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Non una parola, non un pensiero...

Discussioni su quanto avviene su questo piccolo-grande pianeta. Temi della guerra e della pace, dell'ambiente e dell'economia globale.

Re: Non una parola, non un pensiero...

Messaggioda ranvit il 09/01/2009, 11:58

Stevin ancora non ci hai illuminati sulla tua idea di soluzione della vertenza arabo-israeliana.

Devi farlo perchè questo ci consentirebbe di capire meglio il tuo obiettivo : fare "ammuina" o sincero dolore per i fatti drammatici che occorrono ormai da 60 anni.

Vittorio
Il 60% degli italiani si è fatta infinocchiare votando contro il Referendum che pur tra errori vari proponeva un deciso rinnovamento del Paese...continueremo nella palude delle non decisioni, degli intrallazzi, etc etc.
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Re: Non una parola, non un pensiero...

Messaggioda Paolo65 il 09/01/2009, 14:53

Vittorio, Stevin non lo dice apertamente ma un'idea su come dovrebbe finire la questione ce l'avrebbe.

E' qualcosa di intermedio tra il ritorno ai confini del 1967 ad un ritorno degli israeliani dai paesi da cui sono partiti per andare in Israele.

Il punto che non riesce a comprendere è che anche dentro i confini del 67 gli israeliani verrebbero attaccati ancora da Hamas,fino alla fine di ogni confine.......l'addio alla striscia di Gaza da parte degli israeliani insegna!

Se solo i palestinesi,cioè una popolazione araba che fino alla nascita d'Israele erano stati sotto ogni padrone possibile da ancor prima dell'impero romano, senza battere ciglio, avessero accettato nel 1948 i 2 stati, oggi starebbero a parlare della loro bella e rigogliosa patria ,forse invidiata anche da noi italiani.

Purtroppo invece, la "grande battaglia" contro Israele, non solo ha portato quel popolo alla vita miserabile in cui sta,ma a Gaza Hamas sta introducendo la Sharia, e norme che prevedono l'impiccagione,il taglio della mano, le frustate ecc.

Insomma, un crescendo di invivibilità ed inciviltà che una persona che vive in occidente dovrebbe rigettare come la peste,ma come vediamo difende ritenendola addirittura una battaglia di civiltà e giustizia.

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Re: Non una parola, non un pensiero...

Messaggioda franz il 09/01/2009, 15:22

Paolo65 ha scritto:Se solo i palestinesi,cioè una popolazione araba che fino alla nascita d'Israele erano stati sotto ogni padrone possibile da ancor prima dell'impero romano, senza battere ciglio, avessero accettato nel 1948 i 2 stati, oggi starebbero a parlare della loro bella e rigogliosa patria ,forse invidiata anche da noi italiani.

Non so accettassero o meno, forse non lo sapremo mai.
Il giorno stesso il cui Israele nacque fu attaccato non dai palestinesi (che stato non erano e non avevano) ma dai paesi arabi vicini: egitto, giordania, libano, syria, iraq.

Non fu tanto Israele espellere i palestinesi (nei primi giorni gli israeliani perdevano ed arretravano) ma furono principalmente le nazioni arabe attaccanti a dire, durante l'avanzata, ai palestinesi di sloggiare (li avrebbero ospitati loro), perché le terre palestinesi erano territorio di guerra e di non preoccuparsi, che da li' a poco avrebbero potuto fare ritorno a casa. Cosi' non ando' perché dopo una inziale sconfitta gli israeliani si ripresero e contrattaccarono. I 726'000 profughi palestinesi quindi rimasero nei campi.
Contemporaneamente, per la guerra, quasi mezzo milioni di ebrei (600'000 secondo le fonti israleiane) che vivevano nelle capitali arabe dovettero abbandonare le loro case e le attività economiche e gradualmente si rifugiarono, come è intuibile, in Israele. Le loro case ed attività furono confiscate e mai indennizzate; altrettanto gli israeliani fecero per le proprietà dei palestinesi.
A vedere con gli occhi di oggi gli avvenimenti di allora, i palestinesi sono, ritengo, i meno responsabili ma sono quelli che piu' hanno perso, a causa della guerra iniziata il 15 maggio 1948 dalle citate nazioni arabe e da loro persa.
Le successive crisi belliche del 56, 67 e 73, sempre perse dai paesi arabi, aggravarono la situazione e negli ultimi decenni finalmente i moderati (Egitto e Giordania prima, OLP poi) iniziarono il percorso di pace che solo alcuni esagitati integralisti islamici (e utracomunisti nostrani, legati in parte anche all'estrema destra nazista) combattono a colpi di missili, kamikaze e propaganda.

