
Gli Interventi
MASSIMO
D'ALEMA
«Voi
mi scuserete se, diciamo, io ho optato per fare un discorso
molto di merito e non un saluto formale, anche se questo discorso
potrà contenere qualche risposta un po' spigolosa. Al di fuori
degli interrogativi che sono stati posti credo che dobbiate
considerarlo un segno di rispetto e di partecipazione. Io partirei
dal tentativo di dare la risposta a un interrogativo. E cioè,
che cosa è l'Ulivo? E affronterò alla fine la questione coalizione,
alleanza che con molte sottigliezze anche di natura linguistica
ci ha proposto Omar Calabrese. Quella è una questione in fondo
minore, se sia una coalizione o un'alleanza. Perché penso che
si tratta, direi, di una soluzione instabile, di un aggregato
instabile e in fondo nessuno di noi può dire con certezza che
cosa diventerà. Io credo però che intanto noi dobbiamo dire
che cos'è, come è nato, che cos'è questo comune sentire che
rappresenta quel di più rispetto ad un'alleanza di partiti e
di soggetti. E pure l'Ulivo è il luogo di raccolta delle componenti
democratiche, delle correnti politiche fondamentali che hanno
dato vita alla Repubblica democratica nel dopoguerra. E cioè
di quella sinistra democratica riformista che in Italia si è
organizzata all'interno di diversi partiti del movimento operaio,
sinistra di ispirazione laica, socialista, repubblicana, che
è stata presente nel Pci, che ha una sua originale variante
nell'ambientalismo italiano che poi è a mio giudizio, almeno
nella sua genesi, una costola della sinistra, e il cattolicesimo
democratico. Se noi vediamo la cosa così com'è, il primo grande
interrogativo al quale cercare di dare una risposta - non è
che abbiamo vinto le elezioni, cose che ha detto Flores e che
io ho ascoltato con curiosità, ma che secondo me sono prive
di qualsiasi aggancio con la realtà - il vero grande problema
è perché noi, che rappresentavamo la quasi totalità del popolo
italiano, abbiamo perduto negli ultimi quindici anni 15 milioni
di voti. Cioè che cosa è successo in questa mutazione del nostro
Paese che ha dislocato fuori dall'arco tradizionale delle forze
democratiche, delle correnti democratiche eccetera, la maggioranza
degli italiani.
Questo
è il vero grande problema. Naturalmente, diciamo, ha pesato
il modo come è avvenuta la crisi democratica in questo Paese.
Cioè il fatto che le forze democratiche sono state paralizzate,
impedite a governare la modernizzazione del Paese nel corso
degli anni Ottanta, perché divise; divise dalla Guerra Fredda,
dalla pregiudiziale anticomunista su un lato e dalla ritardata
innovazione del Pci sull'altro lato. Questa questione ha due
facce, a seconda da quale parte la si legga. Questo ha impedito
alle forze democratiche di governare la modernizzazione del
Paese, ha prodotto quella lunga fase di agonia della Prima Repubblica,
di corrompimento, di decadimento del sistema dei partiti che
è avvenuto negli anni Ottanta, in cui i tentativi di modernizzazione
sono venuti avanti con un segno corruttivo, di disgregazione
e non invece di costruzione di un nuovo assetto sociale e di
un nuovo assetto politico e istituzionale.
Quindi
innanzitutto c'è questo, cioè il fatto che noi abbiamo potuto
metterci insieme molti anni dopo rispetto a quando era necessario
mettersi insieme per governare la grande trasformazione del
nostro Paese. E quando finalmente abbiamo potuto metterci insieme
ci siamo trovati sulle spalle il peso del processo di corruzione,
di decadimento dello Stato, di un debito pubblico accumulato
che è quella disperazione per cui dobbiamo inseguire la moneta
europea con il macigno del 10 per cento di spesa per interessi
che nessun Paese ha e che nessun grande Paese potrebbe permettersi.
Noi
non siamo la società civile contro i partiti. Noi siamo i partiti.
È una verità indiscutibile. Perlomeno se c'è qualcosa che somiglia
di più ai partiti nella dialettica italiana siamo noi, non sono
gli altri. Non possiamo raccontarci queste storie tardo sessantottesche.
