Finanza sana per uno Stato sano
Nell'ultimo quindicennio si è avuto un aumento senza
precedenti dell'interdipendenza fra sistemi economici nazionali,
determinato dalla globalizzazione dei mercati finanziari e dall'abbattimento
delle barriere commerciali. Il mercato unico accentua, e rende
irreversibile, la spinta all'integrazione delle economie europee.
La partecipazione all'Unione Europea impone un processo di convergenza
alle condizioni prevalenti nelle economie più forti e
più stabili. In conseguenza, si riducono gli spazi di
autonomia delle politiche macroeconomiche nazionali: i tentativi
di espansione economica attraverso politiche monetarie e di
bilancio in un solo paese non sono sostenibili; cresce l'importanza
delle politiche microeconomiche; una crescita sostenibile richiede
inflazione bassa, cambio stabile e assenza di squilibri strutturali
di finanza pubblica, e credibilità delle politiche economiche.
In Italia, l'inflazione è stata più alta e variabile,
il cambio si è deprezzato, il debito pubblico ha raggiunto
limiti allarmanti. Questa devianza non trova compensi in una
crescita più elevata, in un miglioramento nella dotazione
di infrastrutture, in una riduzione delle disuguaglianze sociali
e territoriali, in una minore disoccupazione. Il debito e la
spesa per interessi irrigidiscono la finanza pubblica; impongono
oneri alle nuove generazioni; rappresentano un costo per le
imprese.
In conseguenza, in Italia i gradi di libertà delle politiche
macroeconomiche sono ancor più esigui. Il controllo dell'inflazione
e la prosecuzione dello sforzo di risanamento della finanza
pubblica rappresentano due vie obbligate, dalle quali non si
può deviare. Queste costrizioni non derivano solo dai
vincoli del Trattato di Maastricht per l'adesione all'Unione
Economica e Monetaria. Un'inflazione elevata e variabile è
comunque dannosa. Un allentamento della guardia sul fronte della
finanza pubblica produrrebbe comunque più alti tassi
d'interesse e il rischio di crisi finanziarie. Una nostra estraneità
al processo di convergenza verso l'Unione Monetaria aumenterebbe
questi costi: restare ai margini della costruzione europea,
di cui l'Unione Monetaria costituisce una tappa, provocherebbe
danni irreversibili alle possibilità di sviluppo e alla
stabilità economica.
Il controllo dell'inflazione deve essere conseguito attraverso
l'uso congiunto di tre strumenti.
Deve essere proseguita la politica dei redditi impostata con
gli accordi del 1992 e del 1993, che ha consentito di contenere
i costi della svalutazione in termini di inflazione. La prassi
della concertazione con le parti sociali deve restare a fondamento
della politica per la stabilità monetaria. Essa non implica
che il governo abdichi alle sue responsabilità; consente
piuttosto di ottenere soluzioni cooperative, che, attraverso
la convergenza negoziata di comportamenti liberamente adottati
dalle parti, producano esiti desiderabili ma non raggiungibili
altrimenti.
L'indipendenza della Banca centrale nel perseguire l'obiettivo
di disinflazione deve essere mantenuta e, semmai, rafforzata.
Quanto più una banca centrale è credibile, tanto
minore è il costo di una politica monetaria che assuma
come fine preminente la stabilità dei prezzi: gli scomposti
attacchi mossi in passato contro la Banca d'Italia hanno certamente
reso più difficile l'opera delle autorità monetarie.
Si deve portare a termine nei prossimi due anni il risanamento
della finanza pubblica, per persuadere i mercati che le esigenze
di bilancio non interferiranno con l'autonomia della politica
monetaria.
La finanza pubblica italiana ha intrapreso dal 1992 un cammino
di risanamento: al netto degli interessi, il bilancio del settore
statale e quello delle pubbliche amministrazioni ha un avanzo
strutturale; dal 1994 la spesa pubblica si riduce in quota del
prodotto interno lordo. Il Documento di Programmazione economico-finanziaria
prevede che con una manovra di bilancio da 32.500 miliardi per
il 1996 e con ulteriori interventi per 27mila e per 25mila miliardi
(poco più dell'1% del PIL), nei due anni successivi l'indebitamento
netto delle pubbliche amministrazioni verrà riportato
al di sotto del limite del 3% del PIL, richiesto dal Trattato
di Maastricht, entro il 1998.