Fortunatamente, come ci hanno illustato vari articolisti, i palestinesi moderati (e gli arabi moderati) hanno in maggioranza capito là quanto alcuni pochi da noi non hanno ancora capito.

Ciao,
Franz
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Re: Non una parola, non un pensiero...

Messaggioda Paolo65 il 09/01/2009, 15:34

Franz, con le tue precisazioni tu aggiungi sale su una ferita già aperta, e non vorrei che Stevin ne avesse a male :)
In effetti i palestinesi sono stati sempre strumentalizzati dall'esterno, tanto da farmi dire che il suo migliore amico, se solo lo volessero, sarebbe proprio Israele, con quale una volta trovato un accordo sarebbe anche il primo ad imporlo ai paesi arabi "amici" dei palestinesi.
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Re: Non una parola, non un pensiero...

Messaggioda lucameni il 10/01/2009, 0:24

Cavolo, mi pareva strano che Stevin non fosse presente a dire la sua su Israele e a dimenticarsi di Hamas e compagnia.
Un disco che ci ripete da anni in tutti i forum.
Ci mette una gran passione e va rispettata; anche se giustamente sono tesi che non stanno nè in cielo nè in terra.
Meno facile da rispettare semmai la sua confusione, non so quanto consapevole, che a volte ha mostrato tra lo stato di Israele e gli ebrei in quanto tali.
Mi auguro che almeno adesso questa differenza gli sia più chiara.
Per il resto ovviamente replicheremo a dovere. E mi pare Franz sia stato decisamente preciso nel dire la sua. E nello specifico anche la mia.
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Re: Non una parola, non un pensiero...

Messaggioda Stevin il 10/01/2009, 3:20

lucameni ha scritto:Cavolo, mi pareva strano che Stevin non fosse presente a dire la sua su Israele e a dimenticarsi di Hamas e compagnia.
Un disco che ci ripete da anni in tutti i forum.
Ci mette una gran passione e va rispettata; anche se giustamente sono tesi che non stanno nè in cielo nè in terra.
Meno facile da rispettare semmai la sua confusione, non so quanto consapevole, che a volte ha mostrato tra lo stato di Israele e gli ebrei in quanto tali.
Mi auguro che almeno adesso questa differenza gli sia più chiara.
Per il resto ovviamente replicheremo a dovere. E mi pare Franz sia stato decisamente preciso nel dire la sua. E nello specifico anche la mia.



Per inciso: mi è perfettamente chiara la differenza tra Israele e gli Ebrei in genere. Tanto chiara che sono a conoscenza di parecchie associazioni o singoli intellettuali Ebrei che deplorano più degli altri i misfatti del sionismo.
Quando la smetterete di farvi degli autogol?

Quindi, facciamo così: vi faccio rispondere da autori Ebrei ed anche (udite udite) ex-sionisti. Chi meglio di loro può conoscere la situazione?

Buona lettura.


