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[GARGONZA:9176] "I clienti delle prostitute uguali agli sfruttatori"
Piero DM
Lunedi`, 17 Luglio 2000
Perdonate l'ennesimo lungo intervento, ma l'argomento è spinoso e facile ai
fraintendimenti e, anche così, ho la sensazione di non essermi spiegato bene
quanto avrei voluto.
----- Original Message -----
From: Rosanna Tortorelli
> premesso che personalmente ho una visione "morale" contraria alla
prostituzione,
> per me il sesso deve essere legato ad un rapporto affettivo, non penso che
la
> mia morale debba essere imposta agli altri cosi' come non permetto che
quella
> altrui venga imposta a me. pero' mi sembra doveroso anche rispettare le
> moralita' (e perfin le amoralita') altrui... non mi pare che il nostro sia
uno
> stato etico. anzi questo rispetto delle diversita' dovrebbe essere la base
di
> una societa' che da grande vorrebbe diventare multi etnica, multi
razziale, etc.
Giusto, cara Rosanna, e giusta anche la lieve ironia sulla "società da
grande". Il rispetto delle diversità e tutto il resto non si possono basare
sull'equivoco. E di equivoci ce ne sono tanti.
Anche io, personalmente e istintivamente, sento di avere un'uguale
sentimento "affettivo" del sesso.
Ma credo che la mia convinzione a riguardo risenta di varie sublimazioni e
di tautologie incrociate, oltre che di troppi secoli di morale cattolica
ormai connaturata.
Nel complesso, mi sembra che sull'argomento ci sia una gran quantità di
mistificazioni, la maggior parte delle quali in perfetta buona fede, senza
che questa buona fede però contribuisca a rendere gli errori meno importanti
nella pratica.
Ragionando con più attenzione (e forse scoprendo qualche verità nascosta
dentro i miei stessi sentimenti) vedo facilmente per esempio che questa
necessità di "moralizzare" il sesso tramite l'affetto implica alla base
condanna del sesso in quanto tale, o almeno una certa paura, una
sospettosità, addirittura una
ripulsa della nostra parte puramente istintuale. L'affettuosità insomma
dovrebbe agire allo stesso modo di un alibi, o di un'assoluzione, rispetto a
ciò che sarebbe fondamentalmente un peccato in sé, una specie di colpa
inevitabile.
Rileggendo in questa chiave passate esperienze di vita sull'argomento -
dirette e indirette - capisco che in molti casi è vero il
contrario, ossia che è il sesso che fa nascere l'affetto (alias amore), o
almeno è tutta la sfera delle sensazioni erotiche che hanno come centro
(anche se non come fine) l'atto sessuale strettamente inteso che determina
quello status dell'anima e della psiche che chiamiamo amore, disponibilità
verso una determinata persona, bisogno della sua vicinanza, etc
Ritorniamo insomma - per l'ennesima volta - alla constatazione che il
dualismo corpo-mente, carne-spirito, sesso-amore è assai meno netto
(certamente meno manicheo) di quanto l'integralismo religioso, soprattutto
cristiano, abbia insegnato a pensare.
E ritorniamo alla constatazione non nuova, ma quasi sempre trascurata, che
l'eros ha un peso, un'estensione e una "intelligenza" enormemente superiori
a quelli che normalmente la cultura diffusa, la moralità cristiana, il
linguaggio, etc, sono disposti a concedere - con il risultato che interi
impianti di ragionamento sui comportamenti umani cadono in sistematiche
contraddizioni, per sanare le quali si ricorre a costruzioni sempre più
complicate di eccezioni e e tortuosità moralistiche.
Se però assumiamo questa più corretta e realistica base di giudizio, ne
derivano importanti conseguenze sul piano pratico, ossia sul piano di alcuni
fenomeni di cui spesso capita di parlare con diverse insanabili
contraddizioni: per esempio, la violenza sessuale e la prostituzione.
Per "violenza sessuale" intendiamo, ovviamente, del sesso come atto, come
accoppiamento o
contatto, imposto con la violenza o con il raggiro: in questo caso tuttavia
non è il sesso ad essere una colpa, e neppure il principale oggetto di
attenzione, ma la violenza e il raggiro esercitati (o meglio, così dovrebbe
essere, anche se sappiamo benissimo che così non è mai stato).
Di questo, ossia della violenza e dell'imbroglio, dovremmo parlare -
togliendo dunque alla "violenza sessuale" quell'alone moralistico (e
torbido) che induce a considerarla un caso speciale, e che per tanto tempo
ha fatto giudicare
questo genere di reati nella sfera dell'offesa al "buon costume" più che una
prevaricazione verso le persone.
