1. Breve cronaca della crisi di Governo.
Le note che seguono propongono alcuni spunti
di riflessione sulla crisi del Governo Prodi e sull’insediamento
del Governo D’Alema. Si danno per conosciuti i passi salienti
del percorso che ha condotto alla soluzione della crisi. Li
richiamiamo comunque, per comodità del lettore, sia pure
in forma assai schematica. Sono stati, nell’ordine:
– l’uscita dalla maggioranza deliberata dal
Comitato politico di Rifondazione Comunista (3-4 ottobre), che
avalla così la scelta del Segretario Bertinotti;
– l’immediata decisione di Prodi di recarsi
a riferire al Quirinale del venir meno di una componente della
sua maggioranza;
– il rinvio del Governo alle Camere, da parte
del presidente Scalfaro, per la verifica parlamentare dell’esistenza
o meno di una maggioranza che lo sostenga;
– la dissociazione di Cossutta, Presidente
di Rifondazione Comunista, da Bertinotti e la conseguente rottura
del gruppo parlamentare di Rifondazione (dove i rapporti di
forza tra i due leader comunisti sono rovesciati rispetto
a quelli nel partito);
– il voto di fiducia alla Camera, dall’esito
incerto sino all’ultimo minuto, con un risultato a sorpresa:
la fiducia a Prodi è respinta per un solo voto, e si
apre così formalmente la crisi (9 ottobre);
– consultazioni accelerate di Scalfaro e reincarico
esplorativo a Prodi che, in ventiquattro ore, rinuncia a motivo
della pretesa dell’udr (Unione Democratica per la Repubblica),
guidata da Cossiga, che Prodi rinneghi la maggioranza dell’Ulivo
che lo ha espresso;
– si aggiunge la dichiarata (da Cossutta) incompatibilità
tra il Partito dei Comunisti Italiani (la nuova formazione guidata
da Cossutta) e l’udr di Cossiga;
– nuove consultazioni di Scalfaro e incarico
al Segretario dei ds (Democratici di Sinistra) D’Alema (16 ottobre),
il cui nome è concordemente proposto dalle forze dell’Ulivo
per un Governo politico, accantonando le ipotesi di Governo
tecnico o di Governo istituzionale;
– D’Alema si piega alle condizioni dell’udr,
ottiene il sì di Cossiga e di Cossutta, scioglie positivamente
la riserva e, dopo alcuni giorni (segnati da frenetici negoziati
coi partiti), il 21 ottobre presenta la lista dei ministri,
che, poche ore dopo, prestano giuramento davanti al Capo dello
Stato;
– il Governo D’Alema ottiene la fiducia alla
Camera il 23 ottobre (con 333 voti favorevoli, 281 contrari,
3 astenuti) e al Senato il 27 ottobre (con 188 voti favorevoli,
116 contrari, 1 astenuto) (1).
2.Cause e modalità della caduta del
Governo Prodi.
1. Se non si vuole indulgere alla fantapolitica
ma stare ai fatti, la causa prossima della caduta del Governo
Prodi sta nella rottura della maggioranza politica del 21
aprile 1996 provocata da Bertinotti. Una rottura premeditata,
maturata e in verità annunciata da tempo, che poco ha
a che vedere con i contenuti della legge finanziaria, e deliberata
studiatamente alla vigilia del "semestre bianco" (2),
quando viene meno l’arma dissuasiva delle elezioni anticipate.
A suggerire tale rottura stavano due ragioni:
a) un disinvolto calcolo politico-elettorale,
e cioè l’intenzione di lucrare, stando all’opposizione,
una vasta rendita di posizione, alimentata sia dal diffuso e
reale disagio sociale, sia dalla prevedibile formazione di un
Governo contrassegnato da un asse politico spostato al centro
e dal sapore compromissorio;
b) la coerenza con quella cultura dell’antagonismo
sociale di cui Bertinotti è espressione.
Solo non era stata messa nel conto la rottura
di Rifondazione Comunista cui è stato costretto Cossutta,
per temperamento e per cultura (quella comunista più
classica) incline al realismo, all’interazione dialettica con
le forze altre da sé e ossessionato dal varco che si
sarebbe aperto alla destra nell’ipotesi di un traumatico scioglimento
delle Camere.
2. Anche sul voto di fiducia a Prodi
sono fiorite leggende. Le cose sono più semplici. Checché
se ne pensi, a quel voto non ci si poteva sottrarre.