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Avraham Burg: «Addio al sionismo» (http://www.metaforum.it/forum/showthread.php?t=1172)
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Intervista choc all'ex presidente

“Israele addio
Sei militarista e senz’anima”



FRANCESCA PACI
CORRISPONDENTE DA GERUSALEMME

Associare allo Stato d'Israele gli aggettivi “ebraico” e “democratico” equivale a produrre nitroglicerina: il paese è la versione contemporanea della Germania degli Anni '30». Chi turba così le celebrazioni sia pur problematiche del quarantennale della Guerra dei Sei Giorni non è il presidente iraniano Ahmadinejad, sommo teorico del parallelo tra sionismo e nazismo, ma un israeliano blasonato come Avraham Burg, ex presidente della Knesset tra il 1999 e il 2003, ex direttore dell'Agenzia ebraica per l'immigrazione, dirigente storico del partito laburista, ebreo ortodosso e al tempo stesso punto di riferimento della sinistra di governo. Nell'intervista pubblicata oggi dal quotidiano Haaretz sotto il titolo di «Explosive Material», materiale esplosivo, Burg, interpellato sul suo nuovo libro «Lenazeach et Hitler» (Vincere Hitler), invita i connazionali «raziocinanti» a espatriare: «Questa è una nazione militarista, non ce l'hanno ancora detto ma siamo tutti morti». Lui, per sicurezza, si è dotato di passaporto francese: ha appena votato contro Sarkozy.

La reazione alle parole di Avraham Burg, annunciate ieri in tv, non si è fatta attendere: un deputato dell'estrema destra ha proposto alla Knesset di negargli la sepoltura tra i Grandi d'Israele, privilegio che spetta, per esempio, agli ex presidenti del parlamento. I forum online non parlano d'altro, la notizia rimbalza nelle redazioni, le radio hanno aperto i microfoni sulle affermazioni più forti, «definire ebraico lo Stato d'Israele è come sancirne la fine» ma anche «l'israelianeità è corpo senza anima». Il conduttore di un talk show di Canale 10, dove Burg era ospite, gli ha consigliato scherzosamente «un giubetto antiproiettile».

Per capire quanto questo auto-da-fè turbi la società israeliana, accusata d'essere «un ghetto sionista di giudeo-nazisti», bisogna afferrare l'icona nazionale Avraham Burg. Cinquantadue anni, ebreo praticante, ex paracadutista ferito in missione, laureato in Studi africani alla Hebrew University e simpatizzante della prima ora di Peace Now, politico brillante ma riservato, con una casa spartana nella comunità religiosa di Nataf, vicino Gerusalemme, dove vive con la moglie francese Yael, psicologa, e sei figli: una rara mescolanza di valori tradizionali e cultura pacifista, eccentrica ma rispettata.
Il padre Yosef, morto nel '99, occupa un posto d'onore nel pantheon israeliano. Nella memoria collettiva sarà sempre il leader erudito del Partito nazional religioso, che negli anni '60 e '70, sotto la sua guida, era una forza di centro, moderata, l'alleato fedele dei laburisti al governo. Tutti ricordano che durante le proteste contro il massacro nel campo profughi palestinese di Sabra e Chatila, all'inizio del 1983, Yosef, all'epoca ministro dell'interno, sedeva in parlamento con il premier Begin, mentre il figlio Avraham manifestava in piazza con lo zuccotto ebraico sul capo. Fu allora che un ortodosso lanciò una bomba sui dimostranti: il giovane Burg fu ferito a una gamba e morì un coetaneo, Emil Grunzweig. Il j'accuse del ragazzo ribelle rivelatosi poi uno dei migliori presidenti della Knesset senza mai rinnegare le ragioni dei palestinesi, affonda nella religiosità profonda di Avraham Burg più che nel background movimentista. C'è la critica a una società «paranoica che costruisce muri contro le sue paure», ma anche l'attitudine ebraica all'autoflagellazione. Frasi come «è difficile capire le differenze tra il primo nazionalsocialismo e la teoria nazional-sociale israeliana di oggi» sono una doccia fredda per il Paese. Un conto se avesse parlato Lea Tsemel, l'avvocatessa israeliana che difende i kamikaze palestinesi e molti considerano una traditrice, ma Burg è diverso: è Israele.

