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Ministra e ingegnera

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

Ministra e ingegnera

Messaggioda flaviomob il 02/11/2014, 0:22

Infermiera sì, ingegnera no?



Marzo 2013

Cecilia Robustelli (Università di Modena)

La rappresentazione delle donne attraverso il linguaggio costituisce ormai da molti anni un argomento di riflessione per la comunità scientifica internazionale, ma anche per il mondo politico e, oggi, sempre più anche per quello economico. In Italia numerosi studi, a partire dal lavoro Il sessismo nella lingua italiana di Alma Sabatini, pubblicato nel 1987 dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, hanno messo in evidenza che la figura femminile viene spesso svilita dall’uso di un linguaggio stereotipato che ne dà un’immagine negativa, o quanto meno subalterna rispetto all’uomo. Inoltre, in italiano e in tutte le lingue che distinguono morfologicamente il genere grammaticale maschile e quello femminile (francese, spagnolo, tedesco, ecc.), la donna risulta spesso nascosta “dentro” il genere grammaticale maschile, che viene usato in riferimento a donne e uomini (gli spettatori, i cittadini, ecc.). Frequentissimo è anche l’uso della forma maschile anziché femminile per i titoli professionali e per i ruoli istituzionali riferiti alle donne: sindaco e non sindaca, chirurgo e non chirurga, ingegnere e non ingegnera, ecc.

Forti richiami a rivedere questa tradizione androcentrica sono arrivati da diversi settori della società, dall’accademia e dalle istituzioni di molti paesi europei, per esempio dalla Confederazione Svizzera - dove l’italiano è tra le lingue ufficiali - che ha pubblicato recentemente una Guida al pari trattamento linguistico di donna e uomo nei testi ufficiali della Confederazione (2012). In Italia la Direttiva Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche ha rinnovato qualche anno fa (2007) la raccomandazione a usare in tutti i documenti di lavoro un linguaggio non discriminante e ad avviare percorsi formativi sulla cultura di genere come presupposto per attuare una politica di promozione delle pari opportunità. Molte amministrazioni hanno aderito a questo invito e la stessa Accademia della Crusca ha collaborato con il Comune di Firenze al progetto Genere&linguaggio e alla pubblicazione delle prime Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo. Ma sia nella comunicazione istituzionale sia in quella quotidiana le resistenze ad adattare il linguaggio alla nuova realtà sociale sono ancora forti e così, per esempio, donne ormai diventate professioniste acclamate e prestigiose, salite ai posti più alti delle gerarchie politiche e istituzionali, vengono definite con titoli di genere grammaticale maschile: il ministro Elsa Fornero, il magistrato Ilda Bocassini, l’avvocato Giulia Bongiorno, il rettore Stefania Giannini.

Qual è la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti adducono l’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di ingegnera), la presunta bruttezza delle nuove forme (ministra proprio non piace!), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma non è vero, perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice, ecc. non suscitano alcuna obiezione: anzi, nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore. Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono, celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fondatamente linguistiche.

I meccanismi di assegnazione e di accordo di genere giocano un ruolo importante nello scambio comunicativo e meriterebbero di essere conosciuti anche al di fuori della cerchia accademica per fugare la convinzione, diffusa, che usare certe forme femminili rappresenti solo una moda. Molti ricorderanno il recente diverbio sorto in una riunione in Prefettura (a Napoli) perché un cittadino chiamava signora (essendo incerto sul termine prefetta!), invece che protocollarmente prefetto, la titolare di questa carica in una provincia vicina.

Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, a una sua effettiva presenza nella cittadinanza e a realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che anche la politica chiede oggi alla società italiana. È indispensabile che alle donne sia riconosciuto pienamente il loro ruolo perché possano così far parte a pieno titolo del mondo lavorativo e partecipare ai processi decisionali del paese. E il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo: quindi, perché tanta resistenza a usarlo in modo più rispettoso e funzionale a valorizzare la soggettività femminile?

http://www.accademiadellacrusca.it/it/t ... -ingegnera


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Re: Ministra e ingegnera

Messaggioda pianogrande il 02/11/2014, 1:47

La lingua parlata avrà sempre la meglio su qualsiasi accademia.

