi al centro di tale confronto.
Si sono avute decine di migliaia di riunioni precedute da
relazioni preparatorie, attività formative e aperture
culturali con le più diverse componenti di tutta la società
italiana.
Abbiamo avuto tanti convegni ma anche feste, iniziative sociali,
interventi ed azioni nelle comunità dove si trovavano
ad operare i comitati.
Si sono toccati i grandi problemi generali, ma anche gli aspetti
settoriali e specifici della realtà politica, sociale
ed economica.
La maggior parte di coloro che hanno partecipato a questa
attività non avevano avuto alcuna esperienza politica
precedente. In molte e ripetute occasioni è stato proposto
da alcuni di cogliere il risultato di questa grande partecipazione
attraverso la creazione di una aggregazione politica che si
avvicinasse progressivamente alla natura di un partito, anche
perché vi erano persone naturalmente e comprensibilmente
sensibili ai sondaggi di opinione che attribuivano percentuali
non trascurabili al nostro inesistente partito.
Queste 'tentazioni" sono state respinte proprio in vista di
un disegno di più ampio respiro e cioè la coalizione
di centro-sinistra.
I comitati hanno acquisito identità sempre più
forte insieme alla consapevolezza di essere il cemento della
coalizione e non una struttura che cresceva nell'attesa di diventare
partito.
Oggi, un anno dopo, non posso che rinnovare il mio profondo
senso di gratitudine per coloro che a livello centrale, regionale,
provinciale e locale hanno portato avanti questo processo di
maturazione e di novità della cultura politica italiana,
perché sono perfettamente consapevole che tutto ciò
ha comportato un senso di sacrificio e di disinteresse che ha
ben pochi precedenti nella storia politica del nostro Paese.
Questi elementi di rinnovamento, questo diverso modo di fare
politica e di sentirsi protagonisti di un disegno comune, hanno
costantemente avuto una positiva influenza nella competizione
elettorale delle elezioni locali.
Dovunque si è presentato l'Ulivo (anche se come realtà
di fatto e non ancora come simbolo)i risultati sono stati positivi
e, comunque, migliori rispetto ad ogni previsione e questi consensi
continuano a rivelarsi una forza sempre più trascinante
che diventa quotidiana occasione di riferimento e confronto.
Era chiaro che l'elettore istintivamente premiasse la coalizione
rispetto alla somma dei partiti di cui la coalizione stessa
era composta.
Sotto la spinta di questo buon risultato ed in coerenza con
gli obiettivi iniziali è stato quindi deciso di raccogliere
sotto il simbolo dell'Ulivo non solo una parte ma tutte le forze
politiche che si riconoscevano nell'alleanza di centro-sinistra.
Questa decisione, di cui mi sono assunto personalmente la
responsabilità, è stata ripetutamente criticata
da chi riteneva che l'Ulivo dovesse sostanzialmente costituire
la forza di centro della schieramento di centro sinistra.
A mio avviso, pur a distanza di ormai molti mesi, non si può
che riconfermare la validità delle ragioni che spinsero
nello scorso mese di aprile a ricercare un simbolo ed una struttura
capaci di rendere forte e visibile l'intera coalizione e di
rendere irreversibile l'alleanza di centro-sinistra come un'unica
compatta realtà che deve necessariamente prescindere
dalle spinte di talune sue componenti e dalle tentazioni personalistiche.
Era infatti necessario rendere chiaro a tutti che si stava
iniziando un percorso comune e che questo fatto doveva avere
una sua forte visibilità.
Nonostante il nostro movimento si sia sviluppato soprattutto
nel Paese e nelle sue realtà periferiche, l'immagine
dell'Ulivo è stata per mesi congelata nell'immagine di
rissose e complicate riunioni per vertici di partito che ripetevano
l'immagine verso il passato, mentre il dibattito che si svolgeva
nel Paese assumeva dimensione e profondità ben diverse.
Con il mese di agosto è quindi iniziato il lungo processo
di costruzione del Programma dell'Ulivo, con un modello operativo
che non era mai stato seguito ne in Italia ne in alcun altro
dei grandi Paesi europei.
La costruzione del programma aveva infatti un duplice scopo.
Si è quindi avviata una fase di lavoro nella quale
abbiamo invitato a discutere e a convergere su temi specifici
non solo gli esperti più significativi dei diversi settori
ma anche migliaia e migliaia di "addetti ai lavori" che si interessavano
in modo organico e sistematico all'esame dei problemi del settore
di propria competenza.