L'uomo che nel '95 guidava l'Agenzia ebraica, apprezzato per aver recuperato molte proprietà perdute dagli ebrei durante l'Olocausto, rilegge il passato: «La legge del ritorno è l'immagine allo specchio di Hitler, presuppone di accogliere chi lui discriminatoriamente considerava diverso. Ci stiamo facendo dettare l'agenda da Hitler». L'intervistatore, Ari Shavit, uno dei migliori giornalisti di Haaretz, suo compagno dagli inizi in Peace Now, lo incalza e si prende del «disertore» per aver tradito i valori dell'ebraismo: «L'ebraismo si basava sui mutamenti, il sionismo ha ucciso questa attitudine. Non c'è ebreo senza narrativa e qui non c'è più narrativa». Cosa resta, allora? «Un Paese ossessionato dalla forza, violento sulle strade, in famiglia, contro i palestinesi».

Gli amici intimi non sono sorpresi, dicono che Avraham si è radicalizzato negli ultimi anni, da tempo sostiene che «il più ebreo di tutti è Gandhi» e «l'Europa è l'ultima utopia ebraica». Ma la sua Israele non lo sapeva ancora.



La Stampa 8 giugno 2007
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Re: Non una parola, non un pensiero...

Messaggioda franz il 10/01/2009, 10:16

Stevin ha scritto:Gli amici intimi non sono sorpresi, dicono che Avraham si è radicalizzato negli ultimi anni, da tempo sostiene che «il più ebreo di tutti è Gandhi» e «l'Europa è l'ultima utopia ebraica». Ma la sua Israele non lo sapeva ancora.

Interessante l'accenno alla attitudine alla autoflagellazione degli ebrei.
Direi che una rondine non fa primavera e che dove esiste libertà queste cose possono essere dette e scritte.
E' anche chiaro che piu' si attacca Israele, con le guerre prima e con il terrorismo poi, e piu' il sionismo si mantiene, si rafforza, ha ragione di continuare ad esistere. Ed è anche chiaro che i continui attacchi, la continua situazione di tensione e stress, su entrambi i fronti, rafforza le posizioni piu' estreme.
Se volessimo paragonare pero' qualche cosa al nazismo, alcuni movimenti arabi hanno una precedenza direi storica.
Per prima cosa perché effettivamente tra le due guerre mondiali e durante la seconda alcuni movimenti arabi nella zona di gerusalemme furono effettivamente alleati di Hitler in funzione antiebraica (vedere la storia del Gran Mufti' di Gerusalemme) e si impegnarono a collaborare al piano del Furer sulla soluzione finale. In secondo luogo perché nei fatti, l'uso che per esempio Hamas ed anche Hezbollaz fa della sua popolazione come scudi umani è piu' simile al disprezzo nazista rispetto a come invece cerca di comportarsi l'esercito israeliano.

Qui,a proposito ho trovato uno scritto, una lettera aperta, di un giovane studente universitario israeeliano che puo' aiutare a far riflettere.
Non è un illustre saggio come Avraham e non riuscirà certo a convincere quelli che non si farebbero convincere da nulla, perché hanno già scelto, ma vale comunque la pena di leggerla.

Ciao,
Franz


Cari cittadini del mondo
Di Rotem Yacobi
Cari cittadini del mondo,
l’altro mercoledì, vigilia del nuovo anno, me ne stavo seduto nel mio appartamento a Beer Sheva e si considerava se uscire o no per festeggiare il capodanno. Improvvisamente sono suonate le sirene. Sono corso giù per le scale nel rifugio del nostro edificio, dove sono stato raggiunto da altre due famiglie coi bambini terrorizzati, una coppia di anziani e due studenti universitari vestisti da festa che a quel punto hanno deciso starsene a casa. Siamo rimasti seduti in silenzio, ascoltando la sirena e aspettando di sentire l’esplosione. Qualche minuto dopo la detonazione, siano tornati ai nostri appartamenti. Andando a letto ho sentito che dei missili erano caduti anche su Ashkelon, e mi dicevo: speriamo che non colpiscano qualche locale affollato, anche se quasi nessuno era uscito a festeggiare il capodanno.