Abbiamo fatto un comitato... no. Siamo in una sede seria...
se c'è qualcosa che somiglia ai partiti in ciò che di nobile
sono stati nella crisi attuale, siamo noi, non sono gli altri.
Io non conosco questa cosa, questa politica che viene fatta
dai cittadini e non dalla politica. La politica è un ramo specialistico
delle professioni intellettuali, con ciò abbiamo risolto il
problema che ci angoscia da questa mattina. Facciamo tutti lo
stesso mestiere con diverse specializzazioni. E fino a questo
momento non si conoscono società democratiche che hanno potuto
fare diversamente... l'idea che si possa eliminare la politica
come ramo specialistico per restituirla tout-court ai cittadini
è un mito estremista che ha prodotto o dittature sanguinarie
o Berlusconi. Il comitato è un sottoprodotto rispetto a queste
due tragedie. Ma non si conosce esperienza democratica... e
la politica professionale è esattamente quella struttura che
consente ai cittadini di accedere alla politica, perché se manca
quella struttura non vi accedono. Si parte con l'idea che devono
governare le cuoche e nel frattempo si governa con la polizia
politica; e noi abbiamo una certa esperienza nel nostro campo.
Poi magari questa transizione dura settant'anni perché nel frattempo
ci si dimentica il programma originario.
Quindi
non inseguiamo qualcosa che, secondo me, non siamo in grado
di inseguire e non è neanche un grande obiettivo di modernità.
Proprio la complessità sociale che si accompagna alla grande
mutazione, alla globalizzazione, alla fine del fordismo consiglia
che ci sia più politica; proprio perché la complessità sociale
riduce il tasso di politica, cioè di sintesi che promana spontaneamente
dalla società civile. Più politica nel senso di più cultura,
con più capacità di progetto, di unificazione degli interessi
intorno ad un progetto. E il nostro sforzo è produrre più politica,
fuori dalle semplificazioni di un manicheismo vecchio. Io sono
convinto che l'etica è essenziale, ma l'etica può essere una
guida per l'innovazione, o può essere invece, diciamo così,
la bandiera di una resistenza. C'è una passione per l'essere
minoranza morale in un mondo cattivo, nelle culture da cui proveniamo,
che è una cattiva passione. Cattiva, corruttrice perché il narcisismo
delle minoranze che pretendono di avere la moralità è un sentimento
corruttore, una classe dirigente è quella che sa farsi maggioranza
e governare.
Quindi,
da questo punto di vista io credo che il problema dal quale
noi dobbiamo partire è che noi siamo riusciti, grazie a quello
che avevamo in più rispetto agli altri, cioè la politica, ad
organizzare una coalizione ed un progetto che ha offerto alle
forze democratiche la possibilità di governare la trasformazione
di questo Paese. Noi non abbiamo vinto le elezioni. Questo è
un gravissimo errore di valutazione, e se si parte da un'analisi
sbagliata della realtà se ne traggono conseguenze gravissime.
Noi abbiamo perduto le elezioni. Le abbiamo perdute anche proprio
numericamente. Tra il '94 e il '96 le forze politiche che si
sono poi raccolte nell'Ulivo hanno preso due milioni di voti
in meno; questi sono i numeri che ho la cattiva abitudine di
andare a leggere ogni tanto. Soltanto che sono stati combinati
meglio in una grande operazione politica in cui, superando vecchie
divisioni, barriere e combinando questa alleanza in una forma
che è andata oltre un patto partitico eccetera, abbiamo sfruttato
l'effetto del maggioritario mettendo in campo il fatto che noi
eravamo una minoranza di questo Paese, ma l'unica in grado di
offrire al Paese un progetto di governo. Mentre le destre, che
ne rappresentano la maggioranza, sono lo specchio della disgregazione
italiana, di spinte di separazione, di rottura che non si sommano
in un progetto di governo, a meno che non si offra loro la possibilità
di sommarsi in una spallata plebiscitaria. Lì si sommerebbero.
Ma non sono in grado di sommarsi in un progetto di governo.
