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Anch'io mi sento albanese (di VACLAV HAVEL)
Francesco Paolo Forti
Venerdi`, 23 Aprile 1999 ore 13:27

  Anch'io mi sento albanese

LE IDEE

di VACLAV HAVEL

IN MERITO all'intervento della Nato in Kosovo, penso ci sia
un elemento che nessuno può contestare: i raid, le bombe,
non sono stati provocati da un interesse concreto. Hanno,
cioè, un carattere esclusivamente umanitario: in gioco qui ci
sono i principi, i diritti umani ai quali è stata accordata una
priorità rispetto anche alla sovranità degli Stati. È questo che
rende legittimo attaccare la Federazione jugoslava anche
senza il mandato dell'Onu. Ma sulla base della mia esperienza
personale, sono altrettanto certo che soltanto con il tempo si
potrà valutare obiettivamente ciò che sta accadendo in questi
giorni in Jugoslavia e le sue ripercussioni sulla Nato.

OGGI l'esigenza fondamentale è che si possa fermare il
massacro, che i profughi possano liberamente tornare nelle
loro case, che sia riaperto da qualcuno il ciclo delle trattative
politiche per lo statuto del Kosovo. E che presto sul terreno
possano essere inviati degli osservatori di pace - meglio se
approvati anche dai serbi - per garantire la fine dei massacri
e delle violazioni dei diritti umani.
Io stesso, se qualcuno lo proponesse, mi impegnerei di buon
grado in un ruolo di negoziato, qualora dovessero riaprirsi
spiragli per trattative. Ma non posso dimenticare che negli
ultimi mesi dello scorso anno avevo già proposto alcune
soluzioni della crisi, non accettate per diversi motivi. I conflitti
vanno sempre previsti per tempo, e per tempo fermati con
soluzioni appropriate. Ma nel caso della guerra in Kosovo, mi
sembra di poter dire che sia stato trascurato qualcosa di assai
importante: il regime di Milosevic ha già scatenato conflitti
contro la Slovenia, la Croazia, la Bosnia-Erzegovina. La Nato
è intervenuta tardi.
Adesso provo un certo fastidio: dopo la battaglia, sono tutti
generali. Le riserve nei confronti dell'intervento, anche nel
mio paese, avrebbero dovuto essere espresse ben prima. Ci
sono stati lunghi mesi di trattative, a Rambouillet, e anche la
Repubblica Ceca, che pure non era ancora membro della
Nato, ha avuto la possibilità di esprimere le proprie posizioni.
Questa è una delle differenze tra l'appartenere al Patto di
Varsavia o alla Nato. Quando eravamo soltanto un paese
satellite dell'Urss governato da una dittatura, avevamo la
funzione di una semplice unità di guerra dell'Armata Rossa,
del tipo da prima linea; eravamo in silenzio, pochi avevano il
coraggio di criticare, e quei pochi diventavano dissidenti,
bollati come matti dal resto della popolazione.
Ora che abbiamo raggiunto la libertà dobbiamo imparare a
diventare solidali, ad assumerci liberamente e
consapevolmente le nostre responsabilità nei confronti degli
altri. Un qualcosa di completamente diverso dalla lealtà
forzata cui eravamo costretti nel Patto di Varsavia.
Per questo penso che ora tutti i membri della Nato
dovrebbero essere leali: si parla di intervento di terra, ma
esistono diversi tipi di interventi di terra, anche per assistenza
umanitaria, accoglienza dei profughi o una partecipazione più
attiva come quella che avvenne in Bosnia.
Fondamentalmente, credo che in veste di membro di questa
Alleanza, la Repubblica Ceca non possa esimersi dai suoi
obblighi e dai suoi impegni. Non si può diventare il paese che
spera che gli altri aiuteranno senza essere disponibile ad
aiutare.
C'è chi ci ricorda che tra i paesi della Nato, la Repubblica
Ceca ha una posizione particolare, per i buoni rapporti che nel
passato ci legavano alla Jugoslavia. Ma questo conflitto
maturava da dieci anni, e ogni osservatore sensibile doveva
sapere che qualcosa stava per succedere, che si sarebbe
giunti a questa esplosione di violenza. È inutile, adesso,
ricordare che la Jugoslavia è stato nostro amico, scambiando
la vecchia Jugoslavia per quella nuova.
Loro, sotto il termine Jugoslavia, intendono la costa dalmata,
dove tutti i cechi andavano in vacanza: ma si tratta della
Croazia, da tempo indipendente. Voglio ricordare che
Dubrovnik, Spalato, posti per noi cari, sono stati bombardati
dal signor Milosevic. E questo c'entra poco con quando la
Jugoslavia era solidale con noi nel 1968: si trattava solo dei
serbi, allora? No, c'erano anche gli albanesi del Kosovo, i
croati, gli sloveni, i macedoni.
Mi hanno scritto attori di teatro che mettono in scena da dieci
anni le mie opere e che mi vogliono bene: "Cosa abbiamo
fatto di male per essere bombardati?", mi chiedono. A me
non hanno fatto niente, naturalmente, ma il loro regime, con
l'aiuto delle sue componenti militari, massacra i loro
concittadini, un grande gruppo di loro concittadini. E quello
che quel regime fa con quegli albanesi è come se lo facesse
a me. È quel principio base per cui se si maltratta qualsiasi
persona è come se lo si facesse a noi stessi. E questo è un
principio di solidarietà umana che sorpassa la frontiera degli
stati, delle regioni. Io non credo che con Milosevic, oggi, si
possa stipulare la pace, o assicurare una convivenza civile tra
tutte le etnie di quella regione.
Milosevic ha le mani troppo sporche di sangue per diventare
affidabile e sbaglia chi dice che questa guerra potrebbe avere
frenato la lenta avanzata della democrazia in Serbia e
Montenegro. Il male deve essere affrontato. E se dicessimo:
aspettiamo ancora dieci anni perché forse così la democrazia
si svilupperà, sarebbe solo una scusa, un pretesto artificioso.
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