E' importante che questo avvenga non per una dilatazione virtuosa
dell'indignazione verso la violenza, ma per una smitizzazione del moralismo
che aleggia intorno al
sesso: distogliendo l'attenzione (torbida, moralistica, morbosa)
dall'oggetto della violenza (e dall'organo corporeo usato come strumento per
compierla o per subirla, ossia i genitali invece che i piedi o le mani) ne
risulta
automaticamente l'emergere della violenza come protagonista in sé, ossia le
ragioni individuali, i meccanismi psichici, le condizioni sociali che
inducono alla violenza.
Si pone in genere scarsa attenzione per così dire "tecnica" (ossia
educativa, psicologica, culturale, morale, politica) a questo valore
fondamentale del comportamento umano, che è la tendenza alla violenza, e si
preferisce invece sottolineare i casi specifici (violenza sui bambini, sulle
donne, sui vecchi, sui dipendenti, sui disarmati, o sessuale, militare,
familiare, sportiva, etc): e da qui che nascono le contraddizion, ila
sensazione di insufficienza di ogni discussione, la sostanziale falsità di
ogni moralismo particolaristico.
Un fenomeno analogo riguarda la prostituzione, ossia la compravendita di ciò
che non dovrebbe essere oggetto di commercio, o almeno di ciò
che diminuisce di valore se viene comprato invece che derivante dal merito o
dallo scambio di piacevoli sensazioni.
Tuttavia è evidente - oggi, e anche nella storia dei comportamenti umani -
che la disponibilità di denaro è spesso considerato un "merito", così come
la possibilità di avere un rapporto sessuale privo qualunque implicazione
interpersonale è spesso considearato uno dei possibili "piaceri" ottenibili
tramite il sesso - giudicando la cosa dal punto di vista di chi compra.
Giudicando dal punto di vista di chi vende, ossia della donna che si
prostituisce, l'immoralità (la colpa, il carico sensitivo, la degradazione)
ha in gran parte le sue radici in quel moralismo che la donna stessa impara
ad associare al sesso, o meglio all'uso e alla protezione dei propri organi
sessuali.
Accertare l'esasperazione di questo moralismo non significa diminuire il
peso negativo di un commercio fatto a spese del proprio corpo (e della
propria sessualità), ma significa porre la questione in modo diverso e più
generale: perché sarebbe degradante prostituire i propri organi sessuali, e
non la propria intelligenza, il proprio futuro, la propria dignità e
libertà, vendendo o affittando se stesse al mondo del lavoro, al matrimonio,
ai vari opportunismi offerti dalla vita? Sempre di commercio si tratta,
sempre di valori umani si tratta, sempre c'è gente che compra ciò che gli
serve, approfittando del bisogno o dell'illusione, e sempre di scambi si
tratta tra valori economici contro valori personali - valori personali
ipocritamente coperti da virtuose definizioni spirituali, quali appunto la
libertà, la dignità, l'intelligenza, la salute, etc.
In una condizione umana - non voglio parlare di società o di sistemi
ideologici - nella quale è lecito che di tutto si faccia mercato, perché mai
dovrebbero fare eccezione soltanto alcuni organi del proprio corpo, e alcune
particolari sfere emotive?
L'unica spiegazione risiede nella concezione strumentale della donna come
sede della procreazione e della vagina come pisside in cui dev'essere
riposta l'onorabilità dell'istituto della "coppia": è evidente per altro che
di tutto si fa mercato, anche della procreazione e del matrimonio, ma quello
che importa è conservare nelle donne (soprattutto nelle donne, come
autocensura) la convinzione che questa è la loro "missione morale",
indipendentemente dalla loro libera volontà di scegliere felicemente la
maternità o la famiglia, o di non scheglierla.
Poco importa dunque che la prostituzione sia niente di più che uno dei tanti
commerci di una società umana che ama il commercio, e anzi che si possa
regolamentare e organizzare questo commercio come qualunque altro: è
importante che questo commercio sia invece conservato in un clima di
"peccato" o di trasgressione, di immoralità o di umiliazione, in modo da non
costituire mai per una donna una pericolosa tentazione, uno strumento amaro
o rivoluzionario per scoprire due cose: quanti altri generi di
prostituzione, come cittadino e persona, è destinata a praticare con la
benedizione della legalità e della moralità; e quale sia il grado della
propria libertà sessuale, innanzi tutto mentale prima ancora che fisica.
Come nel caso della violenza, quello che si fa è concentarre l'attenzione
sull'oggetto della compravendita, invece che sul "commercio" in sé.