E allora il punto, la sfida vera, badate, è di capire se questa
occasione si trasforma nella capacità di trasformare questa
società. Se l'Ulivo è preso dalla illusione di poter organizzare
una resistenza; se l'Ulivo è preso dall'ossessione che la trasformazione
porta con sé soltanto disgregazione, disvalore, io credo che
noi saremo sconfitti. Se noi sappiamo trovare nella nostra tradizione,
invece, le ragioni etiche del cambiamento e dell'innovazione,
la guida per l'innovazione, allora noi possiamo farcela. Questo
pone un problema a ciascuno in rapporto alla sua storia, anche
se io sono convinto che la contaminazione ci aiuta in questo
processo. Ma la sinistra ha un problema anche suo, cioè come
affermare le ragioni costitutive della sinistra nel momento
in cui entrano in crisi i parametri dentro i quali la sinistra
ha organizzato la sua funzione storica: lo Stato nazionale,
un certo modo di essere del lavoro. No? Io credo che c'è una
sinistra che è talmente innamorata degli strumenti con i quali
ha agito, che finisce per perdere le sue ragioni costitutive.
Nella discussione sul Welfare mi permetto di dire che certe
posizioni che appaiono più di sinistra, negano in radice le
ragioni della sinistra. Dov'è la ragione della sinistra in chi
dice che non è giusto che la stessa figura sociale, il disoccupato,
possa avere la cassa integrazione, il prepensionamento se è
stato difeso dai sindacati, o la pensione di invalidità se trova
un uomo politico che lo aiuta, o niente? Questa è la realtà
dell'Italia. Ma chi difende questo tipo di situazione è di sinistra?
No, difende conquiste della sinistra, e indubbiamente la cassa
integrazione è una conquista della sinistra, ma non difende
le ragioni della sinistra, cioè l'eguaglianza. E finisce per
produrre una frattura fra le generazioni che diventa insanabile,
se non vi poniamo rimedio. Allora io credo che la sinistra deve
ritrovare le sue ragioni costitutive, anche mettendo in discussione
gli strumenti attraverso i quali ha costruito anche la sua forza,
il suo insediamento sociale avendo un po' di fiducia nella trasformazione.
Noi dobbiamo scommettere sul progresso. Sul fatto che il grande
mutamento non cancella le nostre idee. Anche perché, badate,
se hanno ragione quelli che dicono che finito il fordismo, la
catena di montaggio, non ci sarà più la sinistra beh, si potrà
resistere cinque anni... non è una grande prospettiva, non affascina.
Io penso che abbiano torto e penso che noi dobbiamo pensare
che invece questo grande mutamento, insomma che il lavoro oggi,
attraverso canali e vie anche aspre, tuttavia può ricongiungersi
con l'intelligenza e con la creatività intellettuale. E che
la fine del fordismo apre anche la possibilità - certo di isolamento,
di angoscia, di sfruttamento - ma anche di un nuovo rapporto
tra lavoro e libertà individuale. Dobbiamo scommettere, pensare
che la mondializzazione produce non soltanto lo sfruttamento
dei fanciulli, ma dopo un po' le lotte sociali, come in Corea,
i sindacati, i diritti civili eccetera. E dobbiamo collocare
la sinistra come un fattore attivo in questo grande processo
di trasformazione del mondo. Chiaramente sapendo che tutto questo
produce anche delle sofferenze e dei problemi. Ma l'innovazione
passa attraverso questa sfida. E, vedete, perché noi difendiamo
l'autonomia della sinistra? Ma mica perché pensiamo che ci vogliano
i partiti. Che ci vogliano i partiti non c'è il minimo dubbio,
mi pare una cosa talmente evidente, non foss'altro per una ragione
banale poiché nelle grandi democrazie ci sono i partiti. Allora,
grosso modo, penso che la casistica suggerisce che funzionano
così. Ma noi non difendiamo un partito, difendiamo l'esigenza
che ci sia una forza di sinistra. Un problema diverso. In un'epoca
in cui la trasformazione del mondo del lavoro, della produzione,
pone il problema di una costituzione sovrannazionale del soggetto
politico. Il soggetto politico riformatore che è stato una funzione
dello Stato nazionale nel secolo che abbiamo alle spalle, se
vuole continuare ad esistere - cioè un soggetto politico capace
di incidere nei processi materiali -, dovrà sempre di più costituirsi
in una dimensione sovranazionale. Allora questo è il problema
che noi ci poniamo. Non è il fatto che noi difendiamo l'identità
di partito. Infatti io non lo so se domani l'Ulivo non possa
diventare il luogo culturale in cui si organizza una nuova grande
formazione politica. Ma allora, vorrei dire, una nuova grande
formazione politica per essere una cosa vera postula il superamento
di quelle esistenti. Non mi si venga a dire che si fa una nuova
formazione politica mantenendo i partiti che ci sono, siamo
seri... Ché poi nasce il problema su chi è sovrano, c'è poco
da fare. Io non escludo affatto che la prospettiva possa essere
questa. E devo dire che questa prospettiva mi interessa molto
di più che non l'idea che trovo superficiale e infondata che
il soggetto politico possa diventare l'alleanza, i comitati,
al posto dei partiti.