L'accademia ci vuole perché una lingua non può avere le sue regole ma ad ogni latino succede sempre un volgare e questo scorrere delle lingue non può fermarlo nessuna grammatica e nessun vocabolario.

La lingua risente anche del costume (perfino della morale).

Guardate con quanta lentezza si adegua alle coppie di fatto che non sanno benissimo come definirsi e un termine come compagno fa una fatica boia a passare senza tensioni e dubbi.

No. Mio figlio non è sposato. E' andato a convivere (sarà un paesello dell'Agro Pontino?).
Fotti il sistema. Studia.
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Re: Ministra e ingegnera

Messaggioda flaviomob il 02/11/2014, 10:11

Ai raggione, Pianogrande ;)


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Re: Ministra e ingegnera

Messaggioda franz il 02/11/2014, 10:14

pianogrande ha scritto:La lingua parlata avrà sempre la meglio su qualsiasi accademia.

Vero, ma perché c'questa presunta bruttezza delle nuove forme?

A me pare ci sia anche un motivo linguistico.
Molte parole sono derivate da altre lingue e mi pare che le professioni, soprattutto le piu' anltiche siano prevalentemente di orgine greca. Con le parole di origine diversa dalla nostra, l'itaiano (ma anche altre lingue o fanno) non adotta le proprie regole grammaticali ma le ingoba cosi' come sono. E non adotta nennemo le regole grammaticali della lingua importata, anche quando sono note.
L'ubriaco non fa il giro dei bars ma dei bar. Se i superman fossero due, non diventano supermen. Se dobbiamo comprare due mouse, non li trasformiamo in mice.
La parola staniera collegata alla professione, pur spesso adattata alla pronuncia italiana, rimane li' immutata, senza declinarla col genere ma caso mai solo alla quantità.
In genere le professioni sono poi nomi doppi legati insieme in cui una parte indica cosa si costrusce (l'azione) e l'alto il cosa.
È il caso di shoemaker (ing) e schumacher (DE) e di tanti altri. Nel caso l'azione (che sta alla fine) è asessuata come è assessuato l'ggetto che viene fatto. È il caso dell'architetto [dal greco ἀρχιτέκτων (arkhitekton), parola composta da arkhi (capo), particella prepositiva che serve a denotare "superiorità", autorità, ma soprattutto pensiero, ossia responsabilità e consapevolezza di colui che si accinge a costruire, e tékton particella che riguarda l'azione, da wiki] e secondo me è questo genere di derivazione che rende implicitamente asessuato il termine. Poi per altri ovvi motivi, ci si rende subito conto che architetta sta malissimo. In italiano molte professioni hanno la radice "aio". Il suffisso nominale è un agentivo, e deriva dal sostantivo. Quindi dal giornale abbiamo che chi fa il giornale è un giornalaio, poi abbiamo il fornaio, il macellaio, il calzolaio, ... L'agentivo è asessuato perché si riferisce ad un'azione e denota una professione, non una persona. Se invece ci riferiamo alla persona che fa un determinato mestiere solitamente non decliniamo il genere proprio per questo motivo. Prendiamo l'agente per definizione, cioè l'agente stesso (di polizia). Impossibile sessualizzarlo. Se invece il suffisso è "tore" come lavoratore, tornitore etc, allora qui il suffisso è originato da un verbo (lavorare, tornire) e qui è del tutto naturale declinare lavoratrice e tornitrice etc.

Nella pratica comune poi il linguaggio trova le sue eccezioni e spesso sono piu'numerose delle norme. Forse maestro/a è una di queste o forse perché defiva dal latino magister, lingua a noi piu' vicina. Fatto sta che anche puttana deriva dal latino ma puttano proprio non ci viene, a meno che non stiamo facendo volutamtente dell'umorismo.

Quello che piu' è strano è che a fronte di un tentativo di desessualizzare le professioni in realtà si sta sessualizzando il linguaggio.
Naturalmente poi come dice pianogrande le persone parlano come vogliono e la lingua segue le sue evoluzioni, indipendentemente dalla crusca.
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