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Milano è Gomorra

Milano è Gomorra

Messaggioda flaviomob il 19/11/2012, 2:11

Rifiuti, Milano come Gomorra
di Francesca Sironi

Discariche abusive, appalti fantasma, bonifiche mai eseguite. Ma soprattutto il monopolio delle mafie su tutte le attività di smaltimento. Il rapporto-choc che emerge da tre anni di lavoro della commissione d'inchiesta
(15 novembre 2012)

Discariche abusive, bonifiche mai eseguite, appalti fantasma, ma soprattutto il monopolio della mafia su tutte le attività di trasporto dei rifiuti.

E' il quadro che emerge da tre anni di lavoro della Commissione parlamentare d'inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti in Lombardia. Audizioni di prefetti, magistrati, imprenditori e politici raccolte in un rapporto che verrà pubblicato a fine mese, di cui 'l'Espresso' può dare un'anticipazione in esclusiva.

Ci saranno le ricostruzioni dei processi più celebri ai clan Barbaro-Papalia, Romeo-Flachi e Paparo, ma anche dati allarmanti sull'emergenza ambientale del bresciano e nuove informazioni sul sito d'interesse nazionale di Mantova.

Un quadro che ricorda Gomorra ma è ambientato a Milano, Como, Lodi, fra le verdi colline della Franciacorta e le pitture rupestri della Valcamonica, che minaccia i laghi del Nord e la salute di milioni di cittadini. Perché l'effetto di questi traffici non è solo lo strapotere dei clan: sono verdure alla diossina, acqua che non si potrà più bere, sorgenti radioattive scoperte sotto le case. Quindi, malattie. E un ambiente compromesso spesso in modo irrimediabile.

La Lombardia ha un primato: tutti i suoi comuni rispettano le direttive Ue e differenziano i rifiuti per più del 50 per cento, con alcuni paesi, soprattutto medio-piccoli, che superano ampiamente la metà. Una medaglia al valore macchiata dal business delle scorie speciali, pericolose e non, che da sole sono l'80 per cento di tutti i rifiuti che transitano in Lombardia.

Macchiata, perché il trasporto e il trattamento di questi scarti viene gestito con una sola regola: non rispettare le leggi. Fanghi velenosi versati sui campi, autostrade riempite con rifiuti non trattati, cave sommerse di amianto e metalli pesanti: secondo la Commissione queste attività, in Lombardia, sono semplice routine. Lo rivelano grandi e piccole inchieste su tutto il territorio: dallo scandalo della Perego strade di Como, che ha riempito con materiali non trattati anche il cantiere del nuovo ospedale Sant'Anna, a "piccoli" drammi ambientali come i 640 fusti da 200 litri di rifiuti tossici pericolosi scoperti dalla polizia in un capannone di Castiglione delle Stiviere.

In questo panorama non poteva che proliferare l'«anarchia organizzata» delle 'ndrine. Cinque indagini della magistratura, da 'Cerberus' a 'Isola', hanno portato alla luce un sistema monopolista di 'padroncini calabresi', utilizzati dagli imprenditori lombardi per il trasporto terra e il trasferimento e trattamento dei rifiuti. Il lavoro gestito dalle famiglie affiliate alla 'ndrangheta abbatte la concorrenza, proponendo prezzi stracciati, anche se in molte zone (Assago, Corsico, Buccinasco, ad esempio) sono talmente forti da far paura a chiunque, e possono determinare a loro piacimento prezzi e condizioni: «I nostri fornitori, ai quali vengono proposti lavori in Assago, si tirano indietro», racconta un testimone nel procedimento che ha portato all'arresto di otto esponenti di spicco delle famiglie Barbaro e Papalia.

Proprio quell'inchiesta portava alla luce anche l'ingresso inesorabile delle mafie nel mondo della politica. Arrivata all'apice col recente arresto dell'assessore regionale Zambetti, la cavalcata delle cosche calabresi era iniziata infatti con la conquista di comuni come Buccinasco, dove ormai le aziende affiliate ai clan erano arrivate ad intascare soldi pubblici anche per lavori mai commissionati.

...

http://espresso.repubblica.it/dettaglio ... ra/2195070


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Ed è anche Sodoma?