Perché
tutto sommato continuo a pensare che un soggetto politico debba
organizzare un milione, un milione e mezzo di cittadini in un
Paese che ha cinquanta milioni di abitanti, altrimenti non è
un soggetto di nulla. Quindi non chiudo affatto rispetto a questa
prospettiva, ma il vero grande problema è una prospettiva eventuale
di questo tipo, che certo non è per l'oggi. E come si colloca
nel mondo, cioè dove si sta, in quale parte di mondo si colloca,
in quale campo di forze. Questo è il problema. Questo Paese
dove sta andando, dove lo stiamo portando? Lo stiamo portando
in Europa. E l'Europa non è soltanto una moneta, è un sistema
politico, è un Parlamento dove c'è il gruppo socialista, il
gruppo popolare... quella è l'Europa, non è soltanto una moneta.
E allora noi come ci entriamo? Questo pone un grandissimo problema,
non lo si risolve con la prepotenza. Perché qui davvero ci misuriamo
ciascuno con la propria storia, con la propria tradizione. Questo
è il vero problema dell'Ulivo. Non un rapporto tra i partiti
e ciò che non è partito, come se ci fosse una gelosia di partito.
Problema vero è questa grande operazione di innovazione a partire
dalle nostre identità. Come si colloca in una prospettiva europea
e di costituzione sovranazionale dei soggetti politici. E siccome
il problema è questo, questa questione non può che rimanere
aperta e per una fase noi dovremo sperimentare le forme di convivenza,
di collaborazione, di elaborazione comune, di ricerca, persino
anche di sfida e di competizione. Perché, siccome io credo che
la competizione sarà nell'innovazione e sarà più vitale quel
centro di iniziativa che si dimostrerà capace di produrre le
innovazioni più significative, io trovo che non c'è nulla di
scandaloso che fra il gruppo dirigente della coalizione e i
gruppi dirigenti dei partiti possa persino esserci una competizione
da questo punto di vista, di idee, di culture, una sfida che
se è organizzata in un rapporto di collaborazione diventa un
fatto creativo. Per cui non mi metterei adesso a mettere le
braghe al mondo con la consapevolezza che questo processo è
aperto a esiti diversi, che se noi lo viviamo come una sfida
di idee, di contenuti, farà del bene a tutti e farà anche del
bene a questo Paese e poi, nello stesso tempo, sapendo tutti
che questa competizione avviene dentro una disciplina. È la
disciplina di un'alleanza che si è formata per governare questo
Paese, che ha vinto le elezioni e che deve garantire la stabilità
e la governabilità del Paese.
Questo
è un dogma, tutto il resto è aperto. Ma questo è un dogma perché
è un patto che abbiamo fatto con i nostri concittadini. Se noi
teniamo fermo questo punto e lavoriamo in modo aperto sulle
questioni che non possono che rimanere aperte, e se la sfida
la facciamo sui contenuti dell'innovazione e non coltivando
l'idea banale che non essere partito sia di per sé innovativo,
e dall'altra parte l'idea conservatrice che l'essere partito
garantisca comunque la forza di decidere, se ci misuriamo sulle
idee, allora io credo che questa competizione è un fatto positivo.
Arricchirà le forze che sono in campo e soprattutto produrrà
progetti utili per il nostro Paese».
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