Giovedì, primo giorno dell’anno, sarei dovuto andare in università ma le lezioni erano state sospese. Evidentemente le autorità accademiche non volevano prendersi nessun rischio. Mentre parlavo al telefono con la mia preoccupatissima madre, guardavo gruppi di studenti salire sugli autobus diretti verso località più lontane dal fronte. Ho detto a mia madre che anche la nostra casa non è sicura e che per il momento sarei rimasto qui.

Ogni rumore mi fa sobbalzare, penso che possa essere caduto un altro razzo. Navigo per i siti di notizie, leggo che le Forze di Difesa israeliane combattono Hamas nella striscia di Gaza e penso alla gente su entrambi i lati del confine.
Sono nato in questo paese, come i miei genitori. Sono nipote di sopravvissuti alla Shoà. Mi è stato insegnato l’amore per questa terra e l’amore per gli esseri umani, chiunque siano. Ho servito nelle forze armate e oggi sono studente all’Università Ben Gurion di Beer Sheva.

Sono fiero di appartenere a questo paese, che ha un esercito con alti valori morali. E mi pongo queste domande.

Lo sa, il mondo, che le Forze di Difesa israeliane avvertono con volantini e telefonate i civili palestinesi prima di colpire gli edifici usati da Hamas come depositi di armi o basi di lancio?
Lo sa, il mondo, che per tutta risposta Hamas piazza uomini, donne e bambini sui tetti di quegli edifici perché sa che a quel punto le forze israeliane (certo, salvo errori) non li colpiranno?
Lo sa, il mondo, che gli uomini di Hamas sparano dai centri abitati usando i civili come scudi umani?
Lo sa il mondo che, nel momento stesso in cui stanno combattendo Hamas, le forze israeliane si preoccupano di far arrivare alla popolazione palestinese aiuti umanitari come cibo, medicine e attrezzature sanitarie?
Lo sa il mondo che, mentre combattiamo per difendere il nostro diritto a vivere in pace e sicurezza, malati palestinesi vengono ricoverati e curati negli ospedali israeliani?
Ha saputo, il mondo, di quei venti casi in cui dei palestinesi hanno approfittato dei loro problemi di salute, e dunque del permesso di entrare in Israele, per cercare di compiere attentati terroristici contro la nostra popolazione?
Mi domando: dove era il mondo un anno e mezzo fa, quando gli uomini di Hamas massacravano per le strade quelli di Fatah e innumerevoli altri palestinesi innocenti per prendere il potere nella striscia di Gaza?
Lo sa il mondo che, da quando Israele si è ritirato dalla striscia di Gaza nell’estate 2005, Hamas e i suoi alleati hanno sparato più di 6.000 razzi e granate su Israele, colpendo cittadini innocenti?

Eppure è Israele che viene accusato dalla comunità internazionale in generale, e dai paesi europei in particolare, compresi Gran Bretagna, Francia e Russia. Tutti stati che esistono da tantissimi anni, che hanno consolidato il status mondiale, che hanno garantito ai loro cittadini la sicurezza da minacce esterne. Alcuni avevano anche colonie in altri continenti dove imponevano le loro tradizioni, la loro cultura, la loro lingua.

Lo stato di Israele esiste da sessant’anni, non ha alcun desiderio di diventare un impero mondiale né di colonizzare paesi in altri continenti. Israele vuole solo che gli stati del mondo e i suoi vicini riconoscano la sua indipendenza e sovranità. Israele vuole anche che riconoscano il suo diritto di garantire sicurezza e protezione ai suoi cittadini (come previsto dall’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite).

Cari cittadini del mondo, svegliatevi. Se oggi Israele, in nome della “pace”, sarà costretto ad accettare missili e razzi sulla testa dei suoi figli, domani toccherà ai vostri figli.
Venerdì, secondo giorno dell’anno, siedo nel mio appartamento a Beer Sheba mangiucchiando i biscottini che il vicino del piano di sotto ha distribuito mentre eravamo nel rifugio. Siedo qui e intanto immagino una realtà in cui potrò firmare questa lettera così: Rotem Yacobi, cittadino del mondo libero.
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Re: Non una parola, non un pensiero...