In primo luogo, perché così prescrive la dignità
politico-costituzionale di un Governo quando viene meno un segmento
della sua maggioranza. L’auspicato ripristino della legalità
e di comportamenti a essa conformi vale anche per i profili
costituzionali. Del resto, con la legge finanziaria già
depositata alla Camera, la maggioranza, impegnata nel suo esame,
sarebbe andata in minoranza ogni giorno in Aula e in Commissione,
logorandosi a dismisura. In secondo luogo, quel voto di fiducia
non poteva essere evitato perché Prodi, in nome della
coerenza con i canoni della democrazia maggioritaria bipolare
e con la "filosofia" dell’Ulivo, si era vincolato
al perimetro della maggioranza che lo aveva espresso e dunque
poteva solo confidare sul ripensamento di Rifondazione Comunista
oppure sulla sua rottura, sperando che fosse sufficiente per
assicurargli una base parlamentare. Dal canto suo, Cossutta
non avrebbe avuto la forza e il coraggio di rompere se non di
fronte alla drammatizzazione connessa a un voto di fiducia.
Su questo fronte Prodi si è impegnato e ha scommesso.
Ci si chiede però: se anche il voto
di fiducia fosse passato, come avrebbe potuto reggere una maggioranza
così risicata? Si aveva notizia di una fortissima tensione,
interna all’udr, tra la componente ex cdu più legata
al Polo e quella ex ccd che col Polo aveva consumato una rottura
senza rimedio. Si pensava cioè che sarebbe bastato un
esito diverso del voto, perfettamente possibile, per innescare
processi politici diversi, a cominciare dalla spaccatura dell’udr,
con l’ingresso nella maggioranza, e segnatamente nel ppi, di
un gruppo di parlamentari sufficiente a ripristinare una modesta
superiorità numerica rispetto all’opposizione. In questo
modo si sarebbe tenuto fede all’impegno di non alterare la maggioranza
uscita dalle elezioni. Del resto, alla Camera, all’avvio della
legislatura lo scarto tra maggioranza e opposizione era di solo
sette unità. Come si vede, la linea di condotta seguita
da Prodi rispondeva sia a una logica politica, sia a una limpida
prassi costituzionale, sia, soprattutto, a un’esigenza di coerenza
personale e politica, quella di non discostarsi dalla maggioranza
legittimata dal corpo elettorale.
3. Per decifrare il convulso svolgimento
della crisi non è necessario fare ricorso alla teoria
del complotto e della congiura di palazzo. Più verosimile
è l’ipotesi che, nella difficile situazione originata
dalla rottura autonomamente decisa da Bertinotti, sia scattato,
con l’anticipo di qualche mese, un piano fissato per la primavera
prossima, quello della cosiddetta "staffetta" tra
Prodi e D’Alema a palazzo Chigi. Un piano di cui si vociferava
da tempo, siglato dai leader dei due partiti cardine
della maggioranza, ds e ppi, e accelerato dallo stato di necessità.
Si può supporre che, a incoraggiare l’accelerazione dell’avvicendamento
cui D’Alema non ha mai fatto mistero di mirare, sia stato l’esito
delle elezioni tedesche, con l’ennesima vittoria in Europa di
un leader socialista, così da portare a tredici
su quindici i Paesi dell’Unione Europea guidati da esponenti
di quella tradizione. Perché l’Italia — si sarà
chiesto D’Alema — dovrebbe fare eccezione? In questa chiave
si possono spiegare: a) il misterioso reincarico a Prodi, palesemente
votato al fallimento, ma funzionale allo scopo di bruciare altre
soluzioni (quella del Governo tecnico di Ciampi, quella del
Governo istituzionale di Mancino) e di aprire invece la strada
a D’Alema; b) non una parte attiva, ma quantomeno un difetto
di resistenza dei Popolari di fronte alla prospettiva della
premiership del leader dei ds.
Certo, decisiva è stata la parte svolta
dall’udr di Cossiga. È difficile sottacere la circostanza,
di sicuro non apprezzabile sotto il profilo etico e del costume,
che l’udr è una semplice formazione parlamentare entro
la quale convergono rappresentanti eletti sotto le insegne del
Polo. Contestualmente, però, è opportuno fare
due rilievi: a) la fuga dal Polo suggerisce qualche considerazione
critica sulla qualità dell’opposizione da esso svolta;
b) in termini di legittimità costituzionale, dentro una
democrazia parlamentare quale la nostra, la nuova maggioranza
che sostiene il Governo D’Alema (e prima ancora l’incarico a
lui conferito dal presidente Scalfaro) è ineccepibile:
sia perché le maggioranze si formano in Parlamento, sia
perché i parlamentari non hanno vincolo di mandato, sia
perché D’Alema è il leader del partito
più rappresentativo nell’alveo della maggioranza che
ha vinto le elezioni.
4. Ciò detto, non si possono
non rilevare, di converso, i "tratti di eccezionalità"
(lo ha riconosciuto lo stesso D’Alema) dei modi attraverso i
quali il nuovo Governo si è costituito. Modi che segnano
una obiettiva regressione rispetto ai moduli di una democrazia
maggioritaria e bipolare, la quale prescrive che al corpo
elettorale siano sottoposti, insieme, programma, coalizione
e candidato premier, e che conferisce non solo
un "mandato a rappresentare" ma anche un "mandato
a governare".
