2 Linguaggio e politica
2.1 Il linguaggio e la costruzione della realtà politica
3 I media
3.1 Il rapporto con i media
3.2 Media e istituzioni di governo
3.3 Le funzioni dei media
3.4 Il ruolo dei media nella competizione Elettorale
3.5 Le dinamiche di comunicazione Politica dell'Europa occidentale.
Il caso italiano
4 Opinione pubblica
4.1 Le origini
4.2 Teoria dell'Agenda Seffing
4.3 I sondaggi di opinione
5 Media e democrazia
5.1 I media e l'antipolitica
5.2 Ilfuturo della comunicazione politica
5.3 Verso una democrazia eleffronica?
1.1 Definizione della comunicazione Politica
"La comunicazione politica consiste dell'insieme
dei processi d'interazione tra gli elementi di un sistema politico
e tra questo sistema e il suo ambiente"."La comunicazione pubblica
identifica quell'area dell'attività simbolica di una
società in cui, a seguito dei processi di differenziazione
sociale, sistemi diversi interagiscono e competono per assicurarsi
visibilità e per sostenere il proprio punto di vista
su argomenti di interesse collettivo."
1.2 Distinzione tra informazione e comunicazione
Il primo tema da affrontare è quello
della distinzione tra informazione e comunicazione che spesso
tra gli addetti ai lavori è assunta acriticamente e meccanicisticamente.
Si tratta di una distinzione certamente consolidata, ma contemporaneamente
anche problematica, che ha suscitato non poche polemiche e discussioni.
Essa risale ai primi approcci della matematica dell'informazione
formulata da Shannon e Weaver (1971). Diversi autori l'hanno
poi ulteriormente elaborata; recentemente Luhmann ne ha tentato
un'interessante sistematizazione. Per il sociologo tedesco,
per comunicazione si deve intendere l'insieme di tre attività,
o selezioni, come le chiama: 1) informazione, 2) atto
del comunicare e 3) comprensione. In altre parole,
Luhmann distingue tra ciò che viene veicolato, il contenuto
della comunicazione, e l'atto seguito da successo o meno, attraverso
il quale questo scambio informativo si realiza. C'è quindi
nella comunicazione una dimensione tripolare in cui "il primo
termine indica la selettività dell'informazione stessa,
il secondo la selezione dell'atto che la comunica, il terzo
l'attesa del successo" (Luhmann, 1984, p. 256).Il primo momento
indica la componente di " selettività dell'informazione".
Quando si comunica si compie sempre una scelta includendo alcuni
elementi e escludendo altri: " la comunicazione estrae qualcosa
dall'orizonte di volta in volta attuale a cui rimanda e che
essa sta costituendo, scartando qualcos'altro" (Luhmann, ivi,
p. 54). Con il secondo momento si indica invece l'atto del comunicare
vero e proprio e quindi la scelta del comportamento da assumere
(quali obiettivi, quali mezzi, quali modalità di interazione).
Il terzo momento rimanda invece all'attesa e alla verifica del
successo della comunicazione rispetto agli obiettivi dati. In
particolare, sottolinea Luhmann, affinché ci sia comunicazione
vera e propria è necessario che ci sia comprensione del
messaggio intesa nella duplice accezione di corretta interpretazione
di ciò che è stato trasmesso e di sua accettazione.
Questa tripartizione è per Luhmann dimensione ineludibile
di ogni processo comunicativo di cui mette in luce la complessità.
La formulazione del sociologo tedesco aiuta
a comprendere quanto sia difficile assumere acriticamente l'accezione
più generale e più semplice della distinzione
tra informazione e comunicazione così frequentemente
utilizzata nel campo operativo. Qui l'informazione indica usualmente
il trasferimento di unità minimali di conoscenza mentre
le attività di comunicazione implicano anche un tentativo
di persuasione dell'interlocutore e quindi auspicano modifiche
dei suoi atteggiamenti e comportamenti. Molti manuali di comunicazione
pubblica riprendono tale distinzione così come essa è
anche rispecchiata nella suddivisione organizzativa di molti
uffici ed attività.
Tuttavia se si considerano le notazioni di
Luhmann, ci si accorgerà che, almeno teoricamente, una
distinzione tra informazione e comunicazione è difficile
se non impossibile: la comunicazione prevede infatti sempre
un'attività informativa e questa, a sua volta, richiede
una corretta comprensione, quindi l'instaurarsi di un canale
efficace tra emittente e destinatario, perché venga decodificata
ed utilizzata secondo le intenzioni dell'emittente Ciò
signif~ca immediatamente che i comunicatori devono considerare
il processo nella sua interezza e, anche nel momento in cui
prendono in considerazione soltanto il momento informativo,
dovrebbero però anche preoccuparsi delle altre due fasi
e quindi strutturare un processo complesso che le includa e
che ne preveda la "felice" riuscita.
I processi di differenziazione funzionale e
la nuova situazione di competizione che si determina nella sfera
pubblica mettono ancora di più in dubbio la possibilità
di separare informazione da comunicazione, almeno come usualmente
utilizzata nel campo più specificatamente professionale,
e riconducono alle ipotesi formulate da Luhmann. Nella nuova
sfera pubblica la presunzione del risultato è parte integrante
anche dell'attività informativa. Per competere con la
miriade di altre fonti che ora producono informazione e comunicazione
è necessario che anche la più semplice delle informazioni
giunta in porto, sia correttamente interpretata e produca i
risultati preventivati. Se seguiamo la formulazione di Luhmann
questo significa considerare quello comunicativo come un processo
complesso in cui è impossibile separare l'informazione
dalla comunicazione.
In altre parole, questo significa che l'intero
settore della comunicazione pubblica è diventato più
competitivo e più sofisticato. Le istituzioni pubbliche
non hanno più potuto adagiarsi sulla vecchia situazione
che le vedeva protette, sicure di un proprio territorio, anche
simbolico, che consentiva la veicolazione dei propri messaggi.
Si è così arrivati ad una completa revisione degli
strumenti informativi tradizionali e al coinvolgimento di competenze
professionali esterne specializzate. La nuova situazione di
competizione ha imposto l'adozione di strategie non più
casuali, ma attentamente programmate, ideate e condotte anche
per quei messaggi che si proponevano prevalentemente finalità
informative.
"Chiunque non sa tacere, è indegno di
governare". "Public speech no longer attends the process of
governance: it is governance".
La prima asserzione, dell'abate Dinouart (1771),
s'inscrive in una riflessione sull'arte di tacere come caratteristica
irrinunciabile di un giusto modello di condotta politica. Una
riflessione tutt'altro che isolata o bizzarra. Tra il XVII e
il XVIII secolo, essa, anzi, vede impegnati fior di filosof~
e intellettuali, tutti partecipi di quel grande evento storico-politico
che è la formazione dello Stato moderno. Declinata di
volta in volta come etica del silenzio, rispettosa dell'ideale
di sincerità (Dinouart) o come politica del silenzio,
come tattica e astuzia (Gracian, 1637, cit. in Dinouart,
1992), la riflessione su l'arte di tacere è entrata a
far parte a pieno titolo della storia del pensiero politico
moderno.
L'altra asserzione, è, invece, di uno
scienziato politico americano, autore di un fortunato libro
sulla comunicazione presidenziale in età moderna (Hart,
1987). La tesi è che esiste un rapporto lineare tra più
parola pubblica e più potere. Nel "regime di visibilità",
per riprendere una felice espressione del semiologo francese,
Erik Landowski (1985), il discorso pubblico produce, come mai
prima d'ora, gli avvenimenti: esso è lo strumento
di potere per eccellenza della leadership politica.
Nella loro perentorietà, quelle due
asserzioni sembrano, dunque, evocare universi politici irriducibili.
Quali valori, d'altronde, condividono la società di corte
e i sistemi politici contemporanei? Cosa può accomunare
il cardinale Richelieu e Ronald Reagan? L'uomo degli intrighi
di palazzo e il "grande comunicatore"?
L'accostamento potrebbe essere, perché
no, un'utile traccia per la ricostruzione del percorso compiuto
dalla politica moderna. Il nesso tra linguaggio e politica fornirebbe
la principale cartina di tornasole per la comprensione dei rapporti
di potere vigenti in un dato regime. Esso richiama, però,
anche l'attenzione sul seguente paradosso: che lo studio di
quel nesso dovrebbe proprio cominciare col riconoscere l'importanza
del silenzio per la politica (Corcoran, 1990). Ma, verrebbe
da dire, non è un luogo comune concepire il "reale" significato
- la "verità", appunto - come qualcosa che è sempre
altrove, in ciò che non è detto, o in ciò
che è dissimulato dalle ambiguità del linguaggio?
Squarciare il velo degli arcana imperii del potere, rompendo
il silenzio della parola: quante volte abbiamo ascoltato questa
assai ingenua convinzione!
Parrebbe allora di sfondare una porta aperta,
se non fosse per la circostanza che la teoria sociale e politica
contemporanee hanno sviluppato prospettive d'analisi sorprendentemente
compatibili non solo con la nozione che la politica è
costituita dal linguaggio ma anche che la politica è
linguaggio.
Preoccuparsi del silenzio della parola avrà
sempre meno senso. Molto più importante sarà invece
capire che cosa nasconde il silenzio dell'immagine.
2.2 Il linguaggio e la (De) costruzione della
realtà politca
La storia politica è cronaca di molte
frustrazioni e tragedie, che la gente subisce quasi sempre senza
opporvi resistenza. Uno degli interrogativi classici in materia
politica, è perché mai un così grande numero
di persone sostenga l'autorità di governi che richiedono
di accettare questo tipo di storia.
Nel tentativo di dare una risposta ai perché
dell'acquiescienza politica, Edelman fa del linguaggio il principale
fattore critico.
Nella formazione della coscienza e dei comportamenti
politici a rivelarsi determinante non è la "realtà"
in senso verificabile e osservabile, ma sono piuttosto le convinzioni
che il linguaggio contribuisce a mobilitare.
E' infatti il linguaggio sugli eventi politici,
"piutosto che gli eventi in qualsiasi altro senso possibile,
ciò di cui il pubblico fa esperienza. Anche gli avvenimenti
più prossimi acquisiscono il proprio significato dal
linguaggio che li descrive. Per queste ragioni il linguaggio
politico è la realtà politica: nessun altro significato
degli avvenimenti esiste…"(Edelman 1992).
Basandosi su questo presupposto epistemologico
fondamentale - la politica non esiste cioè nella sua
oggettività, ma è sempre una costruzione e/o rappresentazione
linguistico/simbolica a partire da un punto di vista particolare.
L'analisi Edelmaniana ha sviluppato due nuclei problematici
fondamentali che, insieme, provvedono ad una critica pungente
della politica contemporanea e delle rappresentazioni mediali
del processo politco nelle democrazie avanzate.
E' in primo luogo, Edelman attacca i principi
convenzionali secondo cui le convinzioni politiche sono razionali
e le azioni di governo in un certo senso rispecchiano la volontà
e le preferenze del pubblico. Nelle società contemporanee
si approfondisce invece la frattura tra leadership e i cittadini,
ridotti a spettatori passivi ed ininfluenti di spettacoli politici
che hanno altrove la propria cabina di regia. In secondo luogo,
egli sostiene che le comunicazioni di massa costituiscono l'ambito
privilegiato per la costruzione degli spettacoli politici. Le
logiche di funzionamento proprie di questo sistema fanno sì
che il linguaggio e i simboli che esso produce ed evoca diano
luogo a rappresentazioni della politica estremamente stilizzate
e, paradossalmente, tanto più attraenti quanto meno vicine
all'esperienza dei pubblici sollecitati a reagire.
Che cosa sono i media? Il concetto di "mass
media" è un concetto ambiguo.
Ciò non si deve all'uso disinvolto ed
indiscriminato che è ormai invalso anche nel dibattito
culturale. Tutto viene incluso in quella dizione, dai quotidiani
ai periodici, dalla radio alla televisione fino ai cosiddetti
"new media".
Piuttosto, l'ambiguità del termine dipende
dal fatto che i media sono al tempo stesso molte cose diverse.
Essi sono complessi apparati tecnico-industriali e organizzazioni
istituzionali con proprie logiche di funzionamento. Ma anche
risorse di potere per il controllo sociale e l'innovazione.
I mass media sono l'arena ove a livello nazionale e, in misura
crescente, internazionale si strutturano il gioco politico e
le relazioni pubbliche. Essi sono diventati il fattore più
importante di mutamento culturale attraverso l'impatto esercitato
sugli stili di vita e come meccanismi produttivi di nuove forme
simboliche. Inoltre, agendo direttamente sul sistema dei valori
e sulle aspettative di individui, di gruppi sociali e di intere
comunità, i mass media costituiscono le principali fonti
di identificazione individuale e collettiva.