Messaggioda moderatore il 10/01/2009, 11:09

lucameni ha scritto:Ci mette una gran passione e va rispettata; anche se giustamente sono tesi che non stanno nè in cielo nè in terra.
Meno facile da rispettare semmai la sua confusione, non so quanto consapevole, che a volte ha mostrato tra lo stato di Israele e gli ebrei in quanto tali.

Facile o meno facile, tutti come persone vanno rispettati anche quando non condiviamo in modo anche profondo quanto leggiamo. Possiamo non apprezzare confusioni e mancate cosapevolezze ed apprezzare coerenze e passioni ma cerchiamo di non personalizzare il dialogo, per favore

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Re: Non una parola, non un pensiero...

Messaggioda lucameni il 10/01/2009, 12:08

Non sono autogol, caro Stevin, ma memoria di quanto scritto in altri forum.
Sul fatto dell'antisionismo - tanto per dire come ce la possiamo cantare a piacimento - poi possiamo ricordare facilmente quel gruppo di ebrei ortodossi, peraltro invitati dal leader iraniano al suo recente convegno antisionista, che ritengono la nascita di Israele contrario al disegno divino. Detto così in soldoni.
Mica lo ignoriamo.
C'è da rimanere soltanto perplessi sui toni e sul fatto di argomentare politicamente quali ventriloqui degli estremisti e dei fanatici di ogni risma.
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Re: Non una parola, non un pensiero...

Messaggioda Stevin il 10/01/2009, 12:19

Ancora la parola ad Ebrei antisionisti

Buona lettura

COME ISRAELE HA PORTATO GAZA SULL’ORLO DI UNA CATASTROFE UMANITARIA

DI AVI SHLAIM
The Guardian

Si può trovare un senso all’insensata guerra di Israele contro Gaza solo capendo il contesto storico. La creazione dello stato di Israele nel 1948 fu causa di un’enorme ingiustizia verso i Palestinesi. I politici britannici mal tollerarono la faziosità degli Stati Uniti verso il neonato stato. Il 2 giugno 1948, sir John Troutbeck scrisse al ministro degli esteri che gli Statunitensi erano responsabili della creazione di uno stato canaglia guidato da «un gruppo di capi del tutto privo di scrupoli». Pensavo che questo giudizio fosse troppo duro, ma la brutale aggressione di Israele al popolo di Gaza, e la complicità dell’amministrazione Bush, ha riaperto la questione.

Chi scrive prestò servizio con fedeltà nell’esercito israeliano a metà degli anni Sessanta e non ha mai messo in discussione la legittimità dello stato di Israele secondo i confini di prima del 1967. Ciò che respingo senz’altro è il progetto coloniale sionista al di là della Linea verde. L’occupazione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza da parte di Israele dopo la guerra del giugno 1967 ha assai poco a che fare con la sicurezza. È solo una questione di espansionismo territoriale. L’obiettivo era quello di creare una Grande Israele attraverso un permanente controllo politico, economico e militare dei territori palestinesi. E il risultato è stata una delle più lunghe e brutali occupazioni militari dei tempi moderni.

Quarant’anni di controllo israeliano hanno provocato danni incalcolabili all’economia della Striscia di Gaza. Con una folla di profughi del 1948 stipati in una sottile striscia di terra, senza infrastrutture e senza risorse naturali, il futuro di Gaza è sempre stato buio. Ma Gaza non è solamente un caso di sottosviluppo economico, ma un caso, unico e crudele, di regressione pianificata dello sviluppo. Per usare un’espressione biblica, Israele ha fatto regredire il popolo di Gaza a tagliatori di legna e portatori d’acqua, a una fonte di manodopera a basso costo e a un mercato prigioniero per i beni di Israele. Lo sviluppo dell’industria locale è stato attivamente ostacolato affinché fosse impossibile ai Palestinesi rompere il vincolo di subordinazione a Israele e creare le fondamenta economiche necessarie per una vera indipendenza politica.