Una organizzazione sociale e una condizione umana che si fondano sull'uso
controllato e politico della violenza e del commercio, non si possono
permettere il lusso di contestare questi due valori.
Quindi è per questo che più lo stato e la società si addentrano nella
normazione gesuitica della violenza e del commercio giudicati immorali
(attraverso un'infinita casistica) più mostrano la propria cattiva
coscienza: condannare i singoli generi, per salvare l'insieme.
Riassiumiamo, in conclusione.
Se la prostituzione è un reato e una colpa (sia in fase di vendita che di
acquisto), bisognerebbe giudicare colpa e reato anche il commercio di altri
valori ugualmente umani, e l'uso dietro compenso di altre parti del corpo.
Ad evitare la generalizazione, provvede opportunamente il moralismo, che
spezzetta i varie parti la persona e la dignità umane, e decreta una scala
di rispettabilità dei vari organi: al primo, secondo e terzo posto la
vagina. Fatta salva questa, il resto si vedrà, e comunque è roba veniale.
Questa è l'ipotesi che maggiormente riguarda chi s'ispira alla moralità
religiosa, cristiana, cattolica.
C'è invece l'ipotesi opposta, che specialmente riguarda il progressismo
demi-vierge, peggio ancora i suoi esemplari "cattolici" - i quali tutti sono
costretti da un minimo di coerenza a decretare che la prostituta non è una
delinquente, in sé e per sé, e quindi a giudicare la prostituzione in
qualche modo un episodio della più generale "libertà". Ma con mille tortuose
contraddizioni e cavilli.
Se la prostituzione non è un reato, per esempio, che senso ha la condanna
(morale, legale) degli "sfruttatori"? Qualunque commercio ha un codazzo di
sensali e mediatori, di gente che prende la sua tangente, che indirizza e
che comanda, che spesso ricatta e che insomma campa sul lavoro altrui -
magari per la buona ragione che ha anticipato quattro soldi necessari in
cambio di ipoteche sul futuro, o facendo pesare la concorrenza selvaggia di
tante richieste per pochi posti, o schiavizando di fatto la volontà
basandosi sul bisogno, sulla mancanza di alternative, o sulla pura e
semplice fame, sulla debolezza sociale e giuridica, etc..
Una buona parte del concetto e della pratica tanto vituosi del "lavoro" e
tanti aspetti dell'idolo "economico" si basano sulla violenza (materiale e
morale, diretta o mediata) e sullo "sfruttamento", sulla strumentalizaazione
speculativa di valori umani, sull'affitto o lavendita del proprio corpo,
della propria salute, del proprio tempo di vita e della propria libertà: per
esempio, se le agenzie per il collocamento interinale al lavoro potessero
prevedere (come sarebbe giusto e coerente) anche la gestione della
prostituzione, molti paradossi perderebbero i loro veli, molte immoralità
rimarrebbero nude. Molti "manager" dovrebbero fare compagnia ai magnaccia
nella collocazione morale. Molte istituzioni benemerite (vogliamo dire le
banche, per esempio?) si mostrerebbero per quello che realmente sono, ossia
gestori impietosi e violenti della vita, dell'onore e della libertà delle
persone, per purissimi motivi di dichiarato interesse economico e
nient'altro: beninteso, in queste istituzioni, di per sé innocenti, si
manidfesta il trionfo di un principio morale e di un'ideologia, che si ha
cura di condannare soltanto quando prende le sembianze di un perfido
albanese con l'anello al mignolo, sfruttatore di prostitute.
Anche il caporalato o la tratta di lavoratori dentro i camion è condannata
dal progressismo demi-vierge, ma è da presumere che si tratti soltanto di
considerazioni simili a quelle della Turco sulle prostitute: i camion sono
poco sicuri e il caporalato sfugge in sostanza alle leggi in materia di
collocamento.
Se invece dei camion abbiamo i "treni del sole" pieni di calabresi con la
valigia di cartone, magari organizzati da un sindaco o da un consorzio di
comuni; se la registrazione, la cernita, lo smistamento e l'affitto dei
lavoratori avvengono con il computer, nell'ambito di una linda e pinta
attività un'agenzia s.p.a. con sede in almeno cinque regioni, tutto va a
posto, la dignità è salva, la democrazia pure.
Per buttarla in politica, per quello che vale: la sinistra morirà di questa
mancanza di coraggio, e morirà tra le risate se continuerà a farsi
ammaestrare da questi moralismi da parrocchietta, da queste ipocrisie da
buone dame di sanvincenzo, e se la montagna della sua ambizione continuerà a
partorire simili topolini di leggi e di riforme e soprattutto di
"prospettive" politiche e culturali e intellettuali.
Augh.
= Piero DM =
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