3.1 Il rapporto con i media
Su questo punto Chomsky, in un libro scritto
a quattro mani con Herman, "Manufacturing consent: the political
economy ofthe mass media" (1988), ha elaborato una teoria, definita
PROPAGANDA MODEL, che spiega il modo in cui i mezzi di
comunicazione di massa diffondono e rafforzano l'agenda politica,
economica e sociale delle élites. Adottando un approccio
di "economia politica", questi studiosi considerano i media
americani come fossero quelli di un sistema totalitario, in
cui però la conformità è assicurata, non
da un controllo monopolistico attraverso la burocrazia di uno
Stato-Partito, ma attraverso "vie per le quali i soldi e il
potere filtrano le notizie da stampare, marginalizzano il dissenso
e permettono agli interessi dominanti e al governo di indirizzare
i loro messaggi al pubblico".
3.2 Media ed istituzioni di Governo
Quando il termine fourth estate (quarto
potere) si diffuse nel dibattito giuridicopolitico dell'età
moderna, nessuno faceva riferimento ai media a stampa (press).
Per lungo tempo, tale concetto ha avuto uno
status incerto, dovuto all'assoluta centralità della
formula tripartita su cui poggiava il costituzionalismo inglese.
Dopo la Rivoluzione del 1689-90, gli unici poteri riconosciuti
legittimi dalla costituzione erano infatti il re, i lord e i
comuni.
Il moltiplicarsi dei corpi (body) che avanzavano
la pretesa di una propria costituzionalizzazione, mise tuttavia
ben presto in evidenza la necessità di fare i conti con
le innovazioni nei processi di governo e nell'organizzazione
della macchina statale. Si avviò, così, un lento
processo di riformulazione concettuale che mirava ad adattare
gli schemi dottrinali alla mutata realtà politica. A
mettere ordine nel lessico giuridico-politico contribuì,
tra gli altri, Peter Burke che operò quella identificazione,
giunta fino ai nostri giorni, tra sistema dei media e quarto
potere (Gunn, 1983).
Una volta incardinato nell'edificio costituzionale,
restava tuttavia aperto il problema più spinoso: quale
profilo istituzionale e quale funzione riconoscere al quarto
potere?
A quest'interrogativo potevano essere date,
come di fatto avvenne, risposte diverse meno che una: che esso
potesse trasformarsi, al pari degli altri tre poteri, in un
soggetto della lotta politica o, addirittura, in un'istituzione
di governo. Si affermò così la funzione che
al fourth estate spettasse esclusivamente un potere arbitrale
tra quei diversi segmenti dell'autorità pubblica di più
antica tradizione. Una soluzione, questa, che può apparire
insoddisfacente se non proprio ambigua, ma che è nondimeno
la più comprensibile sia sotto il profilo storico-politico
che ideologico-culturale.
In Inghilterra, infatti, la genes intrecciarono
con il consolidamento del quarto potere. Nel corso delle trasformazioni
di tipo liberal-democratico del regime oligarchico, le forze
che sostennero tale sviluppo, ebbero, nella diffusione dei circuiti
di comunicazione una straordinaria risorsa di legittimazione
e di influenza politica. La maggiore centralità delle
istituzionale rappresentative nel sistema politico anglosassone
- parlamento e partiti - procedeva, in altri termini, di pari
passo con la costruzione di una sfera pubblica mediatizzata:
il cammino della rappresentanza e quello della rappresentazione
non erano ancora disgiunti.
Sul piano ideologico-culturale fu, inoltre,
proprio grazie a quella finzione che i teorici del liberalismo
o del popular government, alle prese con i mutamenti
negli assetti di potere vigenti, poterono restare saldamente
ancorati al rassicurante linguaggio costituzionale. L'awento
del quarto potere, piuttosto che minare dalle fondamenta la
tripartizione tradizionale, poteva esserne considerato anzi
il naturale completamento. Certo, non mancava chi, come lo stesso
Burke, ne denunciava i rischi e gli effetti degenerativi. Ma,
la circostanza che fossero i pensatori conservatori a nutrire
questa preoccupazione era oltremodo significativa. Essa era
infatti solo espressione dell'avversione per tutto ciò
che suonava come una minaccia per il vecchio ordine costituito.
E nulla era vissuto come più minaccioso del mutamento
che il quarto potere introduceva nei circuiti e nei modelli
di legittimazione dell'autorità politica.
La riflessione teorica sul quarto potere, sviluppatasi
successivamente ha riformulato, ma mai del tutto abbandonato,
quell'assunto.
Walter Lippman, ad esempio in Public Opinion
ribadirà lo stesso concetto, evidenziando i vincoli
strutturali che impediscono al quarto potere di essere potere
di governo.
Prendendo le distanze dall'idea che la stampa
dovesse compensare le "manchevolezze delle istituzioni pubbliche",
Lippman ricordava che è la natura stessa delle notizie
a renderlo inconcepibile. Metaforicamente, le news sono come
un "fascio di luce di un faro che si sposta incessantemente,
portando un episodio dopo l'altro dal buio alla luce". Ma, appunto
"gli uomini non possono governare la società a forza
di episodi, incidenti ed esplosioni". In breve, "la stampa
non è un sostituto delle istituzioni [...] [ma],
nella sua espressione migliore, ne è serva e custode
[...]" (Lippman,1963,pp. 288-9).
3.3 Le funzioni dei media
Storicamente, le concezioni più diffuse
identificano essenzialmente cinque funzioni che, in varia misura
e a seconda delle combinazioni, pongono in un rapporto di conflittualità
e/o di cooperazione gli apparati dei media e le forze politiche
e istituzionali.
Innanzitutto, si afferma il Principio di
neutralità I giornalisti devono limitarsi a raccogliere
e a presentare in maniera "obiettiva" le informazioni. L'imparzialità
è il valore professionale più importante. Il rispetto
del principio di neutralità non esclude affatto che si
possono interpretare le notizie in modo da informare i cittadini
sulle attività di governo, cioè che la stampa
svolgesse il cosiddetto ruolo di Advocacy che le viene
riconosciuto. Il terzo ruolo, eonsiderato da molti il ruolo
chiave della stampa in una soeietà demoeratiea,eonsiste
nell'assegnare ai media la funzione di rappresentare l'interesse
pubblico nei confronti del sistema politico.
Il giornalismo nella funzione di Wotchdogs,
implicitamente riconosciuta nel Primo Emendamento, ma sancita
formalmente nel 1966 con il Freedam of Information Act. In ehe
cosa esattamente consistesse questa funzione non doveva essere
poi eosì seontato, visto ehe, negli Stati Uniti, dovette
essere promulgata una legge federale per regolamentarla. La
quarta funzione eonsiste nel formare l'opinione pubbliea, e
nell'informare sia il pubblico che le istituzioni eirca il elima
d'opinione prevalente. Infine un ruolo di chiara rilevanza politiea
ehe consiste nella capacità e/o possibilità di
influenzare i processi di "Policy Making" eoncentrando
l'attenzione su singole issues o agendo da eassa di risonanza
di azioni e scelte politiche.
La grande maggioranza di studiosi di scienze
della comunicazione conviene, in ogni caso, nel ritenere che
la diffusione dei media ha fatto si che nei sistemi politici
contemporanei non si può più governare avendo
-contro il sistema dell'informazione, che non si può
governare senza il sistema d'informazione; e, infine,
che si tende a governare attraverso il sistema dell'informazione.
I media sono i veri artefici del "News Making".
Sono i giornalisti e i loro editori a determinare quali
"storie" e temi meritano l'attenzione del pubblico, vale a dire
quali eventi e/o personaggi sono "News Worthy". Questa
funzione ha un potente effetto su ciò che il pubblico
vede e apprende circa le caratteristiche personali e le proposte
dei singoli candidati. La definitiva affermazione dei criteri
propri alla logiea di trattamento della informazione dei media
si evinee soprattutto dall'analisi dei mutamenti nello stile
e nella natura delle news televisive: la durata media del Sound
bite si è drasticamente ridotta, passando da 60 secondi
a meno di 10 secondi nel giro di due decenni (1968-1988). Il
news- maker è, dunque, sempre di meno il eandidato e
sempre più il giornalista. Non è eiò ehe
dice il primo, ma quanto si dice su di esso che ormai ha la
preponderanza nella produzione delle news. Il pezo è
una sapiente confezione di materiali di diverso genere - grafiei,
filmati, commenti di esperti, sondaggi - caratterizzata da una
chiara e coerente linea interpretativa. La ricerca del "perché"
prevale sulla descrizione del "cosa". L'emergere
di questa forma di news-making da al giornalista un più
ampio controllo sul contenuto delle news, vale a dire sulla
formazione e individuazione della domanda politiea (Hallin,
1992). Essa eomporta, inoltre, una frammentazione e un impoverimento
del discorso politieo, dal momento ehe riduce drasticamente
gli spazi coneessi al confronto e all'argomentazione di idee
e programmi politici a tutto vantaggio di forme semplificate
e drammatizzate di rappresentazione (Bennett 1988).
3.4Il ruolo dei media nella competizione
elettorale
Nel loro insieme, le strategie che i partiti
e i candidati elaborano, per far fronte alle esigenze poste
da una campagna mediatizata, delineano i contorni di un modello
di comunicazione elettorale altamente professionalizzato. Con
ciò si intende soprattutto mettere in rilievo che gli
attori politici devono ricorrere a risorse - tecnologie, saperi,
figure professionali - di natura diversa rispetto a quelle che
per il passato era sufficiente attivare per ottenere il consenso
degli elettori. La sfida lanciata dai media è una sfida
a tutto campo: occorre allora attrezarsi.
Innanzitutto, in che modo gli attori politici
cercano di attirare l'attenzione dei media? Ottenere un free
news coverage è, infatti, uno dei principali obiettivi
perseguiti dai canditati alla ricerca di una maggiore visibilità
e notorietà presso il pubblico.
Questo comporta, da un lato, l'adeguamento
del discorso e dei comportamenti politici ai registri comunicativi
dei media. In altri termini, le strategie, dei partiti e dei
candidati vengono confezionati secondo le logiche produttive
degli apparati dell'informazione. Appelli, presa di parola,
dichiarazioni: tutto allo scopo di essere sulla scena mediatica.
Dall'altro lato, però, l'attenzione dei giornalisti si
cattura dando il via ad iniziative e/o eventi newsworthiness
- come le conferenze stampa e i dibattiti - di cui si cerca
di controllare ogni singolo aspetto (Kraus, 1 99o).
Le strategie di making news non sono,
però, sufficienti. Anzi, sempre più forte è
il rischio di vedere del tutto stravolti i propri messaggi:
tra politici e giornalisti, si sa, non corre buon sangue (Mancini,
Swanson, 1995). In questo contesto assumono allora particolare
importanza le strategie di advertising.
Sottoposta a regimi diversi di regolamentazione
giuridico-legislativa, condizionata dai modelli organizzativi
del sistema dell'informazione e dagli orientamenti culturali
prevalenti, la pubblicità politica televisiva si è
rivelata essere una delle principali risorse di comunicazione
politico-elettorale nelle mani di partiti e canditati. Di questi
messaggi si controllano, infatti, totalmente formati e contenuti;
e forte è la convinzione che servano a modificare le
preferenze degli elettori. Le tipologie che sono state elaborate
per dar conto delle strategie di advertising. hanno fatto talvolta
riferimento al fattore tempo come principale variabile esplicativa
(Diamont, Bates, 1984). In altri casi, la diversificazione delle
forme, della durata, delle tecniche di advertising, si spiega
alla luce di quelle variabili che attengono alle caratteristiche
del mercato politico: la natura della campagna elettorale -
nazionale o locale; la cultura politica prevalente e la posizione
di potere dei canditati in competizione- se si tratti cioè
del detentore del potere o dell'aspirante alla leadership (Kaid
et al., 1987). Nonostante queste diversità, è
possibile identificare tre principali strategie di political
advertising: di identificazione, di promozione/consolidamento
e di attacco.
Gli spot d'identificazione sono importanti
specialmente all'inizio della campagna e servono a creare presso
il pubblico una familiarità col nome del candidato. E'
evidente, che questo tipo di strategia vede soprattutto impegnati
coloro che si affacciano per la prima volta sulla scena politica.
Data la interrelazione esistente nelle campagne elettorali americane
tra livello di notorietà del candidato ed entità
dei finanziamenti, varcare la soglia della riconoscibilità
presso il pubblico diventa, però, la principale preoccupazione
per qualsiasi candidato. Se per molti cittadini questo passaggio
è sufficiente a far maturare una scelta di voto, non
è cosi per la gran parte degli elettori. Questi devono
essere persuasi e, a tal fine, si può far ricorso a strategie
che promuovono/rafforzano presso il pubblico il nome e l'immagine
del candidato associandolo a valori e/o a capacità di
gestione della cosa pubblica e di implementazione delle policies.
I candidati alla presidenza fanno appello, allora, a nuclei
valoriali discriminanti - la giustizia, la prosperità
individuale, la solidarietà ecc. - che distinguono nettamente
le rispettive piattaforme programmatiche. Il significato di
questi valori risiede nel fatto che entrambi permettono appelli
ideologici che presentano la duplice caratteristica di essere
universalistici, cioè potenzialmente rivolti a tutti
gli americani, e di parte, in quanto elementi di identificazione
della propria base elettorale (Smith, 1989).