Messaggioda franz il 21/11/2012, 9:15

don Alberto Barin prometteva di dare parere favorevole alla scarcerazione
Il cappellano di San Vittore in manette
per violenza sessuale e concussione

Sei detenuti stranieri lo accusano: gli inquirenti hanno filmato le prestazioni sessuali a cui erano costretti. La Curia: sconcerto

MILANO - Il cappellano del carcere di San Vittore, don Alberto Barin, 51 anni, è stato arrestato per violenza sessuale continuata e pluriaggravata e per concussione. Sei detenuti stranieri lo accusano di aver richiesto loro prestazioni sessuali in cambio di favori, dal cibo alle condizioni di vita all'interno del carcere. Inquirenti e investigatori sono riusciti a piazzare nell'ufficio del cappellano all'interno del carcere una videocamera, e grazie a queste hanno documentato le violenze.

ABUSI DAL 2008 - Il cappellano costringeva i reclusi a soddisfare le sue richieste sessuali in cambio di beni materiali come sigarette, dentifrici; prometteva anche di dare parere favorevole alla scarcerazione. Tra la aggravanti contestate c'è quella dell'abuso di autorità. La prima denuncia era arrivata l'estate scorsa da un detenuto di etnia africana. I fatti contestati risalgono a un periodo di 6 anni, dal 2008 al 2012. Don Alberto Barin opera a San Vittore dal 1997.

«VICENDA TERRIBILE» - «È una vicenda terribile e noi abbiamo agito con grande prudenza quando ci siamo trovati a raccogliere la prima denuncia da parte del giovane africano accusato di reati contro il patrimonio il quale avendo subito violenza da un altro recluso spiegava a verbale che non si trattava della prima volta», dice il procuratore aggiunto di Milano Pietro Forno coordinatore del pool che si occupa di reati sessuali.

L'UFFICIO DEL CAPPELLANO - Lo scambio tra prestazioni sessuali e piccoli beni materiali o favori relativi alla vita di San Vittore avvenivano sia nell'ufficio del cappellano dentro la prigione, sia nell'abitazione alla quale si accede dall'esterno della struttura penitenziaria. Don Alberto dava anche pareri sulle scarcerazioni ai reclusi che «erano gentili» con lui. Una delle vittime prese di mira dal cappellano dopo essersi rifiutato di sottostare alle sue avances non è stato più convocato nell'ufficio del prete e non ha quindi più ricevuto i benefici che invece venivano elargiti ad altri detenuti. L'ordinanza di custodia è stata emessa dal gip Enrico Manzi. Don Alberto Barin è ora recluso nel carcere di Bollate, dove sarà interrogato nei prossimi giorni.

ALTRE VITTIME - Inquirenti e investigatori stanno facendo accertamenti per capire se ci siano anche altri detenuti che avrebbero subito abusi da parte del prete, oltre ai sei già individuati. Per gli inquirenti infatti, don Barin agiva sempre con lo stesso metodo, ossia facendo leva sulle necessità dei detenuti all'interno del carcere. Dall'inchiesta è emerso anche che uno dei sei detenuti, una volta scarcerato perchè aveva finito di scontare la pena, sarebbe stato chiamato dal religioso nella sua casa e lì sarebbe stato costretto nuovamente a subire abusi. Anche nella casa del cappellano gli investigatori avevano messo una videocamera per registrare le violenze.

LA CURIA - La Curia di Milano in un comunicato «esprime il proprio sconcerto e il dolore per l’arresto di don Alberto Barin e per i fatti che al cappellano della Casa circondariale di san Vittore sono contestati. Fin da ora manifesta la massima fiducia nel lavoro degli inquirenti e la disponibilità alla collaborazione per le indagini».

LA POLIZIA PENITENZIARIA - «La presunzione d'innocenza vale per tutti. È una notizia terribile quella dell'arresto con l'accusa di violenza sessuale e concussione di don Alberto Barin. Ci sconvolge perchè, in 17 anni di esercizio spirituale a San Vittore, non risultano mai pervenute segnalazioni rispetto alle gravi accuse formulate a suo carico». Lo ha dichiarato Donato Capece, segretario del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria.
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Re: Milano è Gomorra

Messaggioda flaviomob il 24/11/2012, 12:55

da: Il Fatto Quotidiano > Cronaca

Call center, affare ‘ndrangheta e il boss cita Cuccia: le azioni non si contano si pesano
All'alba 23 arresti tra Calabria e Lombardia. Nel mirino la potente cosca Bellocco. Nel 2011 ha conquisto un'azienda lombarda leader nel settore delle telecomunicazioni. A Rosarno intercettati le preparzioni di una faida con i Pesce e dove le donne insistono per "uccidere tutti anche le creature"
di Davide Milosa | 24 novembre 2012


