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E' uscito "Pappagalli verdi Cronache di un chirurgo di guerra" di Gino Strada* (Feltrinelli) "...pastori e donne vengono dilaniati dalle tante mine antiuomo disseminate per le rotte della transumanza, o quando i bambini raccolgono strani oggetti lanciati dagli elicotteri sui loro villaggi: pappagalli verdi li chiamano i vecchi afgani... " "Le mine antiuomo [...]questi fiori metallici dell'infinita infamia umana, lacerano, accecano, sbrindellano, cancellano parti di vita, creano voragini di antimateria, progettano il non-uomo. Ma è proprio in quelle assenze di carne, di vita, di luce, che l'umanità esprime la sua intimità più lancinante. In quei luoghi umani violati e negati, i Gino Strada costruiscono l'umanità possibile del futuro,l'unica possibile." (dalla prefazione di Moni Ovadia) *** In termini tecnici si chiama "triage", parola francese che significa scelta, selezione. Quando ci si trova in zone di guerra, la situazione é molto diversa da quello che capita in molti dei nostri ospedali. Un incidente stradale, e di solito il paziente trova due o tre chirurghi al pronto soccorso, che possono prendersene cura. Se poi ci capita di avere una appendicite, é facile che qualche chirurgo in astinenza da sala operatoria sia lì in agguato, e consideri il nostro arrivo una specie di benedizione. Là invece, nei teatri di guerra del mondo, c'é invece un gran numero di feriti che cercano disperatamente aiuto, e ben pochi aiuti disponibili. Il chirurgo é il più delle volte solo, e si trova decine di malati di fronte. È allora che bisogna scegliere, fare il triage. Chi portare in sala operatoria per primo? E chi invece "condannare" all'attesa, ben sapendo che potrebbe non farcela ad aspettare ore? È una scelta difficile, a volte traumatica. I medici di tutto il mondo si trovano spesso in situazioni analoghe, quando hanno un cuore disponibile per il trapianto e tanti possibili candidati. Ma lì, in un ospedale da campo, non scegli consultando una lista di nomi o di numeri sul computer, lì ti trovi davanti a tante facce sofferenti, a gente che piange o implora, e che ti guarda fisso mentre con il pennarello gli scrivi sul braccio un "due"che nel nostro gergo significa "deve aspettare". Sei tu che decidi in prima persona che qualcuno dovrà morire, anzi chi dovrà morire. Sai che é necessario, ma fa male lo stesso. In zone di guerra, non può valere il principio "prima il più grave". Non ti puoi permettere di spendere tre ore a operare qualcuno con poche probabilità di sopravvivere. Consumi inutilmente energie e materiali, e, soprattutto, altra gente morirà nel frattempo, gente che avrebbe potuto salvarsi se operata prima. E allora devi cercare di fare "il meglio per la maggioranza" di quei feriti. Ce le ripetiamo spesso queste cose, per convincere noi stessi, ogni volta, che é la migliore delle soluzioni possibili. Ma non é facile, non lo é mai. Spesso arrivano i dubbi, o i rimorsi, o la frustrazione. E qualche volta é difficile reggerlo, quel ruolo. Mi é capitato anni fa, quando Margaret, la nostra capo-infermiera australiana a Kabul, mi prese sottobraccio. "Vieni, ci sono già un centinaio di feriti nel cortile, devi fare il triage".. C'erano molti combattenti tra loro, una situazione atipica, e quei combattenti ci erano in qualche modo familiari. Avevano tenuto sotto tiro noi e il nostro ospedale per giorni, senza alcun rispetto per altri feriti e per chi come noi era lì' solo per prestare assistenza. Io provavo un misto di paura e di rabbia, sentivo il peso di aver lavorato per giorni in mezzo a colpi di mitra e di mortaio. Neanche lì, davanti a un mujaheddin con un proiettile in pancia, sono riuscito a liberarmi dalla rabbia. Avevo la mente piena di emozioni e sentimenti, ma da nessuna parte c'era quello della pietas, che invece avrebbe dovuto essere sempre presente, nella testa di un medico. Era dura ammetterlo, ma di quei guerriglieri feriti, che ci avevano terrorizzato per giorni, non me ne importava assolutamente niente. "Il triage é fatto, Margaret - le dissi dopo pochi minuti che ci spostavamo tra quella folla di gente stesa per terra - prima i bambini e le donne!". "Cooosa?" "Sì, hai capito bene, prima i bambini e le donne. Se non ti va bene chiama qualcun altro a fare il triage". E tornai in sala operatoria senza neanche attendere una risposta. Nei giorni seguenti avrei ripensato spesso a quella scelta, non basata sull'etica medica, né su un approccio razionale al problema. È vero, lì dentro bambini e donne erano gli unici a non avere colpe, ad aver subito la violenza altrui. Chi invece la guerra la fa - mi sono detto - chi spara per uccidere, deve pur metterlo in conto un proiettile nella propria pancia. E perché avrei dovuto dar la precedenza a chi mi stava sparando addosso fino a mezz'ora prima? Ci ho messo un po' di tempo a trovare la forza di dire a me stesso che quella, in fondo, era solo una specie di vendetta, il trasformarsi da medico in giudice spietato e inappellabile. E mi sono spaventato. Quella scelta non aveva nulla a che vedere con il mio mestiere. Mi sono dato delle attenuanti, ma alla fine il verdetto é rimasto lo stesso: come si chiamerebbe da noi, complicità in omicidio plurimo e omissione di soccorso? da "Pappagalli Verdi" di Gino Strada, ed. Feltrinelli. Dal Sito http://www.emergency.it [*Gino Strada è chirurgo di guerra ed è uno dei fondatori di EMERGENCY. Da oltre dieci anni è impegnato in proma linea: ha lavorato in Afghanistan, Perù, Bosnia, Gibuti, Somalia, Etiopia e, nel periodo più recente nel Kurdistan iracheno e in Cambogia. ] ![]() |