Infine, si possono mettere a punto strategie
di attacco volte a denigrare l'awersario e a metterne in risalto
incapacità e manchevolezza. Poiché la Negative
political adrertising riflette meglio gli umori prevalenti
nell'elettorato ed è maggiormente congruente con i dettami
della media logic, nelle ultime campagne
elettorali si è assistito ad una sua straordinaria crescita
a danno degli altri tipi di advertising. (Johnson Carter, Copeland,
1991).
Come si è anticipato, la messa a punto
di efficaci strategie di comunicazione elettorale e di conduzione
delle campagne implica l'impiego di risorse organizzative complesse
e il ricorso a nuovi specialismi. Un'importanza crescente hanno,
infatti, assunto la dimensione tecnologica, i sondaggi di opinione
e un apparato di professionisti con competenze molto diversificate.
La diffusione di reti integrate di computer permette il coordinarnento
tra molteplici attività, la gestione di una quantità
di informazioni e il loro uso sia per la targettizzazione dei
messaggi elettorali sia per l'analisi degli scenari strategici
alternativi - attraverso, ad esempio, lo studio dei flussi elettorali.
Il ricorso a vari tipi di sondaggi - banch-mark
poll, trend poll e tracking poll - nelle diverse fasi della
campagna, fornisce agli attori politici i dati sugli orientamenti
e le preferenze degli elettori, sui temi rilevanti sull'opinione
pubblica o per segmenti di pubblico. In questo modo, in mancanza
di fonti di informazione alternative affidabili, si confezionano
i messaggi e le scelte strategiche da adottare nel corso della
campagna.
La professionalizzazione del modello di comunicazione
politico-elettorale contempla, infine, la centralità
di figure come i media advisers, i political consultants
e, più in generale, di agenzie specializzate in public
relations e nel pachaging.
Questi strumenti conosciuti, comunicativi e
organizzativi, prima sconosciuti, hanno contribuito a trasformare
la struttura dei partiti e le macchine elettorali dei candidati,
incidendo, in particolare, sui circuiti decisionali interni,
andati progressivamente verticalizzandosi e centralizzandosi.
Meno speculative sono, pero, le ricerche sull'impatto
del discorso politico prodotto in campagna elettorale tanto
dai media quanto dai candidati (Southwell,1991). Nel sintetizzare
i risultati di un'indagine ad ampio raggio effettuta in occasione
di vari tipi di competizioni elettorali - presidenziale, governatoriale
e per il Senato - viene sottolineato che le campagne possono
essere sia eventi di mobilitazione che di smobilitazione politica.
E che ciò dipende dalla natura dei messaggi che essi
diffondono. Posto questo nesso, è evidente che la preponderanza
delle caratteristiche del news coverage e delle strategie
dei canditati dianzi descritte - sensazionalismo, horce-race,
drammatizzazione, nagative political adrertising ecc.
- favorisce il distacco dalla vita politica.
Piuttosto che generare un atteggiamento ostile
nei confronti di determinati candidati e issues, queste caratteristiche,
infatti, sedimentano pregiudizi sulla natura del processo
elettorale, sul significato delle campagne e sulla capacità
dei cittadini di esercitare un'influenza politica. La trivializzazione
del processo elettorale svuota di senso l'atto stesso del voto;
cinica è la campagna, cinici diventano i cittadini. La
lenta ma costante erosione della credenza nella responsiveness
dei politici e delle istituzioni si accompagna alla diffusione
di un senso d'impotenza politica nei cittadini che si traduce
in una rinuncia all'esercizio del diritto di voto (Ansolabehere
et al., 1994).
3.5 Le dinamiche di comunicazione politica
nell'Europa occidentale -Il casoitaliano -.
Non c'è dubbio che una delle principali
novità di quest'ultimo decennio è l'emergere di
un solido filone di studi sulle dinamiche di comunicazione politica
ed elettorale nei paesi dell'Europa occidentale. Almeno fino
alla fine degli anni Ottanta, le ricerche evidenziano soprattutto
i fattori di differenziazione tra il modello americano e le
esperienze in atto nelle democrazie europee. Certo non manca
chi prende le distanze nei confronti del punto di vista dominante,
suggerendo che lo sviluppo dei media elettronici era destinato,
nel lasso di breve tempo, non solo ad avere un impatto determinante
sugli orientamenti di voto, ma anche sulle istituzioni politiche
e sullo spazio pubblico nel suo complesso (Seaton 1985). O,
anche, chi riconosce la centralità dei mezzi di comunicazione
nella competizione politica-elettorale, ma ne limita, però,
il raggio d'azione soprattutto alle esperienze dei nuovi e piccoli
raggruppamenti partitici, costretti a dipendere dai media per
farsi conoscere dal pubblico(Semetko,1989).
In genere, però, le risultanze empiriche
delle indagini effettuate sottolineano le differenze che sussistono
tra un paese e l'altro in ordine alle più diverse dimensioni
d'analisi - diffusione delle tecnologie elettroniche, modelli
di organizzazione degli apparati giornalistici, rapporti tra
élites e mass media ecc. - ma, soprattutto, che
nel vecchio Continente la new politic è ostacolata
dalla tenuta di assetti istituzionali - struttura normativa
del sistema elettorale, conformazione dei rapporti tra maggioranze
e opposizioni ecc. - fondati su solide organizzazioni partitiche
e sulla permanenza di una quota rilevante del voto d'appartenenza:
Questi fattori ovviamente non condizionano
in egual misura le dinamiche di comunicazione politico-elettorale
nei diversi contesti nazionali. Molto più incisivo è,
ad esempio il ruolo che viene attribuito alle variabili in senso
lato culturali nella democrazia di Westminster. Nonostante qui
sia in vigore un sistema maggioritario e si sia in presenza
di una forte premiership, la mediatizzazione delle campagne
non ha trovato un terreno fertile di coltura per la presenza
di modelli culturali irriducibili a quelli americani.
Comparando le elezioni britanniche del 1983
e quelle presidenziali americane del 1984, si mette in evidenza
che l'esito e le modalità di controllo e formazione dell'agenda
politico-elettorale vengono condizionati da fattori squisitamente
culturali. In particolare, le differenze delle ideologie professionali
appaiono discriminanti. Là dove, come in Inghilterra,
prevale una concezione della professione giornalistica ispirata
a criteri di "neutralità" e "obiettività", il
candidato ha maggiori chances di controllare l'agenda.
Diversamente dagli Stati Uniti, dove i giornalisti, godendo
di un ampio potere discrezionale, utilizzano quanto detto dai
politici in un contesto narrativo autonomamente costruito, che
i politici non sono in grado di influenzare (Semetko et al.,
1991). Questi risultati confermano, sotto un aspetto specifico,
l'ipotesi secondo cui l'Inghilterra è caratterizzata
dalla presenza di modelli di cultura politica che enfatizzano
la "sacralità" delle istituzioni e dell'assenza di elementi
populistici (Blumler, 1990).
Guardando più specificatamente alle
modalità di organizazione e conduzione delle campagne,
in Inghilterra si sono, però, andate affermando alcune
caratter~stiche del modello americano. In particolare, queste
novità concernono l'introduzione delle più sofisticate
tecniche di marketing elettorale, la diffusione del ricorso
ad agenzie di consulenza politica, I'uso dei sondaggi e di quant'altro
possa essere considerato espressione di un moderno orientamento
all'organizzazione e conduzione delle campagne. Nonostante questi
mutamenti abbiano spinto ad una riorganizzazione degli apparati
dei due principali partiti, in Gran Bretagna un ruolo decisivo
nella determinazior strategie di comunicazione elettorale spetta,
però ancora ai partiti e ai loro leader. (Kavanagh, 1995).
Per quanto riguarda l'Italia, per tutti gli
anni Ottanta si registra un sostanziale accordo sull'ipotesi
che la comunicazione politica in Italia svolga essenzialmente
funzioni di dialogo e di raccordo tra gli attori del sistema
politico. Questa ipotesi interpretativa perviene ad una definizione
della specificità del caso italiano molto diversa da
quelle fino a quel momento più accreditate. Tale specificità
non viene, infatti più ricondotta al ritardo tecnologico
e produttivo del sistema dell'informazione o ai rischi dell'avvento
del Grande Fratello, ma a variabili di natura politico istituzionale.
In Italia, a differenza di quanto accadeva negli Stati Uniti,
il rapporto tra apparati della politica e apparati della comunicazione
vedeva quest'ultimi in un ruolo di parallelismo politico se
non proprio di subordinazione ai primi. Il mancato sviluppo
del "quarto potere" era imputato "alla struttura stessa del
sistema politico e alle regole del gioco elettorali vigenti
nel nostro paese". Con un sistema proporzionale puro, "considerato
dal punto di vista della formazione del consenso, ed un sistema
coalizionale spinto dal punto di vista delle modalità
di governo" l'interazione tra media e politica si è sviluppata
con un forte carattere autoreferenziale: "i politici parlano
di se stessi e dei media, e altrettanto fanno questi ultimi,
con scarsa attenzione agli eventi e ai temi rilevanti" (Marletti,
1987).
Sulla stessa lunghezza d'onda, in un saggio
che sistematizza in quadro d'insieme i risultati delle ricerche
sul tema, si parte proprio da questo punto: il sistema politico
italiano presenta caratterizzazioni del tutto differenti dai
sistemi maggioritari, caratter~zzazioni che spiegano la natura
e il significato della comunicazione politica nel nostro paese:
la prevalenza di una comunicazione politica orizzontale su quella
di tipo verticale e il crescente uso della produzione comunicativa
ai fini strategico/negoziali. La comunicazione politica "diventa
lo strumento attraverso il quale gli attori del sistema politico
interagiscono tra di loro, mediano le rispettive posizioni,
raggiungono o infrangono accordi" (Mancini, 1990).
In un contesto caratterizzato da questi elementi
- sistema partito forte, arena elettorale complessa e presenza
di un livello di volatilità del voto molto basso - le
dinamiche di comunicazione politico-elettorale si strutturano
in forme che hanno poco a che vedere con quelle che contraddistinguono
il sistema americano. Stentano ad emergere le nuove figure professionali,
come i poliical consultant e i media men; limitato è
il ricorso ai sondaggi; penalizzate risultano le politicy issues.
In questa fase la comunicazione elettorale tende ancora a rafforzare
le appartenenze ideologiche.
Elementi di novità certo non mancano,
tanto sul versante dell'offerta dei formati, degli stili e dei
contenuti del coverage elettorale, quanto su quello delle strategie
dei candidati - e dell'adrertising in particolare (Mazzoleni,
1991). Come si è ricordato in precedenza, esse riguardano,
poi, in particolare modo la lenta ma costante diffusione di
forme di personalizzazione e spettacolarizzazione della comunicazione
politica: i dettami della media logic si impongono gradatamente
in un contesto di cui, però gli attori politici detengono
ancora il pieno controllo.
Accanto a forti elementi di differenziazione,
alcune trasformazioni nelle modalità e forme di comunicazione
politico elettorale già lasciano supporre nel decennio
passato che sia questo il trend di sviluppo. In particolare,
il terreno su cui si registrano le più significative
convergenze con l'esperienza americana riguarda le strategie
televisive di adrertising che i partiti o i singoli canditati
mettono in atto. In questo caso, si può parlare senz'altro
di una diffusione di moduli e formati American-style nelle
principali democrazie europee - Inghilterra, Francia Germania
e Italia- che si accompagna ad un mutamento significativo nell'organizzazione
delle campagne elettorali nei processi decisionali degli elettori
(Kaid, Holtz-Bacha, 1995).
Come conseguenza del riconoscimento della rilevanza
della politica video style, inoltre, si fa strada l'idea
che anche nei sistemi parlamentari stia emergendo una competizione
elettorale candidate-oriented, con leader di partito
proiettati sulla scena politica allo stesso modo dei candidati
alla presidenza (Denver, 1992).
Il punto di domanda che nel nostro paese è
stato posto - "stiamo passando dalla personalizzazione della
comunicazione politica alla personalizzazione della politica?"
- pùò essere allora tolto (Mazzoleni, 1990). Ma
questa è un'altra storia, storia del nuovo decennio.
L'impatto dei media sul processo elettorale
- dall'organizzazione delle campagne alla selezione dei candidati,
dalle strategie comunicative agli orientamenti di voto - non
può certo essere sottovalutato, ma sarebbe un errore
ritenere, alla luce di quanto detto, che la vittoria elettorale
dell'uno o dell'altro soggetto politico - partito e/o candidato
- venga decisa da essi. Anche laddove più avanzato è
il processo di mediatizzazione della politica, come appunto
negli Stati Uniti, l'esposizione ai media è diventata
cioè una condizione necessaria, ma non ancora sufficiente
per correre alle presidenziali e per vincerle. Tante sono, dunque,
le variabili in gioco che l'esito di una competizione politico-elettorale
è difficilmente imputabile al prevalere dell'una o dell'altra.