E' molto, ma non è abbastanza per entrare in Europa:
l'esame del rispetto delle condizioni di convergenza avverrà
nel 1998 e avrà dunque come riferimento il 1997; é
virtualmente certo che gli obiettivi del Governo per il 1996
verranno mancati, perché gli effetti della manovra saranno
inferiori a quelli previsti e soprattutto perché la spesa
per interessi è sottovalutata nei documenti ufficiali.
Per poter vantare un buon diritto di ammissione all'esame europeo
del 1998, occorre anzitutto un intervento aggiuntivo per il
1996; potrà manifestarsi necessario nel 1997 un intervento
più pesante di quello previsto.
Si tratta di un compito non facile e che richiede grande rigore,
poiché la pressione fiscale è già a livelli
assai elevati e superiori a quelli europei, mentre i tagli operati
hanno già ridotto la spesa in alcuni settori ben al di
sotto dei livelli europei.
In questa situazione, un governo responsabile, che non voglia
vendere promesse inesigibili di prosperità, deve impegnarsi:
- a mantenere la pressione fiscale invariata nel prossimo
triennio rispetto ai livelli del 1995;
- a reperire risorse tramite l'intensificazione della lotta
all'evasione fiscale;
- ad assicurare una riduzione della quota della spesa pubblica
sul prodotto interno lordo di due-tre punti percentuali.
L'urgenza del compito non può impedire che ad esso si
faccia fronte con riforme strutturali e in una prospettiva di
lungo periodo.
In materia di entrate proponiamo una riforma tributaria fattibile
che poggia su: semplificazione; forma cooperativa di federalismo
fiscale; riforma dell'imposizione sui redditi, personali, da
attività finanziarie e societarie; riforma dell'amministrazione
finanziaria e dell'accertamento. Un maggior gettito, richiesto
dall'invarianza della pressione fiscale, è reso compatibile
con i principi di semplicità, di trasparenza e di equità,
che devono ispirare un moderno sistema tributario.
Il contenimento della spesa pubblica deve avvenire con scelte
ragionate, e non con tagli operati in base al solo criterio
di minimizzarne il costo politico, senza riguardo alle conseguenze
negative di lungo periodo.
Una prima opportunità di contenimento della spesa deriva
dalla coerente applicazione del principio di uno Stato leggero,
con il ritiro della presenza pubblica da quei settori ove essa
non sia giustificata dall'esigenza di provvedere a servizi non
altrimenti ottenibili, di garantire uguaglianza di opportunità,
di assicurare le condizioni per un impiego produttivo delle
risorse nelle aree meno favorite del Paese. Una seconda e ampia
opportunità di contenimento si rinviene in un miglioramento
dell'efficienza e nella razionalizzazione della spesa: non si
tratta in questo caso di tagliare l'offerta di servizi e di
beni pubblici, ma di ridurne il costo, conferendo autonomia,
attribuendo responsabilità e imponendo severi vincoli
di bilancio ai centri di spesa. I primi tentativi seri di riforma
dell'amministrazione centrale si sono mossi in questa direzione.
Si muove in questa direzione il federalismo fiscale che noi
proponiamo: trasferendo ai livelli inferiori di governo funzioni
e possibilità di prelievo, anche volto a specifiche finalità
che si manifestano a livello locale, decentramento e federalismo
coniugano autonomia di decisioni e più diretta responsabilità
per la gestione e per le scelte di impiego delle risorse di
fronte ai cittadini destinatari dell'offerta di beni e servizi
pubblici.
L'opera di risanamento della finanza pubblica sarà resa
più facile se un governo stabile la considera esplicitamente
un suo compito prioritario. Un tale impegno, quando sia reso
credibile da atti di amministrazione e di legislazione, viene
compensato da una riduzione dei tassi d'interesse richiesti
sui titoli pubblici e dunque del costo del debito e della spesa
per interessi: la differenza fra tassi italiani e tassi tedeschi,
oggi di 5 punti e mezzo, potrebbe ridursi di due - tre punti.
Maggiore è lo sforzo iniziale, maggiore è il rendimento
che se ne ottiene in termini di diminuzione del disavanzo. Una
riduzione dell'onere di interessi più rapida di quanto
un'opportuna cautela suggerisce di mettere in conto potrà
consentire in parte una più corposa riduzione del disavanzo,
in parte un alleggerimento della pressione fiscale.