Il
Movimento per L'Ulivo: LA SCUOLA QUADRI
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DPEF e dintorni
di Michele
Salvati
Il Documento di Programmazione Economica e
Finanziaria di quest'anno è un documento importante.
Non è sempre così. Governi deboli e che sentono
nell'aria una fine imminente si accingono al compito nello spirito
di un penoso e comunque irrilevante adempimento burocratico.
Anche nei DPEF di governi solidi, ma vicini alla loro naturale
scadenza, i tempi della previsione non coincidono con quelli
in cui il governo in carica avrà un effettivo potere
di intervento e dunque il Documento contiene un auspicio affidato
ad un governo futuro, più che un reale impegno del governo
presente. Ed è infine piuttosto raro che la scadenza
del DPEF coincida con un momento periodizzante della vita economica
e politica di un paese. Il DPEF di cui stiamo discutendo è
invece il prodotto di un governo solido, espresso da una legislatura
la cui ulteriore durata legale coincide esattamente coll'arco
di tempo cui il documento si riferisce. E il momento nel quale
il documento viene formulato difficilmente potrebbe essere più
discriminante: è il momento in cui un risultato straordinario
è stato raggiunto e altri obiettivi incalzano con urgenza.
Per alcune delle forze che sostengono il governo si tratta di
un momento di svolta, dopo il quale il grande risultato raggiunto
dovrebbe essere sì preservato, ma tutte le energie e
tutte le risorse dovrebbero essere dedicate ad affrontare gli
obiettivi che in passato si sono trascurati, e sopra tutti quello
di una maggiore occupazione.
L'architettura essenziale del DPEF è
molto semplice. Anche se il nostro paese non ha (ancora?) sottoscritto
alcun impegno vincolante circa i tempi di riduzione del rapporto
tra debito pubblico e prodotto interno lordo, è nel suo
interesse impegnarsi per una riduzione in tempi solleciti: e
questo sia per evitare una eccessiva sensibilità della
spesa pubblica rispetto a variazioni dei tassi di interesse
(la variazione di un punto nel tasso medio di interesse pagato
sul debito, con un debito di quasi due milioni e mezzo di miliardi,
comporta una maggiore o minore spesa corrente di 25 mila miliardi
all'anno); sia per mantenere relazioni corrette con gli altri
paesi dell'UE. Il rapporto tra la somma dei debiti pubblici
e il PIL per l'UE nel suo complesso sarà un parametro
importante nella politica economica dell'Unione ed è
difficilmente accettabile che un singolo paese detenga a lungo
una frazione del debito sproporzionata, tenendo owiamente conto
della sua dimensione economica, rispetto a quella degli altri.
Sull'impegno alla riduzione del debito, asserito in termini
così generali, non credo ci sia conflitto tra i partiti
che sostengono il governo. Il conflitto sorge, naturalmente,
quando si cerca di stabilire una tabella di marcia, e nel DPEF
questo bisogna farlo: quanto veloce e vincolante dev'essere
questa tabella? Quali sono le conseguenze, in termini di occupazione,
di una sua accelerazione o di un suo rallentamento? Questo,
naturalmente, è il problema del (presunto?) conflitto
tra rigore fiscale, da una parte, e sviluppo e occupazione,
dall'altra, e su di esso torneremo. Prima, però, è
utile chiarire alcuni punti in tema di architettura.
Il Debito, prima in rapporto al PIL e poi anche
in valori assoluti, si può ridurre tanto più velocemente
quanto maggiore è l'avanzo (minore il disavanzo) del
bilancio complessivo delle pubbliche amministrazioni, cioè
la differenza tra entrate e spese. Le spese possono essere distinte
in tre voci principali: spese correnti per consumi pubblici
e trasferimenti, esclusi gli interessi; spese per interessi;
spese per investimenti. Nell'anno appena trascorso siamo stati
in disavanzo, anche se molto minore dell'anno precedente: si
è trattato di quel 2,7% rispetto al PIL (ó,7 nel
1996) che ci ha consentito di rispettare il più critico
dei parametri di Maastricht. Questo disavanzo è destinato
a permanere per tutto il periodo di previsione del DPEF, riducendosi
all'1% nel 2001. Com'è ben noto, è la spesa per
interessi a provocare il disavanzo: al netto di tale spesa,
che nel 1997 è stata superiore a 183.000 miliardi, quasi
il 9,5% del PIL, il bilancio delle amministrazioni pubbliche
sarebbe stato in avanzo, in avanzo primario, come si dice. L'anno
passato, a seguito dello sforzo per "rientrare" nel parametro
del 3%, l'avanzo primario è stato particolarmente elevato:
quasi 133.000 miliardi, il 6,8% del PIL, insufficiente a coprire
tutta la spesa per interessi, ma più che sufficiente
per rispettare il parametro di Maastricht relativo al disavanzo.