L’ultimo affare: i call center. Sì perché quella della potentissima cosca Bellocco di Rosarno, è una ‘ndrangheta che diversifica. E se in Calabria i boss regnano da imperatori e preparano faide in cui, sentenziano le donne di mafia, a morire dovranno essere “tutti, anche i minorenni”, in Lombardia si dedicano al business. Legale e milionario. Come dimostra la vicenda della Blue call srl, azienda specializzata nella gestione di call center con il centro direttivo a Cernusco sul Naviglio e sedi operative in tutta Italia (anche in Calabria, naturalmente). Un’impresa florida che solo nel 2010 ha chiuso un fatturato da 13 milioni di euro, facendosi segnalare come leader del settore. Un gioiellino, dunque. Gestito da Andrea Ruffino, il quale, agli inizi del 2011, apre le porte a un emissario dei boss. Finirà per cedere le quote. Regalando ai boss un vero bancomat cui accedere in ogni momento, ma soprattutto la possibilità di controllare un ampio consenso sociale attraverso le assunzioni. Un’arma formidabile anche per la gestione di pacchetti elettorali. Insomma affari al nord e controllo del territorio al sud. Il tutto sulla rotta Rosarno-Milano e ritorno. Questa la fotografia scattata dalle procure di Reggio Calabria e Milano che all’alba di questa mattina hanno dato esecuzione a 23 arresti tra Calabria per associazione mafiosa e Lombardia per intestazione fittizia di beni, accusa quest’ultima aggravata dall’utilizzo del metodo mafioso. Tra questi anche i soci della stessa Blue call.

“LE AZIONI NON SI CONTANO, SI PESANO E LE MIE PESANO DI PIU’”

Per comprendere il disegno basta leggere i capi d’imputazione. A Rosarno la mafia è armata. Mentre a Milano, questa stessa ‘ndrangheta (ben diversa da quella rappresentata dall’inchiesta Infinito) non spara, usa il computer e si appoggia a veri e propri intermediari del crimine. Gente insospettabile che, come in questo caso, prende contatti e mette in comunicazioni gli imprenditori con i boss. Carlo Antonio Longo, originario di Galatro (Reggio Calabria), è, infatti, il referente dei Bellocco al nord. Mega villa in Svizzera, titolare di un’azienda edile (chiusa nel gennaio scorso) schermata da un limited londinese, Longo è un uomo di mafia, violento e deciso, ma è anche un broker, capace di trattare con gli imprenditori del nord. Talmente sottile da minacciarli, citando a memoria una delle storiche frasi di Enrico Cuccia, per decenni eminenza grigia della finanza italiana. Dirà Longo all’imprenditore: “Le azioni non si contano, ma si pesano, e le mie pesano di più!”. Gli uomini del Gico guidato dal comandante Nicola Bia, ascoltano queste parole il 16 settembre 2011, periodo in cui la ‘ndrangheta si accinge a fare il passo definitivo: prendersi tutta l’azienda che in quel periodo conta oltre mille dipendenti.

L’IMPRENDITORE: “HO PRESO LE BOTTE, QUEL BASTARDO, CON IL COLTELLO ANCHE”

L’atto finale solo quattro giorni dopo, quando Andrea Ruffino (anche lui destinatario di un mandato di cattura, ma attualmente irreperibile) convocato da Longo e soci nella sede operativa di Cernusco sul Naviglio. Nella saletta ci sono una decina di persone, gente vicina alla cosca Bellocco, persone assunte in società senza le minime credenziali. In questo momento Longo regola i conti o, come dice lui, “taglia i rami secchi”. L’imprenditore di Ivrea viene massacrato di botte, dopodiché, con il coltello puntato alla gola, verrà “convinto” a cedere tutte le sue quote a una società preparata ad hoc dalla ‘ndrangheta. Uscito da quell’incontro, la vittima chiama subito la sua fidanzata per sfogarsi. “Ho preso le botte (…) mi ha dato una botta che sento malissimo adesso. Quel bastardo, guarda. Con il coltello anche, guarda (…) quello che dovevo raggiungere l’ho raggiunto ma fanno schifo. Sono uomini di merda. Ti giuro non sto sentendo da un orecchio”. L’imprenditore è stato massacrato. Però è sollevato, perché ha ottenuto la promessa di un minimo pagamento delle sue quote. Pagamento, che, alla maniera calabrese, non arriverà mai. Le conversazioni dei giorni successivi confermano il quadro agli investigatori. Un impiegato delle sue società vedendo l’imprenditore con l’occhio pesto gli consiglia di andare in ospedale. “Sì – risponde – e cosa dico che Longo mi ha fatto un’estorsione”. Il vaso è pieno. Lo sfogo arriva subito dopo: “Basta con questa ‘ndrangheta – dice l’ex titolare della Blue call – che si pigliassero tutto”.

