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Frediano Manzi: ascesa e declino di un epigone dell’antimafia dei fatti
Frediano Manzi si è dato fuoco. Dopo uno sciopero della fame che l’aveva portato sulla soglia della tomba e un tentativo di suicidio, l’estremo gesto di disperazione di un uomo finito? O l’ennesimo tentativo di attirare l’attenzione su una situazione caduta nel dimenticatoio?
Ieri sera, poco dopo le 20.30, Frediano Manzi, fondatore dell’associazione Sos Racket e Usura, si è cosparso di benzina e si è trasformato in una torcia umana, davanti agli studi Rai, in corso Sempione, a Milano. Soccorso immediatamente da un tranviere, che gli ha svuotato addosso un estintore, Manzi ha riportato ustioni di terzo grado su braccia, torace e volto. Versa in gravi condizioni, in prognosi riservata, al reparto di terapia intensiva dell’ospedale Niguarda. Ma non è in pericolo di vita.
“Ho deciso di darmi fuoco per portare l’attenzione delle istituzioni su tutte le vittime dell’usura”. E’ l’incipit di un messaggio lasciato da Manzi all’interno degli studi Rai dove si era recato per un’intervista. Personaggio controverso, Manzi non è nuovo a gesti eclatanti, che mettono a repentaglio la sua vita.. Il 4 gennaio scorso si era tagliato le vene per le difficili condizioni economiche in cui versa tutt’ora. Al telefono con l’Ansa, aveva dichiarato di essere stato costretto a chiudere “2 attività commerciali. Per la ‘ndrangheta sono un morto che cammina”.
Nella primavera del 2012 si era barricato, con altri 2 imprenditori vessati dalla criminalità organizzata, sulla torre dell’acquedotto di Garbagnate Milanese, per protestare contro l’abbandono, da parte dello Stato, delle vittime di estorsione che denunciano i loro aguzzini. I 2, su consiglio di Manzi, avevano denunciato i loro estorsori che, per ritorsione, gli avevano fatto terra bruciata intorno. Non potevano più lavorare ma non potevano, nemmeno, accedere al fondo statale antiusura. E Manzi si sentiva responsabile per loro. In quell’occasione mi disse che aveva alle spalle 153 intimidazioni “tutte documentate dalle forze dell’ordine”. A fine marzo gli avevano sparato a un polpaccio e due giorni prima ad altezza uomo, mancando lo di 3 centimetri, “perché io non ho paura di fare nomi e cognomi”.
Molte delle denunce fatte dall’associazione di Manzi erano diventate dei fascicoli di indagine nell’ambito del racket delle case popolari, dell’usura e delle estorsioni a danno degli imprenditori del nord e degli intrecci tra mafia, in particolar modo la ‘ndrangheta, ed enti locali. Infatti, nel biglietto lasciato negli studi Rai, prima di darsi fuoco, tra le varie richieste, c’era, anche, quella di istituire una “commissione d’inchiesta sul caso Ferrigno“ (pare chiedesse favori sessuali dalle vittime di usura in cambio di agevolazioni della pratica) e “rimozione del presidente del Fondo nazionale antiusura”.
Numerosi, gli scioperi della fame e della sete, sempre per denunciare le storture e le inadempienze delle istituzioni a danno dei cittadini denunciatari e per sensibilizzare l’opinione pubblica su temi scomodi come l’usura, l’estorsione e il racket. L’ultimo della serie è stato nel novembre scorso, per protestare contro la Procura di Verbania che l’ha indagato per minacce gravi. L’associazione Sos Racket e Usura ha inviato mazzi di fiori a 21 sedi di Equitalia tra Lombardia e Piemonte, accompagnati dal biglietto “in memoria delle vostre vittime”. Manzi è stato indagato per quello inviato alla sede di Verbania.
Poi, la torcia umana, “per tutte le vittime d’usura che nessuno aiuta”. Perché un gesto tanto clamoroso? Eccesso di altruismo, folle autolesionismo o spregiudicato esibizionismo? Manzi, dopo la condanna, nel 2011, per un attentato al suo chiosco di fiori di Parabiago, in provincia di Milano, organizzato da lui stesso, e fatto passare per un atto intimidatorio nei suoi confronti, aveva perso credibilità, agli occhi delle forze di polizia, delle istituzioni e della stampa che l’aveva sempre appoggiato e seguito.
Nell’ultimo anno e mezzo Manzi era sempre più isolato. Gli unici a stargli accanto, a credere in lui è nelle sue lotte, i militanti di Forza Nuova, partito al quale è rimasto iscritto per quasi un anno. “Non pensavo arrivasse all’autolesionismo in questo modo”, conferma sconcertato Duilio Canu, Forza Nuova Milano, sezione da cui Manzi se n’era andato, formalmente, nel mese di novembre, accusando il partito di non dargli la visibilità necessaria. “Noi abbiamo i nostri ritmi, non possiamo trasformarli in un associazione monotematica”, continua Canu, “gli abbiamo sempre dato la nostra solidarietà, ma secondo lui Forza Nuova non si impegna abbastanza a fondo nella sua battaglia”. Nel tempo, Manzi era cambiato, “si era identificato con la sua battaglia, non era più Frediano Manzi ma la battaglia contro il racket”.
In queste ore, qualcuno di Forza Nuova, nonostante si fosse staccato anche da loro, è andato a trovarlo in ospedale. “Lo avevamo un po’ adottato. Era un personaggio ingombrante ma gli abbiamo sempre voluto bene”. “Il suo tormento più grande? Quello di non essere più creduto”.
Oggi, su Facebook, alcuni colleghi hanno fatto una sorta di mea culpa, ricordando tutte le volte che si sono serviti delle informazioni di Manzi per le loro inchieste, non ascoltando le sue richieste più recenti, delusi da quel tragico errore, fatto, forse, seguendo la filosofia machiavellica del fine giustifica i mezzi, per tenere costantemente accesi i riflettori su una tematica che per lui era vitale. A quanto pare, l’errore non gli è stato perdonato e l’ennesima alzata di testa di Frediano Manzi è finita in fondo alle pagine di cronaca.