Gaza è il classico caso di sfruttamento coloniale nell’era post-coloniale. Le colonie ebraiche nei territori occupati sono immorali, illegali. Sono un ostacolo insormontabile alla pace. Sono allo stesso tempo strumento di sfruttamento e simbolo dell’odiata occupazione. A Gaza, i coloni ebrei erano soltanto ottomila nel 2005, a fronte di un milione 400mila nativi. Eppure quei coloni controllavano un quarto del territorio, il 40 percento della superficie coltivabile e facevano la parte del leone delle scarse risorse idriche. A gomito a gomito con questi stranieri intrusi, la maggioranza della popolazione locale viveva in condizioni meschine, in inaudita povertà. Ancora oggi l’ottanta percento vive con meno di due dollari al giorno. Le condizioni di vita nella Striscia rimangono un affronto ai valori della civiltà, un’importante causa scatenante della resistenza e un fertile terreno per il proliferare dell’estremismo politico.

Nell’agosto del 2005 il governo del Likud di Ariel Sharon ritirò unilateralmente i coloni da Gaza, richiamando tutti gli ottomila coloni e distruggendo le case e le fattorie che si lasciavano alle spalle. Hamas, il movimento di resistenza islamica, fu il protagonista della campagna che portò gli Israeliani a uscire da Gaza. Il ritiro fu un’umiliazione per le Forze di difesa israeliane. Sharon presentò al mondo il ritiro da Gaza come un contributo al processo di pace, basato sulla soluzione di due stati. Ma l’anno dopo, 12mila Israeliani colonizzarono la Cisgiordania, riducendo ulteriormente le dimensioni di uno possibile stato palestinese indipendente. Impossessarsi della terra e trattare la pace sono cose inconciliabili. Israele era in grado di scegliere, e scelse la terra invece della pace.

Il vero scopo di quella mossa fu quello di ridisegnare unilateralmente i confini di una Grande Israele inglobando le principali colonie della Cisgiordania nello stato di Israele. Il ritiro da Gaza, perciò, non fu affatto il preludio a un accordo di pace con l’Autorità palestinese, ma fu il preludio a un’ulteriore espansione sionista in Cisgiordania. Fu una decisione unilaterale di Israele presa in favore di quello che fu visto, erroneamente per conto mio, come l’interesse nazionale israeliano. Ben radicato in un rifiuto di fondo dell’identità nazionale dei Palestinesi, il ritiro da Gaza fu parte di iniziativa di lungo termine per negare al popolo palestinese un’esistenza politica indipendente sulla propria terra.

I coloni israeliani furono sì ritirati, ma i soldati di Israele continuarono a controllare tutti gli accessi alla striscia di Gaza per terra, per mare e per cielo. Gaza fu trasformata da un giorno all’altro in una prigione a cielo aperto. Da allora in avanti l’aviazione israeliana fu libera di sganciare bombe senza nessuna limitazione, di provocare boati sonici volando a bassa quota e rompendo il muro del suono, e di terrorizzare gli sventurati abitanti di questa prigione.

Israle si compiace di rappresentarsi come un’isola di democrazia in un mare di autoritarismo. Eppure Israele non ha mai fatto niente nella sua storia per promuovere la democrazia nei territori arabi, anzi a fatto molto per indebolirla. Israele collabora segretamente da lungo tempo con i regimi reazionari arabi per sopprimere il nazionalismo palestinese. Malgrado tutti questi ostacoli, il popolo palestinese riuscì a costruire la sola autentica democrazia del mondo arabo, con l’eccezione, forse, del Libano. Nel gennaio del 2006, libere e corrette elezioni per il Consiglio legislativo dell’Autorità palestinese portarono al potere un governo guidato da Hamas. Israele, però, rifiutò di riconoscere il governo democraticamente eletto, sostenendo che Hamas non è nient’altro che un’organizzazione terroristica.