UMBERTO BELLOCCO, IL PICCOLO PRINCIPE DELLA ‘NDRANGHETA

Eppure, mesi prima, l’imprenditore piemontese non la pensava così. Tutto inizia nel dicembre 2011, quando Emilio Fratto, commercialista con conoscenze importanti in ambito mafioso, pensa di rientrare da un credito che ha con l’imprenditore piemontese proponendo l’ingresso di nuovi soci nella Blue call. In questo modo, lo stesso Fratto crede di potersi liberare di un debito a sua volta contratto con la cosca Bellocco. Succede tutto velocemente. “C’è da fare questa cosa”, dice Fratto a Longo che prende tempo e riporta la possibilità a Umberto Belloco, il giovane e capriccioso principe del clan, il quale entrerà con entrambi i piedi nella vicenda fino ad essere il regista ultimo e questo senza aver la minima professionalità. Farà di più durante la latitanza terminata nel luglio scorso – sarà arrestato a Roma nel luglio scorso – il giovane Bellocco, da fuggiasco, percepirà un regolare stipendio dalla Blue call, oltre naturalmente ai vari benefit per allietare la latitanza.

LA SCALATA ALLA SOCIETA’: QUESTIONE DI PANZA E DI PRESENZA

La vicenda, quindi, nasce per un debito-credito. L’imprenditore, del resto, non si oppone. Anche perché, emerge dalle indagini, già sotto scacco da uomini legati ai clan di isola Capo Rizzuto. Quello che appare chiarissimo è il metodo con cui la ‘ndrangheta prima entra e poi conquista l’azienda. Longo, introdotto da Fratto, e per conto dei Bellocco, porta in società una serie di persone fino ad aver, inizialmente, il 30%. Questo, però, è solo il prologo di una scalata rapidissima. Tanto che lo stesso Umberto Bellocco intercettato dice: “Tu pensa che dove lavoro io ci sono 40 ragazzi…45…A Cernusco gestisco un Call-Center”. Insomma, il progetto mafioso va a gonfie vele e a costo zero. Longo è chiarissimo: “I soldi noi non li abbiamo messi”. E dunque? Prosegue: “Io non metto niente io prendo”. I Bellocco dunque cosa mettono. “La presenza – ribadisce Longo – panza e presenza”. L’espressione tipicamente mafiosa viene tradotta dagli investigatori: “I Bellocco, una volta entrati a far parte della società con un quota minoritaria (30%), stavano cercando di acquisirne il controllo con metodologie che facevano leva solo sul potere di intimidazione derivante dalla loro appartenenza alla ‘ndrangheta”. Panza e presenza appunto. Tanto basta “per prendersi il lavoro di una vita”, si sfoga così uno dei soci della Blue call. “Non è solo, il futuro dell’azienda (….) Stai sotto scacco per tutta la vita! Come dici tu: Non c’è via d’uscita , questi qua… E’ impossibile, capito. Oggi vogliono questo e domani cosa vogliono!? … E dopodomani cosa vogliono, scusami”.

“LORO SONO COME DIO CHE POSSONO DECIDERE TUTTO”

Ruffino un po’ intuisce, un po’ no. Addirittura pensa di estromettere i calabresi, liquidando la loro parte. Non sarà così, naturalmente. E Fratto lo avverte fin da subito: “Per il resto dei nostri giorni non ce li togliamo più dai piedi. Tu pensa di giocare, con loro, sulla lama del rasoio: poi, quando ti tagli, ti renderai conto delle mie parole (…) Io ti sto dicendo che questa razza la conosco, tu no”. L’imprenditore, dunque, sta giocando con il fuoco. Però insiste: “La morte – dice – non è il peggiore dei mali”. Fratto è chiarissimo: “Tu sei un pazzo”. E allora l’altro chiede: “Loro sono come Dio che possono decidere che tutte le persone muoiono no?”