Il DPEF non prevede la continuazione di uno sforzo così
ingente, e fissa un obiettivo di avanzo primario del 5,5 % nei
prossimi tre anni: insieme con la crescita (stimata) del reddito
e l'andamento (stimato) dei tassi di interesse, è questo
obiettivo di avanzo primario che determina il disavanzo complessivo
e dunque la "tabella di marcia" nel processo di riduzione del
rapporto Debito/PIL, che dovrebbe scendere di quasi 12 punti
in tre anni e sotto il 100% nel 2003.
Insomma, esiste un evidente contrasto tra quattro
valori che, opportunamente qualificati, potrebbero rappresentare
obiettivi importanti dell'azione pubblica: un elevato avanzo
primario (e dunque una veloce riduzione del rapporto debito/PIL),
una riduzione della pressione fiscale, un aumento della spesa
per investimenti e -...se molto qualificato - un aumento della
spesa corrente. Non si può ottenere un elevato avanzo
primario se si riduce fortemente la pressione fiscale e si aumenta
la spesa pubblica, corrente o per investimenti. Oppure: fissato
un obiettivo di avanzo primario (una tabella di marcia), la
riduzione della pressione fiscale entra in contrasto con la
permanenza o l'aumento della spesa. Oppure: fissato l'avanzo
primario e la pressione fiscale, la spesa corrente entra in
contrasto con la spesa per investimenti. Nella sua architettura
più schematica, è questo l'insieme di trade-off
che il DPEF era chiamato a sciogliere e che ha sciolto.
L'ha sciolto con una piccola manovra, con una piccola rettifica
delle poste tendenziali di bilancio (13.500 miliardi nel 1999).
Dell'avanzo primario e dunque della "tabella di marcia"
abbiamo già detto. La spesa corrente è ridotta
di quasi 10 mila miliardi (senza incidere sulla spesa sociale)
e la pressione fiscale dovrebbe ridursi di 1,2 punti, con riduzioni
ulteriori previste negli anni successivi. La novità più
significativa è costituita dall'inversione di tendenza
degli investimenti pubblici: più in generale, le spese
in conto capitale dovrebbero crescere di quasi il 10% all'anno
nei prossimi tre anni. Va bene così?
Ragionare su grandi aggregati, sull'"architettura",
non consente di affrontare le questioni politicamente più
spinose, quelle che possono essere discusse alla luce della
legge finanziaria, e più in generale dell'intero programma
del governo, per ognuno degli anni cui il DPEF si estende. Alcune
scelte di massima sono però sono piuttosto chiare e a
queste conviene limitare l'attenzione. Non prima di aver premesso
una nota di cautela. Gran parte delle stime del DPEF si basano
su previsioni di eventi che sono o al di fuori del controllo
del governo, oppure, quando formalmente lo sono, non sono facili
da controllare nei fatti. Tra i primi, i più cruciali
sono la crescita del reddito e la dinamica dei tassi di interesse.
In questi mesi le previsioni di crescita sono state continuamente
riviste al rialzo: al di là di eventi straordinari, si
è tenuto conto in misura adeguata del perdurare delle
difficoltà economiche in estremo oriente, del fatto che
la crisi strutturale del Giappone sembra ben lontana da uno
scioglimento, di un possibile rallentamento dello sviluppo degli
Stati Uniti? E quanto sono affidabili le stime sull'andamento
dei tassi? Tenerli fissi al 4,5% fino al 2001, come fa il DPEF,
è una "previsione" che dà più peso alla
speranza che alla cautela. Tra i secondi, quanto sono solidi
e controllabili i dati relativi al gettito e alla spesa? Il
governo ha attuato una vera e propria rivoluzione fiscale (Visco)
e amministrativa (Bassanini): quando mutano le regole non è
per nulla facile fare previsioni e bisogna tenersi pronti anche
a forti scostamenti. E se scostamenti si verificano, sia nelle
previsioni degli eventi esterni e incontrollabili, sia in quelle
di eventi controllabili ma di fatto non controllati, che cosa
si fa? Quali sono gli obiettivi che si sacrificano? Gli obiettivi
di avanzo primario? O quelli di gettito? O quelli di spesa corrente
e per investimenti? Anche in un documento di "architettura"
questo problema -una vera e propria clausola di salvaguardia-
dovrebbe essere affrontato e risolto con chiarezza, dicendo,
per esempio, che l'obiettivo di avanzo primario è quello
rigido e che tutti o alcuni degli altri sono flessibili. Ma
tocchiamo ferro e speriamo che tutto proceda secondo le previsioni.