Ciò non significa affatto ridimensionare
il ruolo dei mezzi di comunicazione. Al contrario. In realtà,
è l'alternativa posta dal dibattito sul media power a
essere ormai inaccettabile. Lo dimostra, tra l'altro, la inadeguatezza
della distinzione/competizione tra media party logic. Quella
che è stata una delle chiavi interpretative più
accreditate nelle analisi comparate del decennio passato per
la comprensione delle attuali dinamiche tra sistema dei media
e sistema dei partiti, infatti, ha retto fino a che è
stato possibile distinguere analiticamente e accertare empiricamente
che i due apparati, quello dei media e quello della politica,
hanno funzionato secondo una logica autonoma. Hanno perseguito
obiettivi propri, utilizzato risorse proprie- organizzative,
professionali, finanziarie e simboliche - ed elaborato proprie
strategie di comunicazione (Mancini, 1993b).
Questa considerazione ci introduce all'ultimo
punto di domanda. Ricordare le elezioni italiane del 1994 ha
significato infatti parlare degli inizi di un decennio che per
molti analisti ha aperto una nuova era nel campo della comunicazione
politica. Cerchiamo ora di capire perché si è
giunti a un giudizio tanto impegnativo e, inoltre, di chiarire
se esso vale limitatamente all'esperienza americana oppure anche
rispetto agli scenari che vanno affermandosi nell'occidente
europeo.
La legittimazione mediatica interessa, però
anche un altro segmento del processo democratico, quello della
competizione per la leadership. Negli anni Novanta, si sono
infatti moltiplicati i casi in cui soggetti estranei o esterni
ai circuiti tradizionali della politica hanno giocato la carta
della legittimazione diretta dell'opinione pubblica nella lotta
per il potere .Quella outsider non è certo una figura
del tutto nuova. Tuttavia, per il passato, la sfida dell'outsider
avveniva nel rispetto di procedure consolidate e accettate da
tutti.
In questi ultimi anni, si è andato invece
affermando un modello di carriera "politico-mediatica" che si
caratterizza proprio per il sowertimento dei principi di legittimazione
dei leader invalsi nei sistemi democratici.
Fino al decennio scorso non si sono date valide
alternative ai modelli che hanno legittimato a governare chiunque
ne avesse superato con determinazione e pazienza i numerosi
passaggi. Il modello di carriera partitica, da un lato, e quello
tecnocratico, dall'altro, fornivano le risorse, anche di natura
simbolica, a un ceto di professionisti della politica che otteneva
il mandato elettorale. Berlusconi in Italia, Perot negli
Stati Uniti, Tapie in Francia sono solo gli esempi più
eclatanti di una strategia di affermazione personale fondata
sull'impiego spregiudicato di risorse non convenzionali, di
natura mediatica, che trasformano le regole del gioco della
rappresentanza politica.
Che la conquista di una popolarità
mediatica personale sia diventata una potente risorsa per ottenere
il successo nell'arena politica è un dato già
noto. I membri di Congresso, parallelamente all'espandersi del
media coverage di questa istituzione, hanno fatto
del going public una strategia efficace per catturare
l'attenzione del pubblico, tanto a livello nazionale che nei
distretti dove sono stati eletti.
Tuttavia, i casi menzionati danno vita a qualcosa
di molto diverso rispetto a queste esperienze. Pur nella loro
specificità, essi infatti hanno in comune alcuni tratti
che concorrono a definire un nuovo modello di carriera, un modello
di carriera "politico-mediatica", che non è assimilabile
a quello tipico dei congressmen (Lecomte, 1996).
L'accesso ai media, più che una risorsa
si è rivelato essere elemento consustanziale all'intrapresa
politica. Esso ha innanzitutto permesso di bruciare le tappe
dell'ascesa politica, cortocircuitando con i tempi lunghi delle
carriere partitiche e tecnocratiche. L'adeguamento degli stili
e dei ritmi d'azione alle esigenze del sistema mediatico, l'uso
dei sondaggi, la valorizzazione dell'elemento personale e spettacolare
a fini di identificazione collettiva ha, inoltre, fornito gli
elementi per la elaborazione di una retorica e di un linguaggio
del tutto peculiari.
L'estraneità rispetto ai canali tradizionali
di reclutamento e di socializzazione politica diviene un punto
di forza delle strategie di comunicazione. La valorizzazione,
dunque, della propria identità e delle proprie competenze
professionali, che rimarca la distanza rispetto ai luoghi tradizionali
d'esercizio del potere, viene intesa come risorsa in grado di
rinnovare profondamente l'agire politico e come fattore credibile
per sottoscrivere un nuovo patto con il popolo.
Queste strategie di legittimazione mediatica
hanno, tuttavia, dei gravi limiti. Il primo elemento di precarietà
si annida nella loro necessità di dover disporre di ingenti
risorse finanziarie. Se la politica costa in genere, costruire
una carriera mediatica lo è infinitamente più
oneroso. E' sintomatico e significativo, secondo Lecomte, che
nella corsa al potere molti di questi outsider abbiano poi finito
col fare i conti con la giustizia. Le modalità eterodosse
con cui hanno costruito la loro carriera, hanno costituito un
serio ostacolo perché la loro posizione e il loro ruolo
si consolidassero entro un campo, quello politico, che resta
un campo fortemente strutturato nonostante tutto.
Questo passaggio richiama l'attenzione su quell'elemento
ancor più grave di precarietà che inerisce alla
natura stessa della legittimazione mediatica: la evanescenza
delle risorse - il flusso di irnmagini e le strategie di comunicazione
- sulle quali essa ha fondato la propria fortuna.
Partito mediale e legittimazione mediatica
soffrono, dunque, di limiti che ne impediscono una rapida diffusione
nella democrazie occidentali. Le condizioni che hanno favorito
il loro improvviso successo - in Italia il crollo dei vecchi
partiti - sono al tempo stesso vincoli sistemici difficilmente
aggirabili (Mazzoleni, 1995). Se un radicato sentimento antipartiti
è, però, una precondizione necessaria, non
c'è dubbio, allora, che in tutti i paesi europei la sfida
è aperta (Calise, 1996).
La descrizione di queste due problematiche
ha lasciato fin qui in ombra la componente massmediologica delle
trasformazioni in atto. Certo, la focali~zione delle strategie
di legittimazione mediale dei leader ha fatto già riferimento
all'uso di nuovi stili di comunicazione politico-elettorale.
In particolare, la polemica antipartitica che accomuna le esperienze
analizzate si è fondata su un tipo di retorica - il media
populism - che non si caratterizza solo per i contenuti
dei messaggi che esso trasmette ma anche per l'uso di inediti
formati di comunicazione (Owen, 1994).
Tanto nel contesto europeo quanto in quello
statunitense, il sistema dell'informazione è stato attraversato
da mutamenti che hanno riguardato sia i media tradizionali sia
i cosiddetti "new" new media - come, ad esempio, Internet -
che costituiranno sempre più nel ffituro una fondamentale
risorsa nella competizione politico-elettorale.
In generale, nelle democrazie europee, l'attenzione
si è incentrata soprattutto su quegli sviluppi che hanno
eroso i vecchi modelli di comunicazione e che hanno emancipato
il sistema dei media dal ruolo di semplici canali di veicolazione
di informazioni prodotte dal sistema politico (Franklin, 1994;
Scammell, 1995). Nel nostro paese, poi, anche se con una
varietà di accenti, le ricerche hanno messo in rilievo
come, a fronte del declino strutturale dei tradizionali apparati
di gestione del consenso, l'intero sistema dei media si è
andato configurando come principale arena per la rappresentazione
e la strutturazione dei processi politico-elettorali (Morcellini,
1995; Mancini, Mazzoleni, 1995; Livolsi, Volli, 1996). Questa
idea centrale ha owiamente i suoi corollari. L'accento cade,
allora, di volta in volta sulla capacità dei giornalisti
di esercitare autonomamente il potere di agenda; oppure sui
nuovi formati comunicativi che hanno ampliato lo spazio per
le policy issues; o, ancora, sulla definitiva affermazione
di modalità di coverage delle campagne- personalizzazione,
uso dei sondaggi, costruzione dell'immagine ecc. - che favoriscono
il meccanismo della electability dei canditati (Bentivegna,
1995; Grandi, 1996; Savarese, 1996).
Se, da una parte, questi mutamenti sembrano
avvalorare l'ipotesi che sia giunto a compimento il processo
di americanizzazione della comunicazione politico-elettorale
in Europa, dall'altro occorre considerare che non sono certo
poche e irrilevanti le differenze che si registrano tra i diversi
contesti nazionali. Perdipiù, alcuni dei nuovi formati
di comunicazione dei media tradizionali, nonché la natura
dei "new" new media, non sono affatto riconducibili nell'alveo
di quelle trasformazioni, come dimostra, in particolare, I'esperienza
americana. Ed è su questo problema che è forse
utile spendere qualche parola conclusiva.
Nei paesi del Vecchio Continente si mette in
discussione che i nuovi media offrano la risposta ai problemi
provocati dall'espansione della media logic (Barnett,
1997). Non senza una punta di sarcasmo, si sottolinea, anzi,
come nella stragrande maggioranza dei casi la politica on-line
conta poco, e non solo per la scarsa diffusione che essa
ancora sconta. Anche chi la pratica, si dice, la pratica male,
non conoscendone appieno le potenzialità.
Se è vero che è difficile dire
fin d'ora quanto peserà il loro sviluppo sulle dinamiche
politico-elettorali, ciò non toglie che questo sia già
diventato uno dei terreni più avanzati di sperimentazione
di nuovi formati e stili di comunicazione. Vuoi che interessino
i sistemi di Breadcasting vuoi, invece, che mettano a
frutto le più sofisticate tecnologie telematiche e multimediali,
alcune delle più significative innovazioni sulle due
sponde dell'Atlantico - Internet, videoconferenze, talk show
- sono collegate da un unico filo rosso: la ricerca di o l'opzione
per una maggiore interattività tra i diversi soggetti
coinvolti nelle dinamiche comunicazionali e una tendenza al
superamento dei modelli di giornalismo politico tradizionali.
Le chiavi di lettura che sono state suggerite
per analizzare questi fenomeni hanno messo in rilievo gli aspetti
di novità, sia da un punto di vista strettamente mediologico
- come stanno cambiando i tradizionali apparati della comunicazione
- sia da quello della comunicazione politica.
Sotto quest'ultimo aspetto, la diffusione,
in particolare, dei talk show - radiofonici e televisivi - nei
più importanti appuntamenti elettorali di questi ultimi
anni - presidenziali americane e francesi del 1992 e del 1995
ed elezioni italiane del 1994 e del 1996 ha messo in luce non
poche caratteristiche di spiccato interesse teorico (Herbst,).
Come è stato osservato da due autorevoli
studiosi, tali caratteristiche sono essenzialmente due: "Una
è il ripristino della centralità del cittadino
medio come punto di riferimento degli attori della comunicazione
politica ed esso stesso partecipe del dibattito pubblico [...1.
L'altra è il ritorno della "sostanza" al centro della
comunicazione politica" (Blumler, Gurevitc, 1995).
L'ipotesi che queste novità siano riconducibili
alla maggiore capacità di esercizio di funzioni di intermediazione
e di advocacy da parte degli apparati dell'informazione
solleva forti dubbi. Anzi, non manca chi fa osservare che la
loro diffusione mette in discussione il ruolo dei giornalisti,
scavalcati, da un lato, dai leader politici, e sovrastati, dall'altro,
dalla voce di quel soggetto cui loro hanno creduto di dover
dare la parola: l'opinione pubblica (Neveu, 1996). Se questo
sia solo l'altra faccia del populismo mediatico, è presto
per dirlo. Il sospetto, però, resta ed è forte.
Sono trascorsi circa due decenni da quando,
in Europa, si metteva in dubbio l'esistenza dell'opinione pubblica
(Bordieu, 1976). Interpretabile retrospettivamente, in parte
come reazione della cultura del vecchio continente al predominio
dell'empirismo americano, in parte come espressione di una persistente
chiusura intellettuale verso quel che veniva considerato poco
più di un mito liberal-borghese, quel tentativo appare
oggi consegnato alla storia della communication research.
Riviste specializzate, centinaia di istituti di ricerca
sparsi in tutto il mondo, agenzie governative appositamente
costituite, nuove figure professionali, migliaia di articoli
e libri, insegnamenti universirari: come credere che tutto
ciò ruoti intorno a una sorta di public phantom, come
la definitiva Lippman già negli anni Venti?
Quella di Bordieu era, in realtà, una
intelligente provocazione, non del tutto priva di un nucleo
di verità. Chiunque si accinga a studiare l'opinione
pubblica si imbatte in dichiarazioni di estrema cautela, che
richiamano l'attenzione sul disaccordo esistente tra gli studiosi
su cosa si debba intendere con quel concetto. Se negli anni
Sessanta si contavano ben 50 definizioni diverse (Childs, 1965,
cit. in Davison, 1968), oggi le cose non vanno certo molto meglio,
tant'è che di recente si è ricordato il persistente
paradosso che caratterizzerebbe gli studi sull'opinione pubblica.