L’imprenditore agganciato sa ma non si sgancia. Diventa complice. Ne è consapevole Ruffno che dice: “Io non voglio andare avanti con queste persone (…) stiamo puliti (…) e non rischiamo nessun 416bis”. Quindi ancora parole in libertà sul come liquidare questi calabresi. “Guarda io ho più soluzioni (…) mi sono rotto i coglioni io voglio stare separato perché voglio comandare io”. Tanto coraggio viene smorzato da una telefonata di Longo, il quale durante le festivita pasquali fa gli auguti a Ruffino. “Volevo salutarti (…) come stai (…) Insieme e alla tua famiglia, tanti auguri…Buona Pasqua, capito, fai una buona Pasqua e vivi felice e contento”.

SCHERMI SOCIETARI E ASSET MAFIOSI

Nonostante tutto l’imprenditore prosegue nel tentativo di liberarsi dei calabresi. Consapevole della mafiosità dei suoi interlocutori, ma ancora non del tutto consapevole della loro intelligenza criminale, chiude la Blue call e splitta l’intero assett (call center e immobiliare) su due società: la Future srl e la R&V. Nel frattempo, però, la ‘ndrangheta ha già creato una sua società schermo, la Alveberg con sede a Milano in via Santa Maria alla porta. Tra i soci c’è la anche la fidanzata di Longo. E’ dentro questa srl che confluiranno tutte le quote dell’imprenditore, dopo il pestaggio del 20 settembre.

NELLA FAIDA UCCIDERE ANCHE DONNE E BAMBINI

Questa è la ‘ndrangheta che colonizza Milano. Una ‘ndrangheta violenta e vorace. Capace di prendersi un’azienda da 13 milioni di fatturato senza fare rumore. E di progettare una faida dove coinvolgere anche donne e bambini. L’incredibile vicenda è narrata nella parte calabrese dell’inchiesta. E nasce da due omicidi di affiliati alla cosca. I sospetti ricadono sul clan pesce, un tempo alleati con i Bellocco. Tanto che il giovane erede del casato mafioso dice, intercettato, “Rosarno è nostro e deve essere per sempre nostro…sennò non è di nessuno”. Il rischio di una faida è concreto. Tanto che Umberto ne parla con la madre Maria Teresa D’Agostino. “Una volta – dice la donna – che partiamo, partiamo tutti, una volta che siamo inguaiati, ci inguaiamo tutti….dopo, o loro o noi o noi, vediamo chi vince la guerra, dopo…pure ai minorenni”. E ancora: “Pari pari, a chi ha colpa e a chi non ha colpa, non mi interessa niente…e femmine”.


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Polvere di stelle

Messaggioda flaviomob il 27/03/2013, 8:50

‘Ndrangheta a Milano, la cosca Pelle e la centrale della cocaina in piazza Bernini

La notte tra venerdì e sabto 23 marzo 2013, le serrande del lounge bar Stardust sono state colpite da cinque proiettili. Due giorni dopo il locale doveva essere comprato da un imprenditore milanese. Ex titolare è Giovani Scipione legato alle cosche di San Luca
di Davide Milosa | 26 marzo 2013

Cinque colpi di pistola contro le serrande di un locale in piazza Bernini a Milano. L’ultimo capitolo dell’infiltrazione mafiosa nel cuore dell’ex capitale morale d’Italia riparte da qua. Dalle tre vetrine dello Stardust. E da quei fori di grosso calibro penetrati all’interno fino a mandare in frantumi le vetrate del bancone di questo lounge bar di lusso. Il locale è stato chiuso circa un anno fa, dopo che uno dei suoi titolari è inciampato in un’indagine su un massiccio traffico di droga coordinato da Angelo Antonio Pelle, originario di San Luca, legato alla famiglia Giorgi, a sua volta coinvolta nella strage di Duisburg del 15 agosto 2007. ‘Ndrangheta ai massimi livelli, che, stando alla ricostruzione fatta dalla squadra Mobile di Roma e dal Ros di Milano, sotto la Madonnina aveva la sua centrale della cocaina. Qui la polvere arrivava dal Sudamerica per poi scendere verso la Capitale.