L'impressione generale che si ritrae dalle
linee di indirizzo che ho prima descritto è quella di
un documento equilibrato e che prevede un'evoluzione priva di
ulteriori interventi traumatici: "ce l'abbiamo fatta, ora si
tratta di continuare, di consolidare, di rettificare, di indirizzare;
ma i grandi aggiustamenti macrocconomici, e anche le più
pesanti trasformazioni strutturali (Visco e Bassanini, per intenderci),
sono dietro le nostre spalle". Se questa impressione è
condivisa da imprese, lavoratori e consumatori, se si trasforma
in un "messaggio" recepito dall'intero paese, allora il DPEF
ha raggiunto un importante risultato: quello di stabilire un
quadro di certezze e di convenienze sulla base del quale gli
operatori privati possono prendere le loro decisioni. Una parte
non piccola dei guai del recente passato, della stentatezza
della domanda privata, è discesa dalla turbolenza dell'ambiente,
dalla traumaticità e dalle continue variazioni delle
misure di politica economica: queste creavano un orizzonte incerto
e ostacolavano un'ordinata programmazione di consumi e di investimenti.
Per questo aspetto del DPEF, molto generale ma importantissimo,
la valutazione non può che essere positiva, ...se il
messaggio viene creduto.
Positiva, con le qualificazioni che vedremo,
è anche la valutazione sull'entità dell'avanzo
primario (la "clausola di salvaguardia" di cui dicevamo più
sopra dev'essere però stabilita con chiarezza): con questo
avanzo la tabella di marcia verso rapporti debito /PIL più
ragionevoli è sollecita quanto basta a portarci rapidamente
fuori dai maggiori pericoli di instabilità, a garantire
i paesi dell'Unione che la nostra quota nel debito pubblico
europeo è destinata a raggiungere in tempi certi una
dimensione accettabile, e tuttavia non è così
alta da paralizzare in pratica ogni possibilità di manovra
da parte del governo. E qui si apre il discorso sul (presunto)
contrasto tra rigore e sviluppo (e occupazione). Che il rigore
fiscale, in alcune circostanze, possa entrare in contrasto collo
sviluppo, è una considerazione del tutto corretta ...
se si precisano le circostanze. Nel corso degli anni novanta,
per esempio, è possibile che politiche fiscali restrittive
in quasi tutti i paesi dell'Unione abbiano esacerbato le conseguenze
deprimenti degli elevati tassi d'interesse, dovute
alla scelta sciagurata di non rivalutare il
marco (scelta di cui la Francia porta una grossa responsabilità).
Oggi però le cose stanno in modo diverso e per sostenere
la tesi di un effetto deprimente del rigore fiscale (di elevati
avanzi primari) occorrerebbe argomentare che scelte pubbliche
conseguenti a un minor rigore (per esempio, una minore pressione
fiscale, o maggiori investimenti pubblici) avrebbero conseguenze
più espansive, nel medio-lungo periodo, che non scelte
più rigorose, miranti ad abbattere più rapidamente
il rapporto Debito/PIL. L'argomentazione è plausibile,
ma non è così ovvia: la ripresa sembra bene avviata,
anche in condizioni "rigorose", e si potrebbe sostenere che
una ripresa più forte urterebbe contro vincoli di capacità
dovuti ai deboli investimenti del recente passato; o che i mercati
finanziari penalizzerebbero una politica percepita come abbandono
di una priorità di risanamento; o che -se il rigore è
attenuato a favore di una politica di investimenti pubblici-
l'urgenza potrebbe indurre iniziative debolmente programmate
e scarsamente redditizie. Questi argomenti non sono palesemente
insensati e complicano notevolmente il "keynesismo semplice"
di chi mette necessariamente in contrasto rigore fiscale e sviluppo.
Non ho il modo di discutere seriamente, in
questa sede, le due tesi contrapposte. Resto dell'idea (un po'
meglio sviluppata in un articolo sull'ultimo numero de Il Mulino,
"Per creare lavoro, cambiare anche la sinistra") che si
sarebbe potuto sollecitare un po' di più la domanda interna
- ad esempio limitandosi ad un avanzo primario del 4,5 o del
5, invece che del 5,5% - se si fosse avuto il coraggio di contenere
maggiormente la spesa corrente e insieme ridurre la pressione
fiscale più che in proporzione. Tornerò subito
su questo punto: qui mi limito ad asserire che l'opinione pubblica
interna, l'Europa e i mercati internazionali ci avrebbero "perdonato"
un rientro dal debito un po' più lento se avessero visto
una maggior determinazione nell'affrontare alcuni nodi strutturali
che si annidano nella spesa corrente e la cui soluzione ci ostiniamo
a rinviare.