Un paradosso consistente nel fatto che, al vertiginoso sviluppo
delle metodologie e delle tecniche di misurazione, non ha corrisposto
una soddisfacente comprensione e definizione concettuale del
fenomeno (Noelle-Neuman, 1986).
Non c'è dubbio che una prima immediata
risposta sarebbe tentata di ricondurre le difficoltà
concettuali proprio al vertiginoso moltiplicarsi delle ricerche
empiriche. Accumulare una mole straordinaria di dati ha potuto
favorire la standardizazione delle procedure di rilevamento,
ma non certo la definizione di schemi analitici e criteri interpretativi
univoci e generalmente condivisi. Questa, come tutte le risposte
facili, coglie in effetti solo una parte di verità, e
nemmeno la più significativa. La risposta va invece cercata
soprattutto nel mancato raccordo che ab origine è
dato riscontrare tra mutamenti politico-istituzionali e riflessione
teorica. Una frattura che il classico lavoro di Habermans (1971)
ricostruisce puntualmente. ma che non contribuisce a ricucire
in maniera convincente.
Come è noto, lo studioso della scuola
di Francoforte apriva, oltre trent'anni fa, la ricerca su ciò
che fosse esattamente - e quindi anche su quando, dove e come
si venisse originariamente affermando - la "sfera pubblico borghese".
Una sfera pubblica storicamente ben distinta da quella popolar-plebea,
che pur emergeva talvolta già nel XVIII secolo, così
come da quella che Habermans chiama "plebiscitaria acclamativa"
di alcune società industriali postliberali.
Da questa analisi emerge che l'opinione pubblica
è storicamente uno spazio istituzionale organizzato nell'ambito
dello Stato di diritto liberale. La sua funzione è di
natura prettamente politica, in quanto si pone come istanza
intermedia fra l'elettorato e il potere legislativo. Più
precisamente, in questo processo le diverse aggregazioni che
appunto formano la sfera pubblica hanno come controparte lo
Stato, il potere politico incarnato nell'amministrazione e nel
controllo, nella corte e nelle istituzioni politiche. Essa ha,
inoltre, la funzione di consentire a tutti i cittadini un'attiva
partecipazione politica, mettendoli nella condizione di discutere
e di manifestare le proprie opinioni sulle questioni di pubblico
interesse.
Il declino delle condizioni strutturali, su
cui si fondava lo Stato liberal-borghese - netta separazione
tra sfera pubblica e sfera privata, centralità del parlamento,
suffragio censitario, liberalismo economico - ha fatto sì
che dell'opinione pubblica, come istanza critica e di controllo
rispetto al potere politico, si potesse parlare ormai solo in
termini di finzione istituzionale e giuridica. Nelle società
democratiche di massa l'opinione pubblica non essendo più
il frutto di una discussione pubblica tra individui autonomi
e razionali, si è ridotta ad una "istanza ricettiva"
delle strategie manipolatorie delle élites di potere
in cerca di consenso e legittimazione politica.
L'opera habermaniana coglieva lucidamente la
questione teorica di fondo, ma finiva poi con l'essere debole
sul piano propositivo, costretta dalle sue stesse premesse normative
a lanciare grida di allarme o a prefigurare utopistici scenari
di un nuovo e razionale universo comunicativo. Su questo percorso
di ragionamento era allora, non solo molto difficile ricostruire
il concetto di opinione pubblica, ma anche sperare di saldare
riflessione teorica e ricerca empirica.
D'altra parte, se guardiamo agli esiti cui
approda l'altro approccio, quello struttural-funzionalista,
le cose non sono andate diversamente. In polemica con Habermans,
il sociologo tedesco Niklas Luhman ha sostenuto, in uno dei
più robusti scritti teorici sull'argomento, che l'opinione
pubblica ha cessato di svolgere quel ruolo di controllo critico
sull'azione di governo ed è divenuta "lo strumento in
grado di ridurre l'elevata arbitrarietà di ciò
che è possibile giuridicamente e politicamente", ovvero
la "struttura tematica" oggetto delle decisioni normative e
politiche. (Luhman, 1978). Tale struttura si sviluppa grazie
a un processo comunicativo e secondo modalità che "catturano"
I'attenzione del pubblico su determinate issues. Si parla
allora di opinione pubblica solo quando e nelle circostanze
in cui un tema s'impone alla discussione pubblica e diventa
oggetto di controversia politica. L'opinione pubblica come effetto
d'agenda? Si, se essa altro non è che la sequenza dei
"temi" di maggiore risonanza sociale che il sottosistema politico
seleziona e ordina sulla base del grado di interesse pubblico
suscitato. Data l'importanza attribuita ai flussi di informazione,
ci si aspetterebbe una maggiore attenzione per la logica massmediale
e per il suo impatto sui processi di tematizzazione. Purtroppo,
niente di tutto questo. I media appaiono infatti rivestire un
ruolo secondario all'interno del sistema politico-istituzionale.
La teoria struttural-funzionalista, che avrebbe potuto vantare
tra i suoi punti di forza il proprio contributo al superamento
del gap tra riformulazione teorica dei concetti e indagine empirica,
non è invece riuscita nell'intento.
4.1 Le Origini
La fiducia dei pensatori liberali inglesi e
francesi - da Burke a Bentham, da Constant a Guizot - nella
"incorruttibilità" dell'opinione pubblica come fondamento
del potere politico fu già messa in discussione da Alexis
de Tocqueville nella Democrazia in America. Denunciare
i pericoli del dispotismo della maggioranza o del conformismo
di massa significava infatti mettere in discussione l'idea che
lo sviluppo delle società moderne garantisse il libero
svolgimento della personalità individuale e il formarsi
di un pubblico di individui raziocinanti.
Ma fu soprattutto con il nuovo secolo che nelle
liberal-democrazie occidentali queste preoccupazioni e questi
dubbi si diffusero ben al di là di ristretti circoli
di intellettuali. Infatti, "se sul piano empirico si assisteva
a una grande ricchezza e varietà di ricerche, sul piano
tearico erano presenti varie tendenze, spesso contraddittorie,
rispetto a cosa si intendeva per opinione pubblica. Era proprio
su tale concetto che si erano focalizate le critiche di molti
importanti studiosi come Lippman, Dewey Lowell, Wallas. Quella
che veniva messa sotto accusa era la visione ottocentesca di
una democrazia dove la rale by public opinion si basava
su una concezione non ancora incrinata delle funzioni conoscitive
della razionalità umana". (Frezza, 1989)
A spingere un ripensamento critico di questo
concetto vi avevano contributo numerosi fattori. Lo sviluppo
delle nuove tecniche di comunicazione di massa aveva mutato
il panorama della società industriale americana attraverso
un enorme ampliamento della audience e un'espansione del mercato.
Ma ancor più decisiva era stata l'esperienza della Grande
Guerra. Maturò infatti in quegli anni un clima culturale
che tendeva a minare la teoria democratica tradizionale. L'enfasi
sulle componenti irrazionali dell'agire umano non poteva essere
facilmente respinta.
Per la prima volta nella storia le tecniche
delle public relations, della publicity e dell'advertising
erano state utilizzate su scala di massa dallo stesso apparato
governativo "per trasformare una popolazione pacifista in una
massa isterica e guerrafondaia che (...) voleva entrare in guerra
e salvare il mondo " (Chomsky, 1994). L'efficacia delle tecniche
di propaganda venne generalmente riconosciuta al punto che se
ne teorizzò il ricorso sistematico a fini di consenso.
Tra gli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta,
in maniera più o meno consapevole ed esplicita, le ricerche
vengono condotte a partire dalla ripresa di questi assunti normativi
della teoria del governo rappresentativo. Se l'opinione pubblica
è funzione vitale dei sistemi democratici, nella misura
in cui Ia distribuzione delle preferenze in essa esistente riesce
a tradursi in corrispondenti scelte politiche e di governo,
allora la verifica empirica, o anche la falsificazione, di quest'assunto
diviene l'obiettivo primario, nonché il significato ideologico,
dell'enorme sforzo di investigazione scientifica che si va compiendo.
In un clima fortemente ideologizzato e di autocelebrazione
dei valori della democrazia liberale, non potevano certo mancare
studi sulle strategie perseguite dalle élites politiche
e di govemo per influenzare l'opinione pubblica. Propaganda,
pubblicità e numerose altre tecniche di new management
vengono minuziosamente analizzate per giudicarne l'effetto
manipolatorio. Sebbene non manchi chi riconosca come sia difficile
l'accertamento della connessione empirica tra le variabili,
alla fine prevale l'idea che l'esistenza di un sistema pluralistico
di informazione - in cui, si noti, figurano non solo i mass
media, ma anche i gruppi di appartenenza e le associazioni politiche
e civili - fa salva l'autonomia di giudizio di ciascun individuo.
La teoria degli "effetti limitati", e la sua
fortuna, si comprendono solo se collocate su questo sfondo più
generale. Formulata agli inizi degli anni Sessanta da Joseph
Kappler sulla base dei risultati empirici forniti dalle ricerche
condotte da Lazarsfeld, Berelson e Gaudet in occasione delle
elezioni presidenziali del 1940 e del 1944, essa riprendeva
l'ipotesi del "rafforzamento", per la quale i media non modificano
le opinioni, ma appunto le rafforzano. Il meccanismo attraverso
cui ciò avverrebbe è quello della "percezione
selettiva", vale a dire la tendenza degli individui a selezionare
nella massa delle informazioni diffuse dai media principalmente
quei messaggi in sintonia con le proprie preferenze, e a rimuovere
invece i messaggi dissonanti. Ed è, infine, grazie a
questo meccanismo che i fruitori dei flussi di comunicazione
possono sottrarsi da effetti di manipolazione.
Questa affermazione è tanto più
vera, secondo Kappler, quanto più si pensa che nei sistemi
democratici i cittadini non sono esposti ai media in condizioni
di isolamento, ma, piuttosto, all'interno di una rete molto
più vasta di rapporti sociali. Pluralismo delle fonti
di informazione da una parte, capacità di percezione
selettiva, dall'altra, non erano che due facce dello stesso
processo di riaffermazione e rilegittimazione dei valori e delle
istituzioni democratiche.
Il modello degli "effetti limitati" e l'idea
del carattere del destinatario della comunicazione mediale prendono
sempre più consistenza sulla base di indagini empiriche
circoscritte a specifici eventi comunicativi, e con una attenzione
rivolta a registrare quei fenomeni che confermano l'esistenza
di una relazione di tipo causaeffetto tra messaggio e orientamento
politico-ideologico dei suoi destinatari.
Il concetto che si afferma in questi anni è
quello che intende l'opinione pubblica come nient'altro che
la sommatoria delle opinioni di ciascun individuo di una popolazione
data su una specifica issue in un particolare intervallo
temporale. E' questo il clima culturale prevalente che spiega
la straordinaria diffusione dei sondaggi d'opinione. Basti qui
ricordare la fondazione, nel 1965, della World Association for
Public Opinion Research, cui aderirono più di 40 paesi;
e la creazione di centinaia di istituti di ricerca, soprattutto
negli Stati Uniti, sia a livello locale che nazionale e statale.
4.2 Teoria dell'Agenda Setting
Nella sua versione originaria, per la teoria
dell'agenda setting il problema era di accertare empiricamente
la corrispondenza tra agenda dei media e agenda del pubblico.
(Cohen, 1963; McCombs, Shaw, 1972). Più precisamente,
come è stato ricordato, I'ipotesi iniziale dell'agenda
setting non sostiene che i media cercano di persuadere ma, "descrivendo
e precisando la realtà esterna, presentano al pubblico
una lista di ciò intorno a cui avere un'opinione e discutere
(....). L'assunto fondamentale dell'agenda setting è
che la comprensione che la gente ha di gran parte della realtà
sociale è mutuata dai media". (Shaw, 1979).
Si afferma cioè l'esistenza di un nesso
di causalità per il quale le priorità dell'agenda
dei media influenzano le priorità dell'agenda del pubblico.
Si verifica così un trasferimento di salienza dagli
elementi costituenti le immagini del mondo presentate dai media
agli elementi costituenti le nostre rappresentazioni mentali
della realtà.
Indubbiamente, la linearità del ragionamento
e la semplicità dei processi di operazionalizzazione
dei concetti formulati all'interno di quest'ipotesi ne spiegano
in buona misura il successo. Ma fors'anche la debolezza. Sebbene
l'ipotesi dell'agenda setting sia storicamente collocabile sullo
sfondo del riconoscimento del ruolo giocato dai mass media nel
processo "cognitivo di mediazione della realtà" (Marletti,
1995) essa non si spinge infatti fino a considerare come
ciascuna issue viene poi di fatto interpretata dagli
individui e cosa questi individui effettivamente pensano.
Una delle conseguenze più importanti
di questi approfondimenti della teoria dell'agenda setting è
che si è diffusa la consapevolezza dell'impatto delle
rappresentazioni massmediali non solo sulle opinioni e gli atteggiamenti
del pubblico, ma anche sui loro comportamenti. Parafrasando
il classico commento di Cohen, McCombs ha sintetizzato i termini
attuali del dibattito con queste parole: ""i media possono non
soltanto dirci intorno a cosa pensare, ma anche come pensare
e cosa pensare su un certo tema e persino cosa fare riguardo
ad esso." (1996).