L’indagine romana si chiude nel maggio del 2012 con 40 arresti. Parallelamente a Milano indaga il Nucleo operativo speciale all’epoca comandato dal colonnello Alessandro Sandulli. Obiettivo: fotografare gli interessi delle cosche di San Luca in riva al Naviglio. In questo modo i militari arrivano in piazza Bernini davanti allo Stardust. E non a caso. Visto che uno degli ex soci del locale con una quota del 20% è Giovanni Scipione, nato a Locri nel 1981, ma residente a Milano in via Andrea Costa. Scipione sarà arrestato dalla squadra Mobile di Roma perché organico al cartello dei narcos calabresi con un ruolo preciso: “Offrire rifugio e assistenza logistica ai latitanti, mettere a disposizione schede telefoniche e auto a noleggio, da usare per i trasporti”. E infine “curare la gestione della ricezione della cocaina e del successivo smistamento delle partite nel mercato illecito”. Capo d’imputazione sostanzialmente identico per il fratello Santo Rocco, anche lui residente in via Andrea Costa. I due risultano nipoti di Santo Scipione, alias papi, classe ’33 oggi latitante. L’anziano trafficante inoltre risulterà in costante contatto con Angelo Antonio Pelle. Per chiudere il quadro ecco le parole del giudice per le indagini preliminari Massimo Di Lauro. “Nel capoluogo lombardo, Angelo Pelle ha sfruttato la disponibilità dei due fratelli Scipione”.

E così mentre nella Capitale, la squadra Mobile comandata di Vittorio Rizzi scrive la mappa delle piazze di spaccio, al nord i carabinieri riannodano rapporti e contatti. Intercettazioni, tabulati telefonici e servizi di appostamento delimitano la zona della città, compresa tra via Padova, via Porpora e piazzale Loreto. Una fetta di Milano che in passato ha fatto da sfondo agli affari criminali del boss Giuseppe Onorato regolati ai tavolini dell’Ebony bar di via Ampere. Stessa strada dove abita il siciliano Giuseppe Bellinghieri, alias Pippo l’americano, il quale tiene i rapporti tra Pelle e i fratelli Scipione. Nel 1998 viene coinvolto in un traffico di auto di grossa cilindrata. All’epoca la squadra Mobile di Milano annota: “Giuseppe Bellinghieri, personaggio scaltro e intelligente, dalla spiccata proclività a delinquere, ritenuto appartenente ad un’associazione a delinquere di stampo mafioso per i suoi assidui contatti con Angelo Epaminonda”. E ancora: “Il 27 giugno 1991 personale del I Commissariato di Roma lo sottopose a controllo di Polizia unitamente al pregiudicato Salvatore Contorno, noto esponente della mafia siciliana”.

Via Ampere, via Andrea Costa, non distante piazza Bernini e lo Stardust. Questa la geografia delle potenti cosche di San Luca a Milano. Geografia ancora parziale visto che dopo gli arresti di Roma, anche il Ros sospende le proprie informative. Agli atti, però, restano i dialoghi catturati da una microspia piazzata nell’appartamento milanese degli Scipione. All’interno della casa, gli investigatori trovano il passaporto di Rocco Santo Scipione. Annotano: “Attraverso l’esame del timbro apposto dall’Ufficio Immigrazione, si rilevava che lo stesso era rientrato in Italia in data 29.05.2010, proveniente dalla Colombia”. Di più: al civico 33 di via Andrea Costa troverà alloggio Angelo Pelle, durante il periodo della sua latitanza, ma anche Luigi Martelli, luogotenente del boss incaricato di coordinare il traffico di droga tra Roma e la Calabria.

L’ultimo capitolo di questa storia (ancora tutta da scrivere) si chiude così tra la sera del 22 marzo e la mattina del 23 marzo 2013. Poco dopo le tre, la custode del palazzo di piazza Bernini viene svegliata da quelli che lei pensa siano petardi. Sono, invece, colpi di pistola. Cinque, tutti contro la serrande di sinistra dello Stardust. La scoperta sarà fatta solo il lunedì successivo, quando davanti al locale si presentano i due nuovi acquirenti, padre e figlio che vogliono rilevare il locale dal vecchio titolare, una donna sudamericana che dopo averlo preso non lo ha mai aperto. Impossibile, però, sapere perché. Certo le coincidenze degli spari due giorni prima dell’arrivo dei nuovi compratori insospettiscono e non poco la polizia che ben conosce il passato criminale dello Stardust.