5. Le condizioni capestro poste a Prodi
(e non a D’Alema) dall’udr, ossia la sconfessione formale del
progetto dell’Ulivo, e la incompatibilità tra l’udr e
il nuovo Partito dei Comunisti Italiani dichiarata da Cossutta,
hanno costretto Prodi alla rinuncia. Una rinuncia all’insegna
di una esemplare coerenza. È da chiedersi: perché
Cossiga ha concesso a D’Alema ciò che non ha concesso
a Prodi? La risposta è semplice: perché l’Ulivo
e il suo uomo-simbolo sono l’espressione, lo strumento, il laboratorio
di un’intesa organica e strategica tra popolarismo e sinistra
riformista. L’esatto rovescio della strategia di Cossiga
e, in certo modo, anche di D’Alema, ispirate piuttosto alla
più tradizionale idea di una cooperazione a tempo,
prescritta dall’emergenza e da un giudizio severo su un’opposizione
ostaggio di Berlusconi. Con l’intento però, da parte
dell’udr, di ereditare il consenso di Forza Italia, di
spingere ai margini an, di attrarre a sé i
Popolari così da ricalcare lo schema tedesco.
Un progetto da sperimentare già alle
prossime elezioni europee, per poi sanzionarlo alle elezioni
politiche, idealmente situate alla fine naturale della legislatura
(di qui l’avallo a una ipotesi di Governo politico che si spera
duri per l’intera seconda parte della legislatura). E con il
proposito, speculare, di D’Alema di proporre sé
e la sinistra, dopo una esperienza alla guida del Governo,
come candidati in proprio, autonomamente, a una leadership
di Governo, in conformità con la maggior parte delle
espressioni della famiglia del socialismo europeo.
La prospettiva ha il pregio della chiarezza,
in quanto mira a conformare il sistema politico italiano allo
schema prevalente in Europa. Se si considerano le dimensioni
del Polo, sulla cui dissoluzione si scommette, il disegno è
altresì ambizioso e, per certi aspetti, apprezzabile,
in quanto prefigura un elevamento della qualità democratica
del confronto. È bene però che i Popolari siano
consapevoli della portata strategica di una partita di cui essi
sono al centro; infatti la soluzione del Governo D’Alema, col
sostegno dell’udr, risolve nell’immediato il problema della
stabilità-governabilità, ma pone le premesse di
una alternativa strategica che si farà sempre
più stringente per tutti, ma soprattutto per i Popolari:
se essere una componente autonoma ma organica del fronte
riformista europeo oppure una componente di un blocco
conservatore ancorché democraticamente affidabile;
se, nell’impasto di culture di cui sono eredi, privilegiare
il cattolicesimo democratico e sociale che guarda a sinistra
o il cattolicesimo liberale di orientamento conservatore.
Come si vede, la disputa intorno alle sorti
dell’Ulivo nella fase che si va aprendo è tutt’altro
che cavillosa e astratta. Concretissime sono le sue implicazioni
sull’evoluzione dell’intero sistema politico e dirimente al
riguardo sarà il contributo dei Popolari.
3. Il Governo D’Alema.
Che dire, dunque, del Governo D’Alema?
a) Esso ha il merito di assicurare stabilità
e governabilità, scongiurando la prospettiva traumatica
e nociva per il Paese di elezioni anticipate, e dell’esercizio
finanziario provvisorio alla vigilia della parità lira-Euro.
b) Inoltre, esso assicura la continuità
ideale e programmatica di una prospettiva di centro-sinistra,
la meno difforme, nelle condizioni attuali, dal senso del pronunciamento
degli elettori, che peraltro al Senato tuttora consente l’autosufficienza
della maggioranza dell’Ulivo. Espressione significativa di tale
continuità programmatica è la conferma della legge
finanziaria già scritta e consegnata al Parlamento dal
Governo Prodi.
c) Il cambio di maggioranza ha due facce: da
un lato, forse, l’esclusione di Bertinotti e l’allargamento
della base parlamentare del Governo dovrebbero assicurare un
percorso meno accidentato; dall’altro, per converso, entro tale
maggioranza convivono prospettive strategiche divaricate,
specie con riguardo alla futura dislocazione delle forze di
centro, alleate ovvero alternative alla sinistra. Il che rappresenta
un oggettivo elemento di debolezza per il Governo, segnato
appunto dall’assenza di un coerente e univoco orizzonte strategico.