Il contributo della Noelle-Neuman fornisce
preziosi elementi di chiarimento sui meccanismi grazie ai quali
si esercita questa influenza dei media. L'autrice, fin dalla
prima metà degli anni Settanta, ha cercato, infatti,
di ricostruire e spiegare le dinamiche di interazione tra produzione
massmediale e formazione della pubblica opinione, e come questo
processo può essere descritto empiricamente con adeguate
tecniche di sondaggio.
Benchè la sua teoria della spirale del
silenzio sia stata elaborata inizialmente nel campo degli studi
elettorali, essa ha una portata esplicativa più ampia,
fondandosi, peraltro, su assunti epistemologici e teorici non
riconducibili a quelli del paradigma comportamentista dominanti
nella fase precedente. I punti salienti dell'argomentazione
della Noelle-Neaman sono i seguenti:
- gli individui hanno opinioni;
- temendo l'isolamento, gli individui non esprimono le loro
opinioni se percepiscono dl essere in minoranza;
- si cerca allora, seguendo una sorta di sensibilità
"quasi-statistica", di verificare se nell'ambiente circostante
prevale il proprio punto di vista;
- i mass media costituiscono la principale fonte di riferimento
per le informazioni sulla distribuzione delle opinioni e così
dell'orientamento prevalente;
- i media tendono a convergere nella produzione delle news,
almeno nelle realtà ove vige una situazione monopolistica;
- i media tendono a fornire una visione distorta della distribuzione
delle opinioni nella società, anche in virtù
del prevalere delle concezioni dei giornalisti;
- nel percepirsi in minoranza, gruppi di individui, che possono
anche costituire la maggioranza numerica della popolazione,
preferiranno non esprimere pubblicamente le loro opinioni,
innescando così il meccanismo autoalimentantesi della
spirale del silenzio. Questa affermazione non implica che
necessariamente si verifichi un cambiamento negli orientamenti
e nelle opinioni di questi gruppi di individui, ma solo che
essi saranno man mano spinti a uscire di scena.
Facendo leva su quel profondo meccanismo socio-psicologico
che è la paura dell'isolamento la creazione di "climi
d'opinione" agisce, così, come potente fattore di controllo
sociale e di legittimazione di valori (interessi, preferenze
e orientamenti) che vengono a imporsi come predominanti.
Tuttavia, l'analisi della Noelle-Neuman, non
diversamente da quelle che hanno sviluppato i concetti di
framing e priming, pongono rilevanti problemi di teoria
politica. Quella che, negli anni Cinquanta, la letteratura indicava
essere la caratteristica essenziale del sistema dei media nei
regimi totalitari, viene infatti ora associata anche alle democrazie
occidentali, finendo così col mettere in discussione
alcuni degli assunti costitutivi della teoria democratica moderna
(Noelle-Neuman,1989, 1990)
In una realtà intrinsecamente ambigua
e contraddittoria, le opinioni, come i pubblici quindi, si costituiscono
e ricostituiscono attraverso i simboli utilizzati dai leader
per richiamare l'attenzione su problemi ed eventi di immediato
e, molto spesso, fugace interesse sociale. Per Edelman, l'opinione
pubblica non è dunque un "fatto", ma piuttosto una costruzione
simbolica o, anche, un puro simbolo evocato nella competizione
per il potere e nelle controversie politiche.
Se l'opinione pubblica è soggetta a
una manipolazione da parte delle élites politiche e di
governo, il focus dell'analisi diventano, da un lato,
le risorse messe in campo da queste forze nel perseguimento
delle loro strategie manipolatorie e, dall'altro, le condizioni
che favoriscono od ostacolano il ruolo dei mass media nell'attivare
o marginalizzare l'attenzione del pubblico in vista di deterrninati
output decisionali (Margolis, Mauser, 1989).
Quest'approccio, non nega che nelle società
contemporanee si verifichino sviluppi incontrollati e spontanei
di movimenti di opinione che finiscono per condizionare le scelte
dei governi e delle autorità politiche. Tuttavia, esso
vuole evitare il rischio di sovrastimare il loro impatto sul
policy making. Infatti, molto più frequentemente
operano dei meccanismi attraverso cui i rapporti tra opinione
pubblica e polices vengono preordinati dalle elite politiche.
La individuazione e la definizione di questi
meccanismi vengono conseguite attraverso un'analisi dei modelli
di cultura politico-istituzionale dominanti, nonché delle
trasformazioni delle pratiche e delle ideologie che caratterizzano
la produzione massmediale.
Nello sviluppare la tesi della "marginalizzazione"
dell'opinione pubblica come fenomeno tipico della società
americana, Lance Bennet, (1989), ad esempio, parte dai seguenti
tre assunti.
Primo, vi è una diffusa sfiducia nella
bontà e legittimità delle opinioni delle masse.
Nella cultura politica americana questo è un pregiudizio
molto radicato che spinge parti significative degli attori istituzionali
e degli apparati dei media a non considerare espressione dell'opinione
pubblica i dati offerti dai sondaggi se non in occasione delle
elezioni e con riferimento alla popolarità del presidente.
Questo è l'assunto della inferiorità delle opinioni
del popolo (popular inferiority).
Secondo, i rappresentanti delle istituzioni,
dei partiti e dei gruppi di interesse si pongono come fedeli
interpreti delle opinioni del popolo. Questa credenza, altrettanto
radicata della precedente nella cultura americana, dà
origine all'assunto della superiorità delle opinioni
istituzionali (institutional superiority).
Infine, perché possa realmente attivarsi
il processo di marginalizzazione dell'opinione pubblica è
necessario che i mass media ignorino le discrepanze tra le opinioni
dei rappresentanti istituzionali e quelle delle masse così
come vengono rilevate dai polls. Quando il sistema dell'informazione
manca di dare visibilità a tale discrepanza vuol dire
che funziona il terzo assunto, quello della passività
dei media (passive media).
Non meno di due assunti precedenti, anche questo
della passività dei media è un fenomeno culturale.
In particolare, esso è il frutto di un lungo processo
di trasformazione degli apparati dei media e delle ideologie,
non solo professionali, che hanno sostenuto l'emergere di un
modello di giornalismo nazionale e standardizato improntato
a valori della neutralità e della fairness (Bennet,
1988).
Certo, queste posizioni sembrano avvalorare
l'idea che ci si trovi di fronte ad un atteggiamento aprioristicamente
ostile all'ipotesi che anche i media siano attori dei processi
di policy makiing. In realtà, non è così.
Come è stato di recente riconosciuto da un autore che
si ricollega a questo filone di ricerca, le organizzazioni mediali,
grazie al ruolo chiave nel sistema di circolazione delle informazioni
politiche, influenzano indirettamente il processo di
policy making, modificando credenze e preferenze delle
audiences - pubblico di massa ed elite - cui compete
di intervenire e di decidere in ultima istanza.
Si può, allora, parlare, e in che senso,
dei media come di un "attore politico"? Questo concetto quantomeno
implica: un'azione osservabile che è intenzionale
(purposive), un'intenzionalità di natura fimzionale,
e suff~cientemente univoca (unified). Queste tre caratteristiche
danno senso all'idea che i media siano appunto un attore politico.
4.3 I sondaggi d 'opinione
C'è un mutamento di clima culturale
rispetto alla legittimità e al significato dei sondaggi.
Tale mutamento, più ancora che nella diffusione delle
normative che ne regolamentano le modalità di realizzazione
nelle diverse democrazie occidentali, si coglie nella difesa
fatta dal presidente dell'AAPOR (American Association for Public
Opinion Research) dell'uso dei sondaggi e delle organizazioni
che operano in questo campo. Una difesa molto diversa da quella
che per il passato non si era mancato di far sentire in risposta
alle critiche dei metodi e della solidità dell'impianto
complessivo delle ricerche effettuate. Da qualche anno viene
infatti messo in discussione il principio ideologico fondamentale
che ha storicamente giustificato l'introduzione e l'espandersi
dei polls: la loro utilità o anche la loro compatibilità
con lo sviluppo di una società democratica. La crescente
consapevolezza dell'impatto dei sondaggi sui processi politici
e di governo si è trasformata in un'aperta denuncia dei
rischi per la democrazia che il loro sistematico uso comporterebbe.
In Francia, ove la produzione dei sondaggi
ha raggiunto livelli superiori a quelli propri degli Stati Uniti,
tale sviluppo ha alimentato un dibattito dai toni talvolta preoccupati,
tal'altra disincantati, e sempre meno di aperto sostegno. In
un fortunato libro su La nuova comunicazione politica già
a metà del decennio scorso si parla, ad esempio, di Repubblica
dei sondaggi, a sottolineare l'importanza assunta da questo
fenomeno per le istituzioni politiche e per il sistema di relazioni
tra governanti e governati (Cayrol, 1986)
Di sondocrazia si è cominciato
a parlare anche nel nostro paese in occasione delle elezioni
del 1994. E, sebbene sia stata introdotta subito dopo una normativa
volta alla regolamentazione di questo strumento, non si può
certo parlare di un ritorno al passato (Fusaro, 1995).
Ma quale tipo di rapporto politico è
alla base dei sondaggi? Partendo da questo interrogativo si
può, forse, provare a capire meglio perché questa
è una problematica che tocca la qualità stessa
della vita democratica di un paese.
I sondaggi risponderebbero, in particolare,
a due esigenze, quella di fornire gli strumenti grazie ai quali
i cittadini possono partecipare in maniera significativa alla
vita politica esprimendo autonomamente ciò che pensano
e ciò che vogliono, e, inoltre, quella di costituire
un legame con i propri leader politici saltando qualsiasi forma
di mediazione. Questo nesso si manifesta, peraltro, in rnaniera
più stringente nella prevalenza dei sondaggi referendam-type
che, condotti sull'assunto che le opinioni possano essere
misurate allo stesso modo delle intenzioni di voto, danno per
scontata la cristallizzazione delle opinioni stesse e la loro
"tangibilità".
Sulla base di questo presupposto, prende
corpo la tendenza a presentare i risultati dei sondaggi come
dei plebisciti, come l'espressione della "volontà generale"
dei cittadini-elettori, favorendo così l'attivazione
e consolidamento di un "nuovo prinncipio di
legittimità universale fondato sull'audience, sull'approvazione
popolare o sull'applauso". (Champagne, 1994)
Chi vince? Questa è la domanda di fondo
cui si vuole dare una risposta, anche a costo di una semplificazione
estrema e, soprattutto, con la conseguente diffusione di una
ideologia e di una cultura che aborriscono la mediazione e il
compromesso.
Dianzi si è detto che sempre più
spesso la pratica dei sondaggi viene messa sotto accusa e che
si è creato un clima di delegittimazione di questo strumento.
Anche da queste poche considerazioni è chiaro il motivo.
I sondaggi, invece di dare la parola al popolo e rilanciare
la democrazia partecipativa intesa come instant referendam
democracy, avrebbero assunto un profilo funzionale inedito
rispetto ai tradizionali istituti rappresentativi e referendari,
aprendo la strada all'affermazione di forme populiste e plebiscitarie
di organizzazione della vita politica. La rappresentatività
statistica del campione ha la meglio sull'universo di riferimento,
tanto da dar vita ad una situazione in cui gli elettori reali
si vedono sostituiti dalla propria proiezione demoscopica e
resi osservatori passivi e remoti di se stessi (Zolo, 1992).
Le trasformazioni dei sistemi dell'informazione,
diventati il vero motore dello sviluppo straordinario dei polls,
non è un dato recente negli Stati Uniti. La produzione
dei sondaggi ad opera degli apparati massmediali stessi si ebbe,
infatti, per la prima volta nel 1967, allorchè i tre
principali network televisivi americani - CBS, NBC, ABC - costituirono
proprie unità operative di polling. Ma fu nel 1975 che,
con la partnership tra CBS e il "New York Times", vennero delineandosi
le caratteristiche attuali. Alla base della collaborazione non
vi furono solo motivazioni di natura economica—l'abbattimento
dei costi di realizzazione dei sondaggi -. Ciò che spinse
maggiormente in questa direzione fu la volontà delle
due testate a rendersi indipendenti dalle fonti per così
dire uff~ciali, in particolare dalle agenzie governative, dai
gruppi di interesse e dai politici.
Che i news media polls abbiano sostituito
le altre fonti non è espressione di un "eccezionalismo"
americano. Come è dimostrato sia dall'esperienza francese
che da quella italiana siamo in presenza di un trend transnazionale
che è probabilmente destinato a consolidarsi.
Per l'Italia basti ricordare l'indagine Censis
del 1996 ove risulta, invece, che la produzione di sondaggi,
enormemente cresciuta in quell'anno, è per il 70% circa
una produzione interna al sistema dell'informazione.