Tutto
considerato, tuttavia, il 5,5 % di avanzo primario, nelle attuali
condizioni di ripresa economica, di fiducia dei mercati e di
sicurezza degli agenti (e dati i vincoli politici che si frappongono
a soluzioni preferibili), mi sembra un buon punto di equilibrio.
Un punto di equilibrio che consente spazi non piccoli di politica
economica, equii anche a livello macro. Di questi il governo,
in parte, sembra voler approfittare saggiamente, invertendo
la tendenza che ci aveva condotto ad una quota insostenibilmente
bassa degli investimenti pubblici (e della spesa in conto capitale)
sul PIL. Preoccupazioni sono legittime, e le abbiamo già
espresse: la fretta può essere cattiva consigliera e
condurre a riproporre vecchi progetti, vecchie iniziative (giustamente)
non realizzate che i ministeri e gli enti pubblici conservano
nei loro archivi e che interessi potenti si affretteranno a
reclamare. E' un pericolo, certo: ma, date le spaventose esigenze
di infrastrutturazione che si sono accumulate, 5.500 miliardi
nel '99 (e poi una crescita del 10% all'anno) sono una piccola
cosa, e dovrebbe essere possibile una selezione molto oculata
delle priorità. Ben venga la partecipazione dei privati
e tutto il project financing possibile:
ma non si possono fare tutti gli investimenti pubblici con i
quattrini dei privati e con i rendimenti di mercato che questi
richiedono.
E' sul bilancio di parte corrente che le scelte
del governo possono essere criticate. In termini di immagine
politica - ma anche di efficacia economica, per stimolare una
ripresa che dovrà largamente basarsi sui consumi e gli
investimenti privati - una riduzione più decisa della
pressione fiscale, in parte o del tutto compensata da una riduzione
strutturale della spesa corrente, sarebbe stata una scelta molto
apprezzabile. Il problema fondamentale, come ho appena ricordato,
è quello della spesa corrente. I vincoli che si frappongono
ad una sua riduzione (specie nel settore dove i risparmi possibili
sono più consistenti e dove potrebbero essere sorretti
da forti ragioni di equità: la previdenza) sono politicamente
così stringenti e ormai così interiorizzati dai
partiti di maggioranza che nessuno ne parla, e chi lo fa viene
guardato con fastidio. Questi sono i costi (ovviamente ci sono
anche vantaggi, e notevoli) di "governare col sindacato",
e vi è solo da attendere che i rappresentanti dei lavoratori
si rendano conto che, se vogliono giocare fino in fondo il ruolo
politico che stanno svolgendo, il ruolo di una forza che ha
a cuore gli interessi del paese e non solo quelli dei suoi rappresentati,
presto o tardi dovranno tornare sulla loro decisione di considerare
come definitivo l'accordo in tema di pensioni che è stato
stipulato ai tempi dell'ultima legge finanziaria. Meglio presto
che tardi.
Tornando alla pressione fiscale, io non credo
-come va martellando Panebianco sul Corriere- che il
governo dell'Ulivo abbia nei suoi geni una predilezione per
un livello particolarrnente elevato; oltre al problema (italiano
e belga) di ridurre il debito pubblico, esso ha il problema,
questo comune a tutti i governi dell'Europa continentale, di
contenere la dinamica della spesa sociale, e dagli ostacoli
che si incontrano al suo contenimento derivano, come abbiamo
appena sottolineato, gran parte dei vincoli che si incontrano
a ridurre le tasse. Gioca poi una considerazione specifica,
anche questa già ricordata. Visco ha attuato una vera
e propria rivoluzione nell'architettura fiscale del nostro paese
e le stime di gettito per il 1999 sono molto aleatorie: non
è dunque da escludere che la pressione fiscale cali per
ragioni del tutto inintenzionali, o comunque sia piuttosto diversa
rispetto alle stime. In questa situazione, promettere una riduzione
e soprattutto specificare i modi in cui si intende attuarla
potrebbe essere imprudente. Quel che importa è che la
determinazione ci sia e che il calo della pressione fiscale
sia economicamente e politicamente percettibile entro il triennio
del DPEF.