Gli Stati uniti e l’Unione europea si unirono a Israele nell’emarginare e demonizzare il governo di Hamas e nel cercare di farlo crollare negando le entrate erariali e gli aiuti umanitari. Si creò così una situazione surreale: una parte significativa della comunità internazionale impose sanzioni economiche non contro l’occupante ma contro l’occupato, non contro l’oppressore ma contro l’oppresso.

Come spesso è accaduto nella tragica storia della Palestina, le vittime furono incolpate delle loro stesse disgrazie. La macchina propagandistica di Israele ha diffuso con insistenza l’idea che i Palestinesi siano terroristi, che rifiutino la coesistenza con lo stato ebraico, che il loro nazionalismo non sia nient’altro che antisemitismo, che Hamas sia soltanto un branco di fanatici religiosi e che l’Islam sia incompatibile con la democrazia. Ma la verità è che i Palestinesi sono un popolo normale con aspirazioni normali. Non sono migliori né peggiori di altri popoli. Ciò a cui aspirano è soprattutto un pezzo di terra per sé su cui vivere dignitosamente e liberamente.

Come altri movimenti radicali, le posizioni di Hamas sono diventate più moderate con la salita al potere. Dal rifiuto ideologico contenuto nel loro statuto, sono passati alla pragmatica soluzione di compromesso dei due stati. Nel marzo del 2007, Hamas e Fatah formarono un governo di unità nazionale pronto a negoziare un duraturo cessate-il-fuoco con Israele. Israele, però, rifiutò di negoziare con un governo che includesse Hamas.

Continuò a giocare al buon vecchio divide et impera tra fazioni palestinesi rivali. Verso la fine degli anni '80, Israele aveva sostenuto la nascente Hamas per indebolire Fatah, il movimento nazionalista laico guidato da Yasser Arafat. Adesso Israele ha iniziato ad incoraggiare i corrotti e plasmabili leader di Fatah a destituire i lori rivali politico-religiosi e a riprendersi il potere. Alcuni aggressivi neo-con statunitensi hanno partecipato al sinistro complotto per istigare una guerra civile palestinese. La loro intromissione è stata tra le maggiori cause del crollo del governo di unità nazionale e nel condurre Hamas a prendere il controllo di Gaza nel giugno 2007 per prevenire un colpo di stato di Fatah.

La guerra scatenata da Israele contro Gaza il 27 dicembre è stata l’apice di una serie di scontri e battaglie col governo di Hamas. Essa è però, in senso lato, una guerra fra il popolo palestinese e il popolo israeliano, perché la gente ha eletto il partito di Hamas. L’obbiettivo dichiarato della guerra è quello di indebolire Hamas e di fare sempre più pressioni affinché i suoi leader acconsentano a un cessate-il-fuoco alle condizioni di Israele. L’obbiettivo non dichiarato è quello di assicurare che i Palestinesi di Gaza siano considerati dal mondo solo come un problema umanitario, vanificando così la loro lotta per l’indipendenza e la creazione di un loro stato.

Il momento giusto per la guerra è stato determinato dall’opportunità politica. Le elezioni politiche sono in programma per il 10 febbraio e, nella corsa alle elezioni, tutti i principali concorrenti cercano di procurarsi l’opportunità di provare la loro durezza. Gli alti ufficiali dell’esercito scalpitavano per assestare un tremendo colpo a Hamas al fine di cancellare la macchia sulla loro reputazione provocata dalla guerra contro gli Hezbollah in Libano nel luglio del 2006. I cinici leader di Israele potevano contare pure sull’apatia e sull’impotenza dei regimi arabi filo-occidentali e sul cieco sostegno del presidente Bush in scadenza di mandato alla Casa bianca. Bush è subito corso a servizio degli Israeliani, scaricando la colpa della crisi su Hamas, ponendo il veto alle proposte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu di un immediato cessate-il-fuoco e dando il via libera a un’invasione terrestre di Gaza da parte israeliana.

(continua)

Fonte: http://www.guardian.co.uk
Link: http://www.guardian.co.uk/world/2009/ja ... -palestine
07.01.09
Stevin
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