Precedentemente si è detto che i media,
sia televisivi che a stampa, ricorrono a questo strumento con
un investimento crescente di denaro per sottrarsi ai vincoli
e ai condizionamenti posti dalle fonti ufficiali del sistema
politico-istituzionale. Questa chiave di lettura è, però,
parziale se non si considera anche l'altro aspetto, vale a dire
la tendenza degli apparati dell'informazione a crearepsendo-eventi,
vale a dire news interamente pianificate e controllate da essi
stessi. In altri termini, la produzione di sondaggi, oltre
che rilevarsi congruente con la natura dei codici linguistici
propri delle news - semplificazione e drammatizzazione della
realtà - è particolarmente efficace nell'espandere
e consolidare il processo di mediatizzazione della politica.
La crescita dei media polls ha, infatti,
un forte impatto sul funzionamento della sfera pubblica - pubblico
e istituzioni politiche - delle società contemporanee.
Seguendo la sintesi proposta dal Ceri, si possono distinguere
almeno le seguenti funzioni:
Funzione di legittimazione:
- consolidare o rilanciare l'immagine positiva di un attore
politico (singolo leader, forza politica o coalizione);
- indebolire l'immagine (di forza, integrità, credibilità)
di un avversario.
Funzione di formazione dell 'agenda politica:
- affermare e/o legittimare la priorità o il rilievo
di una o più questioni (e interessi), escludendo o
subordinando implicitamente altre dall'agenda politica;
- diminuire e/o delegittimare la priorità o il rilievo
di una o più questioni, così da declassarle
o, se possibile, escluderle dall'agenda politica.
Funzione diformazione del consenso:
- preordinare - imponendole all'attenzione della pubblica
opinione - certe alternative di soluzione dei problemi, a
discapito di altre che restano nell'ombra, declassate o escluse;
- far risaltare il gradimento delle scelte (policies) attuate
dall'attore politico interessato (governo, gruppo dirigente);
- selezionare i gruppi dei quali far valere l'opinione, a
discapito degli altri (Ceri, 1994)
La teoria politica e giuridica classica ha
sempre riconosciuto al sistema dell'informazione un ruolo centrale
per il funzionamento e la soprawivenza stessa della democrazia.
I1 quarto potere avrebbe assunto un tale rilievo costituzionale:
- esercitando le funzioni di critica e di controllo del potere;
- articolando e dando voce agli interessi esistenti nella
società;
- incentivando il dialogo tra pubblici e tra questi e il ceto
politico;
- favorendo il coinvolgimento dei cittadini nei processi politici;
- innalzando il livello di conoscenza e di comprensione dei
problemi;
- conservando l'autonomia e la capacità di essere fedeli
interpreti dell'opinione pubblica.
Nobili ideali o mere finzioni ideologiche utili
a legittimare i media stessi e le politiche che ne regolamentano
attività e assetti organizzativi?
Da alcuni anni si sono andate moltiplicando
le ricerche e le denunce sulle discrepanze tra piano normativo
- come dovrebbero funzionare gli apparati della comunicazione
secondo la teoria della democrazia - e piano fattuale - quali
strutture e quali pratiche prevalgono attualmente.
L'affermazione delle corporations mediali
non vanifica forse il principio pluralista? La logica di mercato
non irrigidisce i formati comunicativi, impoverendone i contenuti
informativi? I1 potere politico non affina le armi del controllo
sui media appena riconosciutane la centralità? E, infine,
i cittadini: ammesso pure che questi vogliano essere bene informati,
non è forse vero che il demo continua a essere
l'anello debole della catena?
La democrazia ha dovuto affrontare già
altre sfide nel corso di questo lungo XX secolo. Questo si inaugurò
proprio con le aspre polemiche sulla decadenza dei regimi parlamentari,
alimentate da una cultura elitaria che non vedeva certo con
favore l'irrompere sulla scena politica di strutture organizative
come i partiti di massa e i sindacati. Si temeva che questi
soggetti non solo alterassero il funzionamento delle istituzioni
rappresentative tradizionali, ma le svuotassero del loro significato
storico e culturale: un nuovo medioevo batteva alle porte di
una civiltà, quella occidentale, che si mostrava incapace
di contrastarlo.
Seguirono, poi negli anni Venti e Trenta, le
soluzioni totalitarie che fecero tabula rasa delle istituzioni
democratiche e dei suoi valori fondamentali. Dal conflitto cruento
con il totalitarismo la democrazia uscì vincitrice e
affidò anzi il proprio consolidamento al radicamento
di quel soggetto - il partito di massa - che fino ad allora
la cultura politica e giuridica dominante aveva guardato con
sospetto o aveva esortato a limitame il raggio d'azione.
Ma non durò a lungo. Già sul
finire degli anni Settanta, nuove modalità di espressione
e di governo dei conflitti sociali riportarono alla ribalta
il problema della tenuta delle istituzioni rappresentative -
in particolare del circuito partitiparlamento - e, dunque, della
democrazia politica come si era andata costruendo nei tre decenni
precedenti.
Il paradigma e le esperienze "neocorporative"
ebbero scarsa fortuna nel panorama europeo. E, nonostante che
il loro rapido declino non lasciasse intravedere un rivingorimento
di quel circuito, nessuno mise in discussione la convinzione
che l'agire politico potesse prescindere da specifiche istituzioni
della rappresentanza.
Quale sfida ha di fronte la democrazia, oggigiomo?
Dalla ricognizione delle principali problematiche
della political communication sono emersi senza dubbio importanti
interrogativi circa il futuro della politica democratica. Essi
riguardano in particolare i principali protagonisti dell'azione
pubblica di questo secolo, lo Stato-nazione e, soprattutto,
il partito organizzato di massa.
Il declino del primo, stretto nella morsa di
spinte contrapposte - la globalizzazione e i localismi - non
può essere certo dato per scontato. Almeno nel caso della
politica estera, lo Stato-nazione conserva la capacità
di controllo di quella potente risorsa che è la pubblica
opinione grazie al monopolio delle immagini che esso ancora
detiene. Ma che cosa è restato del suo significato simbolico,
della sua sacralità? In videocrazia, "la personalizazione
(fisica) tende a rovinare la personificazione (morale). La trasparenza
liquida la trascendenza". Ecco la silenziosa catastrofe dello
Stato (Debray, 1994).
Il secolo, dal canto suo, giunge alle soglie
del duemila delegittimato dal dilagante antiparty sentiment
e indebolito nella sua capacità di mobilitazione
e di controllo dei processi di govemo. Sebbene molti dati, come
le trasformazioni organizzative e i riaggiustamenti nelle strategie
di acquisizione del consenso, invitino a essere più cauti
nel dichiarare ineluttabile il declino di questo soggetto politico,
non c'è dubbio che un'epoca- quella della democrazia
dei partiti - è tramontata.
Queste considerazioni ci spingono a guardare
a quella che è forse la vera sfida cui si trovano di
fronte le democrazie contemporanee, vale a dire la messa in
discussione dell'idea stessa della politica, di cui l'antiparty
sentiment è solo la spia più significativa.
5.1 I media e l'antipolitica
L'analisi dei fattori che scatenato il rigetto
antipolitico della politica porta l'attenzione sul ruolo dei
media e della "telecrazia" in particolare. In un articolo dal
titolo Può la democrazia sopravvivere alla televisione?
Manhein (1976) richiamaI'attenzione sul rischio che lo sviluppo
dei media elettronici potesse non solo trasformare il modo di
fare politica ma anche il modo d'essere della
politica, attraverso un'azione corrosiva delle basi socio-culturali
e delle rappresentazioni simboliche che l'hanno radicata e legittimata
nelle sue forma organizzative e istituzionali.
Secondo Putnam occorre fare un salto di qualità
nell'analisi e fare i conti fino in fondo con ciò che
ha significato e significa tutt'ora il mezzo elettronico per
la democrazia americana. In particolare, occorre prestare attenzione
al lento ma inesorabile processo si erosione del "capitale sociale"
e di partecipazione civica provocato in questi ultimi due decenni
dalla televisione.
Basando la sua analisi sui dati forniti dalla
General Social Survey: 1974-1994, Putman deve fare i
conti con uno scenario del tutto diverso e per niente incoraggiante.
E giunge alla conclusione che il trend negativo dei principali
indicatori scelti per misurare lo stato di salute del sistema
politico-istituzionale americano - declino della membership
dei gruppi sociali e delle associazioni volontarie e in molte
forme di partecipazione politica collettiva e individuale come
la militanza partitica e l'espressione del voto - è correlato
fortemente alla pervasività del mezo televisivo. Più
precisamente, gli affetti della televisione si sono fatti sentire
nel declino delle relazioni comunitarie face.to.face e
nella diffusione di una visione misantropica del mondo.
L'erosione del "capitale sociale" contribuisce
pertanto a quel lento processo di ridislocazione dei luoghi
dell'agire politico che la Jamieson (1996) ha provocatoriamente
sintetizzato nell'idea che oggi è più probabile
che le esperienze politiche significative vengano fatte nella
"privacy of our living room" che non in uno spazio pubblico
condiviso.
Su questa lunghezza d'onda si pongono anche
le ricerche che hanno incentrato l'attenzione sulle trasformazioni
nei modelli di giornalismo: In particolare, l'affermazione di
modalità di coverage più attente a enfatizzare
il game della competizione politica- che vince e che
perde - a spese delle issues; oppure ipercritiche nei
confronti delle istituzioni e del personale di governo - dalpresidente
ai congressmen, dai partiti ai candidati - ha un forte
impatto sull'insieme dei processi politici.
Grazie a queste caratteristiche dei modelli
di comunicazione i media infatti danno vita a una rappresentazione
della politica che appare essere la declinazione contemporanea
della machiavelliana real-politik (Blumler, 1990). La
persistenza del "cynical and antipolitical bias" dei media squarcia
il velo delle finzioni che hanno coperto fino a oggi il gioco
politico, rendendo così difficile l'azione del governo
(Patterson, 1996). Se è plausibile l'ipotesi che la valutazione
della capacità di un governo è fortemente influenzata
dal modo in cui è "percepita" la sua attività,
è evidente che il prevalere di quelle modalità
di covarage ha contribuito in maniera decisiva a innescare
una spirale di delegittimazione delle istituzioni democratiche.
E' possibile restituire dignità ed
efficacia all'azione politica? Alcuni ritengono che ritornare
a modelli di giornalismo meno aggressivi possa essere un buon
punto d'avvio (Patterson, 1996). Altri, forse più realisticamente,
lo ritengono improbabile (Cappella, Jamieson, 1996). Ma
allora, che cosa ci attende?
5.2 Il futuro della comunicazione politica
La mediatizzazione della politica, troppo spesso
incapsulata in rigide definizioni accademiche, sta certamente
cambiando: la politica dei faccia a faccia non paga più
o, meglio, paga sempre meno. Molti dei formati comunicativi
che hanno costituito per oltre un decennio il metro di giudizio
e il criterio di comparazione tra esperienze diverse - il media
game, la personalizzazione, la semplificazione e drammatizzazione
del confronto politico - non identificano più il modello
prevalente di comunicazione politica. Questa considerazione
non è certo vera in generale. Ancora oggi, nella maggior
parte delle democrazie occidentali europee, il rapporto tra
media e politica viene interpretato a ragion veduta con quelle
chiavi di lettura. Ma per quanto ancora potrà esserlo?
Guardando agli Stati Uniti, dove il panorama della comunicazione
è cambiato rapidamente negli ultimi anni, l'interrogativo
è pero senza dubbio giustificato (Hume, 1996).
Per quanto concerne i media a stampa, il loro
nuovo ruolo viene individuato nella loro capacità di
(ri)generare il senso di appartenenza a una comunità
favorendo la discussione pubblica dei suoi problemi: Questo
tipo di giornalismo riduce dunque drasticamente lo spazio riservato
alle electoral issues e amplia, viceversa, quello dedicato
alle policy issues, con un impatto significativo sui
processi di aggregazione degli interessi e di partecipazione
alla vita politica della comunità.
Una delle più significative trasformazioni
è proprio la torsione subita dalla logica binaria della
comunicazione mediale. Il referendum model, che è
stato visto fino a oggi come connaturato alla logica dei media,
risulta inadeguato proprio agli occhi di chi è più
attento alle dinamiche del mercato. Gli editori che hanno lanciato
il nuovo modello di giornalismo hanno infatti compreso che la
logica referendaria semplif~ca eccessivamente lo spettro delle
opzioni possibili, mettendo fuori gioco una molteplicità
di interessi settoriali. Questa diversità va invece valorizzata,
attraverso forme di comunicazione politica meno rigide che contemplino
il coinvolgimento dei cittadini e dei gruppi issue-oriented
(Meyer, 1993).
Non mancano i dubbi e le perplessità
sul significato da attribuire a queste forme di partecipazione
dei cittadini. Dubbi e perplessità del tutto leggittimi.
Tuttavia, quando quest'atteggiamento si trasforma in aperta
denuncia, i conti non tornano più. La critica della degenerazione
del dibattito politico troppo spesso presuppone l'esistenza
di un'età d'oro che è puramente immaginaria. Attribuire
alla mediatizzazione della sfera pubblica la responsabilità
del declino dell'ideale normativo della razionalità discorsiva
non è, però, solo antistorico.