(Il Fatto)


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Re: Milano è Gomorra

Messaggioda flaviomob il 11/06/2013, 10:13

E adesso mano libera all’invasione

Passata la tempesta Ambrosoli, le classi dirigenti lombarde tornano a ficcare la testa sotto la sabbia di fronte all’invasione mafiosa. Abbandonando i giovani che lottano per difendere da mafia e ‘ndrangheta la Regione

La sconfitta di Umberto Ambrosoli e il centrosinistra in Lombardia è (anche) una sconfitta dell’antimafia lombarda. Inutile negarlo; peggio ancora fingere di non volerlo analizzare perché sarebbe troppo totalizzante, secondo alcuni. Non c’è cultura antimafiosa nel formigonismo, non ce n’è nel percorso ciellino che ha demolito la meritocrazia nel mondo della sanità e non ce n’è nella Lega Nord che in Consiglio Regionale in passato ha negato l’istituzione di una Commissione Antimafia archiviandola con un sorriso di sufficienza.

Poi c’è stato Maroni, e su Maroni si è scritta una certa letteratura (figlia di un berlusconissimo revisionismo e di una neodeclamazione dei numeri e degli arresti) che l’ha avvicinato a rappresentazione di “antimafioso nonostante Berlusconi”.

Sarebbe inutile elencare per l’ennesima volta solamente le colpe storiche del movimento leghista che è passato dal latrato antiberlusconiano con la foto di Dell’Utri in prima pagina de ‘La Padania’ alla convivenza sopita fino alla connivenza più spietata nell’ultimo periodo del Governo Berlusconi (quello contro la magistratura, la trattativa, il reato di concorso esterno, lo scudo fiscale e troppo altro ancora). Eppure la verginella Maroni è riuscita a scrollarsi di dosso le gocce della melma e ripresentarsi candido, candidabile e perfino nuovo Governatore della regione cameriera delle mafie, ‘ndrangheta in primis: la sfiorita Lombardia.

C’è stata in campagna elettorale la solita desolante sensazione di un centrosinistra applicato ad un’antimafia di “maniera” che si è ritenuta sazia dell’avere candidato il figlio dell’avvocato Ambrosoli. Troppo facile – si diceva – vincere contro una parte politica decaduta dal governo regionale sotto le accuse di uno scambio mafioso di voti. Troppo facile – pensavano. E pensavano male.

Tant’è che mentre nel sottobosco lombardo si vive una primavera di giovani attivi, preparati e consapevoli (vengono in mente i ragazzi di Stampo Antimafioso, per fare un esempio) il centrosinistra ha balbettato qualche ovvietà di cortesia sulla mafia che è brutta, sporca e cattiva poi qualche pensierino di memoria e carità e speravano che bastasse così. E non è bastato.

Alla fine nella Lombardia leghista qualche giorno fa Bobo Maroni ha comunque deciso di istituire una Commissione Antimafia (ex post, si direbbe) aprendo uno spazio di azione possibile. Verrebbe da pensare che i partiti (tutti i partiti) con il centrosinistra in testa colgano l’occasione per scaldare i propri uomini migliori e per chiedere ad Umberto Ambrosoli di guidare la praticata diversità e discontinuità conclamate tante volte su questo tema, ci si aspetterebbe un “tirare su le reti” delle esperienze sociali di tutti questi anni per cogliere l’eccellenza. E invece? E invece le nomine che trapelano non prevedono Ambrosoli e nemmeno un piano a lunga scadenza. E tutti qui ci auguriamo che non sia così. Perché perseverare è diabolico, no?

http://www.isiciliani.it/e-adesso-mano- ... bbbfti5bAI


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Caffè (s)corretto

Messaggioda flaviomob il 20/06/2013, 0:46

Beviti un caffè mafioso a Rho

A Rho il caffè è corretto ‘ndrangheta.

Gli arresti di questa mattina nei confronti di uomini appartenenti alla cosca di ‘ndrangheta ‘Acri-Morfo’ disegnano un quadro (e le caratteristiche allarmanti) di cui ci spesso abbiamo voluto parlare.