E l'occupazione? Non dovrebbe essere, questo,
il DPEF dell'occupazione? Dato il ruolo politico del documento,
di occupazione e disoccupazione si parla molto. Non soltanto
vengono fornite stime sull'aumento dell'occupazione e la diminuzione
del tasso di disoccupazione nel corso del triennio, ma sono
anche ricordate con bell'ordine e comprensibile enfasi le numerosissime
(...troppe) misure che il governo ha preso per promuovere l'occupazione
o alleviare la disoccupazione, soprattutto nel Mezzogiorno (scrivo
sulla base delle anticipazioni della stampa e senza avere in
mano il testo ufficiale). Circa le stime numeriche, suggerirei
di prenderle con cautela: oggi è ancor più difficile
che in passato derivare da stime di crescita del reddito o degli
investimenti stime di crescita dell'occupazione (ipotizzare
la creazione di 600 mila posti di lavoro in tre anni sulla base
di una crescita media del PIL del 2,8 - 2,9, significa, owiamente,
stimare una crescita della produttività piuttosto bassa,
anche se non implausibile. Decisamente implausibile è
invece la riduzione del tasso di disoccupazione al 10%, che
è possibile solo se le Forze lavoro restano costanti).
Circa gli effetti occupazionali aggiuntivi delle misure attuate
o progettate, anche per questi è molto difficile fare
previsioni: il governo si è impegnato a farlo per l'Unione
Europea, e il Ministro Treu ha presentato le sue prime stime.
Vedremo. Nella spesa corrente rimangono margini sufficienti
a consentire iniziative specifiche che possono favorire un maggior
contenuto occupazionale dello sviluppo, solo che si abbia il
coraggio di contenere spese che non hanno queste caratteristiche.
A mio modo di vedere, tuttavia, non è dall'invenzione
di nuovi meccanismi incentivanti gestiti dalla mano pubblica
che può derivare una spinta forte e diffusa verso una
maggiore occupazione. Questa può provenire da un contesto
macrocconomico sano, capace di creare certezze per gli operatori,
orientato alla convenienza degli investimenti reali e dell'attività
produttiva: e qui, col DPEF, grossomodo ci siamo, anche se la
manovra più espansiva prima suggerita sarebbe stata preferibile.
Ma essa proviene anche da un contesto microccomico caratterizzato
da buoni servizi pubblici, da semplicità amministrativa,
da flessibilità nell'uso dei fattori, da oneri fiscali
bassi quanto è possibile e comunque di facile adempimento:
ma in questo contesto difficilmente il DPEF può addentrarsi.
Non è possibile dire di più in
via generale e sulla base delle anticipazioni di stampa. Sulla
base del testo ufficiale avremmo potuto essere più precisi,
ma gran parte delle considerazioni che abbiamo svolto non esigono
una grande precisione e saranno egualmente valide (o discutibili)
anche nei confronti di quel testo. Anche perche -e torno in
conclusione al problema che ho appena accennato- un DPEF è
una semplice intelaiatura macro-economica; importantissima,
certo, ma che nulla può dire dei problemi più
spinosi del prossimo triennio. Questi problemi -microcconomici,
micropolitici, microsociali- sono inevitabilmente nascosti nelle
poste aggregate di cui tratta il documento e, se vengono identificate
poste più fini, o se si discute di molti problemi "micro",
non è su questi che viene assunto un impegno politico,
bensì sulle poste generali, sull'architettura economico-finanziaria
dell'insieme. Nel rispetto di questa architettura, la "rivoluzione
copernicana", il lavoro di bisturi, la soluzione di innumerevoli
problemi "micro" (quelli che è necessario risolvere per
trasformare un paese ancora ingessato, corporativo e ingiusto
in un paese più liberale, più giusto e competitivo
quanto è necessario per prosperare nel nuovo regime di
moneta unica) sono stati appena avviati e tre anni sono un periodo
terribilmente breve. Quanto è stato fatto nei primi due
non deve essere sottovalutato: il paese è stato rimesso
coraggiosamente e fortunosamente in squadra, in un assetto "macro"
accettabile; il paese (e i mercati internazionali) hanno capito
la determinazione del governo e la loro risposta -una impressionante
alterazione delle aspettative- è stata e continuerà
ad essere un ingrediente essenziale del processo di risanamento;
molte riforme strutturali, che si muovono nella direzione giusta,
sono state attuate o impostate, e i frutti dovrebbero maturare.
Moltissimo rimane ancora da fare, ma non è l'occasione
del DPEF quella che può fornirci la materia per discuterne.

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