Centinaia di rapporti e migliaia di osservazioni e rilievi
specifici hanno infatti accompagnato i lunghi mesi di preparazione
del programma inteso non nel significato stretto di programma
elettorale, ma in quello ben più ampio e significativo
dell'elaborazione di un programma di legislatura.
Il secondo obiettivo (interrotto dai recenti avvenimenti)
era quello di portare alla discussione delle tesi di programma
centinaia di migliaia di cittadini, in modo da creare finalmente
una partecipazione più attiva e vissuta alla vita politica
italiana.
Speravamo che, oltre che per costruzione della coalizione,
programma potesse anche costituire una prima risposta all'insistente
domanda della pubblicistica e dell'opinione pubblica di conoscere
le idee portanti dell'Ulivo sul futuro del Paese, in più
occasioni abbiamo dovuto ricrederci.
E' significativo a questo proposito osservare che la maggior
parte dei giornalisti e degli opinionisti che avevano rimproverato
all'Ulivo la mancanza di idee programmatiche, non abbiano poi
dedicato una riga alle nostre tesi per commentarlo dopo l'avvenuta
pubblicazione.
L'unico dibattito sistematico avvenuto sul Sole 24 Ore, ha
messo in rilievo (insieme ad alcune mancanze di cui terremo
conto nella redazione finale) l'organicità delle tesi,
la loro serietà e il loro realismo.
Per il resto l'indifferenza per il contenuto delle tesi è
stata pari all'intensità con cui la formulazione del
programma era stata richiesta.
Non ci si deve stupire di questo atteggiamento, dato che esso
sembra corrispondere all'ultima evoluzione del rapporto tra
politica e mass media come viene descritto nel libro del noto
giornalista Jack Fuller dal titolo "New Values" (University
of Chicago Press).
Non ce ne stupiamo soprattutto oggi, in un sistema nel quale
la capacità di impatto di un messaggio sembra basarsi
più sull'efficacia del mezzo che lo veicola piuttosto
che sulla sua validità intrinseca.
Di conseguenza ormai, negli Stati Uniti come nel nostro Paese,
la tendenza più diffusa è volta a sostituire l'essere
con l'apparire, la sostanza con l'immagine, la capacità
di suggestione di un messaggio, anche politico, con la sua effettiva
consistenza.
In altre parole, ormai, anche in politica, "è buono
ciò che appare buono in TV". Di conseguenza non si poteva
certo pretendere la necessaria attenzione ai programmi dell'Ulivo
nel momento in cui essi non risultavano concepiti in funzione
del loro "appealing" e della loro capacità di impatto
presso i media. Questo problema della funzione dei media nel
rapporto tra la politica ed il cittadino è uno scenario
totalmente nuovo per la realtà italiana.
Esso è diventato la misura del successo politico, la
determinante fondamentale della scelta delle strategie e, in
fondo, la misura continuamente rivista della bontà o
meno di una politica.
E' qualcosa di più che fare una operazione chirurgica
di fronte ai parenti dell'ammalato.
Vuol dire cambiare continuamente le tecniche dell'operazione
chirurgica in conseguenza dei suggerimenti e degli interventi
dei parenti dell'ammalato che assistono all'operazione.
In questi mesi anche a costo di pagare prezzi altissimi mi
sono rifiutato di adattare i comportamenti a questo nuovo quadro
di riferimento.
Me lo impedivano tra l'altro la mia formazione, il mio sistema
di approccio allo studio dei problemi e all'individuazione delle
soluzioni, le mie convinzioni circa la serietà del rapporto
politico e dell'impegno con gli elettori.
Del resto, la mia, probabilmente non è neanche una
scelta: è un comportamento, da un lato, istintivo nei
suoi connotati genetici e, dall'altro, il segno di una fiducia
profonda nello spirito critico e nella capacità dei cittadini
di cogliere le coerenze di lungo periodo dei protagonisti della
vita politica del Paese. E io credo profondamente che gli elettori
siano ormai stanchi degli urli, degli slogan, delle false promesse
e che abbiano il diritto (ed anche il piacere) di essere persuasi
con argomenti e motivazioni.
E' questo il mio modo di vedere le cose. Io non faccio come
coloro che vendono a buon mercato inesistenti villette al mare
mostrandone esaltanti illustrazioni sui dépliant che
non corrisponderanno mai a ciò che si è effettivamente
in condizioni di poter realizzare. Io prima mi affido a un progetto
e soltanto in un secondo tempo mi preoccupo del plastico che
dovrà renderlo più visibile. E in questo modo
continuerò ad operare, fin quando arriverà il
momento, ormai prossimo, di mostrare al tutti il "plastico"
del nostro progetto, del nostro programma per l'Italia che vogliamo.