d) Un positivo elemento di novità
è rappresentato dalla disponibilità al dialogo
manifestata dalla Lega Nord, che sembra abbandonare le velleità
secessioniste, raccogliendo l’appello di D’Alema a un nuovo
inizio del processo di riforma istituzionale e costituzionale,
affidato alle cure di un ministro autorevole come Giuliano Amato.
e) Un arretramento, certo, si registra
sul piano dei canoni di una democrazia competitiva e bipolare,
ove le soluzioni di governo sono espressione più diretta
della volontà dei cittadini e non di movimenti interni
ai gruppi parlamentari.
f) Così pure, l’intera regìa
della crisi e la stessa soluzione di essa sono state
per intero appannaggio dei vertici di partito. Bastino
due riscontri: la bassa tensione emotiva e partecipativa che
ha accompagnato l’insediamento del nuovo Governo, specie se
rapportata all’entusiasmo che circondò l’inizio del
Governo dell’Ulivo; lo spettacolo, dal sapore sgradevole e antico,
offerto nei giorni della formazione del nuovo Governo, ove i
posti di ministro e di sottosegretario sono aumentati di numero
per contentare gli appetiti di uomini e partiti. Non fu così
col precedente Governo, non perché i protagonisti fossero
più virtuosi, ma perché il premier, legittimato
dagli elettori, godeva di superiore autorevolezza e forza politica
per far rispettare la lettera dell’art. 92 della Costituzione
che esclude i partiti dalla scelta dei ministri.
4.Questioni aperte.
Ma, ben oltre il controverso giudizio sul nuovo
Governo, merita segnalare tre grandi questioni aperte che largamente
trascendono le sorti di un esecutivo.
a) Sono in causa, anzitutto, la regressione
o lo sviluppo del carattere bipolare del nostro sistema
politico, che, con tutti i suoi limiti e ancorché non
sanzionato da regole elettorali e istituzionali adeguate, ha
mostrato di favorire un di più di stabilità e
di alternanza.
b) In secondo luogo, ci si chiede quale potrà
essere il posizionamento e la sorte del centro e segnatamente
dei Popolari nel sistema politico italiano.Sono oggi alleati
con la sinistra per stato di necessità (per il giudizio
comune a entrambi circa l’anomalia dell’opposizione berlusconiana)
o per affinità ideale e politica? Di conseguenza, sono
destinati a un rapporto competitivo/alternativo con la sinistra,
oppure a una sempre più stretta cooperazione con essa?
c) Vi è, infine, la questione del discrimine
politico tra laici e cattolici. Ciascuno a suo modo, Polo
e Ulivo scommettevano sulla possibilità/utilità
di far cadere tale storica barriera promovendo piuttosto una
convergenza tra laici e cattolici intorno a un concreto
programma politico rispettivamente di centro-destra o di
centro-sinistra, operando, per così dire, una "riduzione
della politica allo stato laicale", una sua sana deideologizzazione.
All’opposto, il bipolarismo patrocinato
da Cossiga, ancorché operante in vari Paesi europei,
in Italia, stante l’alto tasso di ideologizzazione della contesa
politica e lo storico contenzioso nazionale tra laici e cattolici,
avrebbe di fatto, anche al di là delle intenzioni, l’effetto
di opporre un centro (-destra) a dominanza cattolica a una
sinistra di marca laicista. Uno scenario, questo, che costringerebbe
il cattolicesimo democratico e sociale entro un vicolo
cieco, imponendogli la secca alternativa tra una subalternità
ai ds, magari ben ripagata sul piano del potere (un po’
come si è fatto nella compagine governativa testé
varata), e una sua innaturale caratterizzazione conservatrice
quale quella di un certo popolarismo europeo.
È da auspicare che ai Popolari non sfugga
che proprio il progetto dell’Ulivo assicura loro, al tempo stesso,
un massimo di identità/autonomia e la prospettiva, decisamente
a loro più congeniale, di una collaborazione organica
e strategica con la sinistra italiana dentro un comune fronte
riformista. La vigilanza, al riguardo, è d’obbligo: l’appuntamento
delle elezioni europee, tenuto conto della legge elettorale
proporzionale e della polarità socialisti contro popolari,
potrebbe infatti far segnare un altro punto a favore della strategia
di Cossiga. La quale, invece, in Italia, deve fare i
conti con il vasto consenso di cui tuttora beneficia il Polo
e che non sarà così facile ereditare da parte
delle forze di centro, oggi corse a sostegno di un anomalo centro-sinistra
ma strategicamente orientate a opporsi alla sinistra. La partita
comunque è aperta e merita di essere seguita.
(1) Sulla composizione del nuovo Governo,
cfr., in questo stesso fascicolo, S.Femminis (a cura di), Composizione
del Governo D’Alema, pp. 917 s.
(2) Gli ultimi sei mesi di carica del Presidente
della Repubblica, durante i quali il Capo delloStato non ha
più la facoltà di sciogliere le Camere.