Quella che emerge dalla ricognizione della
letteratura e delle esperienze cui tale letteratura si riferisce
è, dunque una polifonia di voci che non ci consente di
parlare dell'affermazione di un unico modello di comunicazione
politica. Giornalismo scandalistico e sensazionalistico, certo.
Ma anche ampliamento degli spazi riservati all'informazione
e alla espressione delle opinioni dei pubblici. Corporations
multimediali, ma anche la politica on.line, e si potrebbe continuare
a lungo. Questo è vero oggi e sarà probabilmente
ancor più vero domani.(Herbst 1996).
Certo, i teorici del pensiero unico non saranno
mai disposti ad ammetterlo. Chi teme una rapida convergenza
verso il modello americano può tirare un sospiro di sollievo.
Chi ha paventato, nel nostro paese, il rischio che il caso italiano
potesse perdere i suoi tratti di anomalia per assumere quelli
dell'annuncio dovrà rivedere il proprio giudizio.
Si deve piuttosto riconoscere che la "mediatizzazione
della politica" ha innescato dinamiche istituzionali e processi
comunicativi dai contenuti e dagli esiti ancora incerti.
Lo slittamento del focus dell'analisi
ora verso variabili culturali e simboliche - le culture politiche,
le ideologie professionali, le strategie simboliche - ora verso
variabili istituzionali - gli esecutivi, i partiti, i parlamenti
- se può essere salutato positivamente come espressione
di un ampliamento dello spettro problematico di questa disciplina,
segnala tuttavia una difficoltà a tenere insieme i diversi
livelli d'analisi e, soprattutto, a definire il punto
di svolta, il salto di qualità nello statuto della politica
in questa fine di millennio.
Il dibattito attuale, se tuttavia resta fermo
entro l'orizzonte segnato dall'egemonia della televisione generalista,
rischia di essere in colpevole ritardo rispetto agli scenari
contemporanei. I più recenti sviluppi tecnologici e i
nuovi formati comunicativi che essi veicolano forniscono infatti
le risorse necessarie per una trasformazione politica, istituzionale
e culturale che va a innestarsi su quella generata dai media
tradizionali.
Questi sviluppi stanno già alimentando
le più note contrapposizioni, con in testa, ovviamente,
quella tra apocalittici e apologeti. Così se per i primi
le nuove tendenze della comunicazione - new media, realtà
virtuale, reti telematiche, multimedialità- provocheranno
l'implosione del sistema, trascinando nel baratro della povertà
culturale e dell'apatia le generazioni future, per i secoli,
al contrario, esse costituiranno un'occasione storica per ampliare
gli spazi di libertà e di partecipazione degli individui.
Schierarsi a fianco degli uni o degli altri non è solo
prematuro. Non ha senso. Come tutti i grandi cambiamenti, non
può, né potrà in futuro, essere valutato
con parametri univoci di giudizio. Molto meglio è allora
analizzare le trasformazioni in atto, considerando chi fa
uso di queste risorse e perché, come e in quali
ambiti del processo politico e di decision-making. Solo
dopo aver messo insieme le diverse risposte sarà possibile
capire, al di là delle retoriche del cambiamento, cosa
sta realmente prendendo corpo, con le sue luci e le sue ombre,
nei sistemi democratici contemporanei.
5.3 Verso una democrazia elettronica?
Negli Stati Uniti, il dibattito si sta rapidamente
spostando sulle caratteristiche e le implicazioni delle nuove
tecnologie dell'informazione e della comunicazione (icts). La
determinazione dell'amministrazione Clinton/Gore a realizzare
la cosiddetta Information Superhighway è certo
uno dei motivi del crescente interesse per questi sviluppi.
L'aspro conflitto tra il nuovo esecutivo e l'opposizione repubblicana
su questo terreno, ha assunto del resto i toni di uno scontro
tra modelli di civiltà che non poteva non riflettersi
sulla comunità scientifica e generare incertezza sul
piano concettuale sia su quello della individuazione di un pacchetto
di iniziative e strumenti di intervento.
L'impulso all'applicazione delle nuove tecnologie
è venuto principalmente da un ceto politico alle prese
con un deficit di legittimità e di consenso senza precedenti.
L'origine di queste iniziative è chiara
nel caso della presidenza americana. (Ricorda la Roncarolo
(1994): "la Casa Bianca è ormai collegata con le bacheche
elettroniche e i database delle principali reti di informazione
-on line- [...]. Almeno in linea di principio, ogni cittadino
può facilmente mandare un messaggio elettronico al presidente,
partecipare alle discussioni sulle scelte politiche o interrogare
l'Amministrazione effettuando ricerche su tutti i documenti
non riservati [...]. [Queste] iniziative sperimentali [...]
realizzano semplicemente con maggiore pienezza quel principio
di una presidenza aperta ai cittadini già affermato da
Kennedy e Carter.). Esse sono state avviate su iniziativa
degli esecutivi, intendendole peraltro solo nella forma di una
maggiore diffusione delle informazioni, allo scopo di rinsaldare
il legame di fiducia con i cittadini e di rimettere in moto
i meccanismi della democrazia rappresentativa.
E' significativo che le prime forme di interattività
abbiano interessato i media tradizionali, come la televisione
e la radio. Dalla spirale virtuosa tra progressivo superamento
del cinismo e maggiore coinvolgimento nella vita pubblica, ci
si attendeva un'inversione di tendenza nei processi di partecipazione
politica e nei comportamenti elettorali dei cittadini.
La rivoluzione digitale trasformerà,
allora, il processo democratico in direzione di una più
ampia e consapevole partecipazione dei cittadini alla vita politica?
Dopo aver molto opportunamente ricordato che le tecnologie della
comunicazione possono prestarsi ad usi alternativi, il documento
della Benton Foundation su Telocomunication and Democracy
(1995) si sofferma sugli aspetti di potenziamento dei processi
di partecipazione democratica. La rivoluzione digitale, infatti
rende possibile una più approfondita comprensione delle
policy issues; amplia la sfera d'intervento decisionale
sulle political issues; incrementa la responsabilità
dei pubblici funzionari; permette una più incisiva advocacy
di individui e gruppi; consente l'espressione delle opinioni
grazie al voto elettronico; incrementa l'interesse dei cittadini
per le attività delle comunità, rendendoli maggiormente
partecipi dei processi di governo a livello locale. Questi obiettivi
sono perseguibili dal momento che essa consente di superare
quelle barriere - di tempo, di spazio, di conoscenza e di accesso
alle informazioni - che fino a oggi hanno reso praticamente
impossibile la realizzazione di forme di democrazia diretta.
Infatti, rende illimitata la quantità di informazioni
che possono essere scambiate; permette lo scambio indipendentemente
dalle coordinate spaziotemporali; incrementa il controllo dei
fruitori sul contenuto e i tempi dei messaggi; incrementa altresì
il controllo di che invia i messaggi su specifiche audiences;
decentralizza, infine, il controllo sui mezzi di comunicazione,
trasformando la televisione in mezzo interattivo (Neuman, 1996).
La problematica si carica qui di una valenza
etica che va ben oltre il mero auspicio di una riforma delle
strutture politiche esistenti. Ripensare radicalmente i concetti
di cultura politica, di identità e di cittadinanza entro
un quadro di riferimento teonco che fa perno sulle categorie
dell'etica discorsiva e della sfera pubblica: in questi snodi
è racchiusa I porta epistemologica di Internet.
In realtà, le (poche) esperienze fino
a oggi realizzate si allontanano molto dal modello di democrazia
comunitaria. Piuttosto che incentivare forme discorsive tra
eguali o favonre l'intreccio di solidi legami sociali e di nconoscimento
reciproco su cui costruire le identità individuali e
collettive, l'uso di Internet da parte di gruppi di estremisti
religiosi o politiche e la frammentazione delle opinioni.
Ma vediamo più articolatamente a quali
attacchi prestano il fianco i sostenitori della democrazia elettronica.
Le critiche fanno capo fondamentalmente a quattro ordini di
considerazioni.
In primo luogo, I'ottimismo con cui si guarda
all'incremento della quantità di informazioni disponibili
non tiene nel debito conto che uno dei problemi più seri
è proprio il sovraccarico (overload) di informazioni.
Mediamente i cittadini non hanno né tempo né interesse
né, soprattutto, capacità di gestire tali flussi.
In secondo luogo, è vero solo in teoria
che le nuove fonti di informazione, come Internet, siano accessibili
a tutti i cittadini. Allo stato attuale, solo chi dispone di
risorse finanziare adeguate e di un livello superiore di istruzione
paò in pratica farne uso. Né, per il prossimo
futuro, sono prevedibili cambiamenti consistenti nella struttura
socio-economica dei paesi avanzati. E' molto paù probabile
invece che con l'innovazione tecnologica si approfondisca il
gap tra questi gruppi privilegiati e la stragrande maggioranza
della popolazione impossibilitata a fruirne. Solo un astratto
determinismo tecnologico può alimentare l'illusione di
un nuovo ordine societario fondato sul superamento delle ineguaglianze
e sulla redistribuzione della ricchezza.
Strettamente intrecciata a questo punto è
poi la critica secondo cui una delle conseguenze più
importanti della politica via Internet è la sovrarappresentazione
degli orientamenti e delle opinioni di quei cittadini e/o gruppi
che comunicano direttamente con il ceto politico saltando tutte
le mediazioni, giornalistiche o sondaggistiche che siano.
Infine, I'uso delle reti può rafforzare
il potere dei gruppi di interesse, dato che è possibile
aggregare individui dispersi sul territorio. D'altra parte,
è anche una risorsa per le minoranze e, addirittura,
per i singoli candidati che intrecciano rapporti privilegiati
con determinati targets di utenza allo scopo di trovare
un sostegno alle proprie idee e iniziative politiche. Sulla
base di queste considerazioni, si è scritto che è
possibile "leggere nella retorica e nella pratica della democrazia
elettronica le ambizioni delle forze dominanti, vederla come
parte di un più ampio progetto di depoliticizzare la
politica, trasformando i cittadini in consumatori" (Wheeler,
1996). Non c'è da farsi allora troppe illusioni: la frammentazione
estrema dei processi politici favorisce solo le élites
e i gruppi di interesse e non certo i cittadini sprofondati
nel silenzio del cyberspazio (Graber, 1996).
Fine di un'epoca, principio di un'altra? L'interrogativo
e d'obbligo, ma non è nuovo. Già sul finire degli
anni Cinquanta, quando l'intero lessico politico non poteva
soffrire, ma anzi si nutriva della contrapposizione tra le ideologie
dominanti - il marxismo e il liberalismo - vi era chi lo sollevava
in termini molto chiari. Scriveva infatti Wright Mills:
oggi le nostre definizioni fondamentali della società
e dell'individoo sono superate da nuove realtà [...].
Quando cerchiamo di orientarci [...] troviamo che
troppe delle nostre aspettative, delle nostre antiche immagini
sono fissate nella storia; troppe delle nostre spiegazioni derivano
dalla grande tradizione storica dal Medioevo all'Età
Moderna; e quando le generalizziamo per chiarire il presente,
non reggono più, non hanno più consistenza.
Se la storia sta ricominciando su premesse
che superano la nostra capacità di immaginarle, è
allora improbabile che mordano la realtà le contrapposizioni
teoriche che sono state sollevate dagli anni Ottanta a oggi:
democrazia rappresentativa vs democrazia diretta; deliberative
model vs plebiscitary model; democrazia dei partiti vs democrazia
del pubblico.
Le modalità organizzative dei processi
decisionali e le esperienze partecipative favorite dalle nuove
tecnologie della comunicazione, tanto a livello nazionale quanto
a livello di comunità locale, possono essere meglio definite
nei termini di una emergente "democrazia elettronica"? E' questa
la forma della democrazia contemporanea? O, per dirla con Meyrowitz,
le trasformazioni politiche cui stiamo assistendo "sono mascherate
dalla persistenza delle nostre convenzioni linguistiche e dalla
forma dei nostri ideali tradizionali"? (Meyrovvitz, 1985).
Piazze telematiche, spazi virtuali, reti interattive:
che cosa hanno in comune con l'agorà ateniese? Nulla.
C'è Internet, ma come non tener conto che tre quarti
del globo terrestre non è nemrneno lambito da questi
cambiamenti?
Probabilmente un nuovo ordine si sta affermando.
Anzi, per alcuni, il futuro è già cominciato.
Ma quale sia la sua logica ci sfugge ancora. La radicalità
delle trasformazioni non può essere data per scontata:
troppi interrogativi attendono ancora una risposta. Indubbiamente
una maggiore apertura teorica è necessaria, ma essa deve
essere sorretta da un più robusto sforzo conoscitivo.
Che si continui poi a definire tali mutamenti
con le categorie di un lessico politicocostituzionale millenario
può forse rivelarsi un ostacolo alla comprensione, ma
anche una salvaguardia contro il rischio di fughe in avanti
che non tengono nel debito conto il peso della storia.