In questi mesi in cui mi sono profondamente immerso nella
vita politica italiana ho ricevuto un altro insegnamento senza
il quale non è possibile ricostruire la nostra vita civile
e cioè che nessun Paese può resistere ad un eccessivo
distacco dalla politica della morale come è invece il
normale costume della nuova destra italiana.
Non è facile adottare un simile principio in un Paese
in cui, fin dalla scuola media, il machiavellismo di maniera
viene ritenuto il fondamento di ogni azione politica.
Tale convinzione è cosi profonda da essere acriticamente
abbracciata dai vecchi e dai nuovi maestri della politica, senza
tener conto che una pratica generalizzata di questi principi
rende praticamente impossibile la convivenza civile e legittima
ogni forma di corruzione.
La raffinatezza della scatenata gara di astuzie incrociate
ha ormai raggiunto una complicazione tale da non essere compresa
nemmeno da coloro che sono protagonisti del gioco.
Ormai il nostro Paese si distrugge con le proprie mani.
La politica dell'Ulivo, se vuole rinnovare il Paese, deve
rinnovare i metodi stessi della politica. Avere ed esporre principi
chiari, confermarli nel tempo e tradurli in azioni precise e
comprensibili: se saremo capaci di una simile rivoluzione, saremo
sicuri dl comunicare al Paese la serenità e la fiducia
di cui ha bisogno per costruire il proprio futuro.
L'altra necessaria virtù dell'Ulivo è quella
di capire finalmente i problemi reali dei cittadini italiani.
Si è ormai creato un mondo artificiale che dibatte
in modo artificiale problemi artificiali mentre cresce la disoccupazione,
cresce la necessità di giustizia, cresce la diseguaglianza
e cresce la distanza fra la nostra scienza e la nostra cultura
e quella dei Paesi più avanzati.
Riportare la discussione su questi temi e impostare con onestà
le necessarie soluzioni è il compito dell'Ulivo.
Questo non vuole certo significare che il dibattito istituzionale
e delle forme di governo non appartenga ai problemi reali del
Paese.
Il modo con cui è stato condotto lo ha reso invece
irreale e incomprensibile.
Quasi mai si è infatti legato il problema del governo
alle caratteristiche ed alla storia del nostro Paese. Mai sono
state chiaramente esposte le conseguenze reali ed operative
delle diverse riforme.
Eppure solo a queste condizioni le necessarie e radicali innovazioni
possono produrre i risultati di durata ed efficienza dei governi
e di garanzia del controllo democratico che sono l'obiettivo
alto delle riforme che tutti riteniamo necessarie ed urgenti.
Anche in questo caso ha prevalso un complicato machiavellismo,
un'impossibile proposta di baratto (presidenzialismo contro
doppio turno elettorale) che fatalmente produce la perdita dell'orientamento.
Non dimentichiamo mai di essere entrati in politica per la
costruzione di una democrazia matura, di una democrazia dell'alternanza.
Le riforme elettorali ed istituzionali sono solo i necessari
strumenti per raggiungere questo scopo. Essi possono essere
perciò anche diversi: è invece obbligatorio confrontarli
sempre con l'obiettivo che si vuole raggiungere e, soprattutto
con la realtà del Paese, coi patti non scritti che sorreggono
in modo singolare la vita di ogni comunità.
Una grande coalizione prima di dettare la formula delle leggi
elettorali e dei governi, deve aprire il dibattito su questi
problemi, deve meditare sulle tradizioni della nostra storia
lontana, di quella più vicina e della grande tradizione
di autonomia e di coesione delle comunità locali.
Le formule sono un punto d'arrivo, non il punto di partenza
di questo dibattito.
Ma ora che questo lungo anno di vita politica ha tuttavia
confermato il realismo del nostro disegno iniziale portando
l'Italia (nonostante l'apparente moltiplicazione dei partiti)
verso un sistema realmente bipolare è giunto il momento
di avviare la seconda fase del nostro lavoro.
I ripetuti tentativi di ricostruzione del centro (anche quelli
più robusti e meglio sincronizzati con i mass media che
si sono verificati intorno alla scorsa estate) non sono stati
infatti in grado di ricostruire il sistema politico italiano
intorno al centro mobile, arbitro per definizione del destino
di ogni governo ed origine principale del degrado e della corruzione
della vita politica di un Paese.
Si apre quindi un nuovo periodo per l'Ulivo.
Idee per il futuro