Al solito c’è la politica: tra gli arrestati c’è anche il consigliere comunale Ivan Nicoletti, del Pdl, posto ai domiciliari. Tra i reati contestati ad alcuni degli arrestati c’è anche quello di violenza e minacce per costringere gli elettori ad esprimere il loro voto per uno specifico candidato. In particolare, secondo quanto ricostruiscono gli inquirenti, in occasione delle elezioni comunali del 2011 alcuni componenti della cosca di ‘ndrangheta avrebbero avvicinato numerosi elettori, raggiungendoli anche nelle loro abitazioni, costringendoli ad accordare la loro preferenza elettorale in favore di Ivan Nicoletti, avvocato e candidato al Consiglio comunale tra le fila del Pdl. Nicoletti è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Gli inquirenti ritengono che Nicoletti avesse stretti legami con esponenti della cosca, ed in particolare con Isidoro Morfò. Dalle indagini è emerso anche che un elettore di Rossano è stato picchiato per costringerlo a votare per Nicoletti. Quest’ultimo, secondo gli inquirenti, durante la campagna elettorale si sarebbe più volte informato con gli esponenti della cosca circa il procacciamento dei voti. Stamane la Dda di Catanzaro ha compiuto anche una perquisizione nei confronti di Nicoletti.

Poi c’è il calcio: con la società calcistica ’Ssc Rossanese’ utilizzata per ripulire denaro sporco, con l’aiuto “liquido” del proprietario di un distributore di benzina non troppo lontano dallo stadio.

E poi ci sono le forniture ai bar: la cosca imponeva agli stabilimenti balneari, ai bar e ad altre attività commerciali di utilizzare principalmente il ‘Pellegrino Caffe« oppure, in sostituzione, il ‘Jamaican Caffe» o ‘Pi.gi Caffe«. In alcuni casi, in modo particolare per i distributori automatici, la cosca obbligava i gestori a mescolare le miscele di caffè. Attraverso una stretta alleanza tra la cosca Acri e quella Farao-Marincola di Cirò Marina (Crotone) la distribuzione del ‘Pellegrino Caffe» era stata estesa e ‘favorita’ anche ad alcuni esercizi commerciale del nord Italia, in particolare nella zona di Rho, dove ci sarebbe una forte influenza della famiglia di ‘ndrangheta del crotonese. Da numerose intercettazioni telefoniche è emerso anche che i componenti della cosca organizzavano il reinvestimento dei proventi della vendita del caffè predisponendo l’acquisto di attività commerciali, in particolare gelaterie, anche negli Stati Uniti.

Quante volte abbiamo ripetuto che le forniture ai bar (che siano caffè o videopoker) che risponde a logiche territoriali e non di mercato è il sintomo più evidente di un controllo mafioso di quel mercato nel territorio?

Ecco. Appunto.

- Gli arresti -

Nicola Acri, 34 anni, nato a Sondrio ma residente a Rossano, già detenuto, considerato uno dei capi del gruppo criminale;
Maurizio Barilari, 44 anni, di Corigliano, già detenuto;
Sergio Esposito, 43 anni, di Rossano, già detenuto;
Giuseppe Ferrante, 30 anni, di Rossano, già detenuto;
Salvatore Galluzzi, 37 anni, già detenuto;
Gennarino Acri, 31 anni, fratello del presunto boss Nicola, di Rossano;
Gianluca Fantasia, 38 anni, di Cosenza;
Roberto Feratti, nato a Vittoria (Rg) ma residente a Vigevano (Pv), 56 anni;
Massimo Graziano, 34 anni, di Rossano;
Isidro Morfò, 32 anni, di Rossano;
Salvatore Morfò, 56 anni, nato a San Demetrio corone ma residente a Rossano, considerato il presunto capo del gruppo assieme a Nicola Acri;
Luigi Polillo, 31 anni, di Rossano;
Sergio Sapia, 53 anni, di Rossano;
Gaetano Solferino, 34 anni, di Rossano;
Orazio Acri, 48 anni, di Rossano;
Arianna Calarota, 34 anni, nata a Castrovillari ma residente a Rossano;
Salvatore Cropanise, 35 anni, nato a Corigliano Calabro ma residente a Rossano;
Espedito Donato, 47 anni, nato a Rossano ma residente a Gambolò (Pv);
Vincenzo Interlandi, 54 anni, nato a Ragusa ma residente a Gambolò (Pv);
Domenico Morfò, 28 anni, di Rossano;
Lucia Morfò, 34 anni, di Rossano,
Ivan Nicoletti, 37 anni, nato a Corigliano ma residente a Rossano, avvocato e consigliere comunale;
Antonio Ruffo, 40 anni, di Rossano.

Nel corso dell’operazione i militari hanno pure eseguito il sequestro preventivo di 25 beni beni mobili, 17 società, 45 rapporti bancari, 45 autovetture e 7 polizze assicurative, per un totale di cita 40 milioni di euro.

http://www.giuliocavalli.net/2013/06/20 ... fioso-rho/


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