“Caro Monti, come lei ben sa, il Gruppo Fiat Automobiles ha la vocazione di fabbricare auto di media qualità, le vende dove se le comprano e le produce dove le vende, non potendo essere altrimenti. Non pretende di gareggiare con chi fa auto di maggior pregio. Se gli italiani si sentono cresciuti e sono diventati pretenziosi, magari restando pezzenti, se non hanno più soldi per comprare un’auto nuova ma volendola comprare preferiscono una tedesca o una giapponese, facciano pure, ma non dicano che è Fiat a essere ingrata se se ne va”.
Con queste parole sincere temo possa esordire l’a.d. della Fiat nell’incontro a Palazzo Chigi. Dico “temo”, perché sarebbe un discorso distruttivo.
Meno probabile mi sembra
un altro discorso del tipo: “Caro Monti, il Gruppo Fiat Automobiles ormai è una multinazionale che alloca le fasi della sua attività là dove esiste una più conveniente disponibilità di risorse materiali, lavorative, creditizie. Oggi il divario di competitività dell’Italia è ancora forte, siamo al 40° posto su 59 paesi, grazie a lei abbiamo recuperato due posizioni, ma siamo ancora indietro in mercato del lavoro, finanza pubblica, politica fiscale, infrastrutture di base. Con questi problemi strutturali e questo ritmo di recupero, altro che Monti bis, bisognerebbe arrivare a un Monti decies prima che una multinazionale torni ad aprire qualche fabbrica in Italia.
Nel frattempo chissà quante ne saranno state chiuse”. Questo secondo discorso avrebbe il merito di schiudere le porte a una prova d’appello, se il governo Monti volesse quanto meno elaborare un progetto sistemico di recupero di competitività. Ma lo considero meno probabile perché implicherebbe una propensione di Marchionne a fare per così dire politica. Inoltre, un simile ruolo di pungolo solleciterebbe decisioni governative correttive della struttura che nella storia del nostro paese solo istituzioni comunitarie o mondiali sono riuscite a imporre. In questo caso, Marchionne fungerebbe da vincolo (semi)esterno. È vero che un po’ già l’ha fatto nei confronti del sindacato mesi fa e potrebbe anche ripeterlo con il governo, ma è vero anche il contrario e cioè che si deve essere tanto pentito che non ci pensa proprio a ripetere e aggravare quell’errore.
C’è poi un terzo discorso possibile, il più disastroso: “Caro Monti, noi ce ne andiamo dall’Italia a meno che non ci diate i fattori produttivi alle stesse condizioni dei paesi benchmark, non recuperando competitività, non sareste capaci e ci vorrebbe troppo tempo, ma addossando allo Stato ogni aggravio di costo, dal lavoro all’energia, dal credito al fisco”. Lo considero il più disastroso, perché ciò è proprio quanto alcuni ministri stanno già promettendo a chi si dica disponibile a comprare l’Alcoa, premendo sull’Enel o sulle banche, dimostrando di prediligere per mentalità il mero esercizio del loro potere industriale a una paziente e ben più faticosa opera di ripristino delle condizioni di appetibilità intrinseca del business. Equivale a una spalmatura del fardello sulle spalle di tutti, anche degli artigiani che chiudono bottega. È il contrario di fermare il declino. Una simile deriva travolgerebbe definitivamente questo nostro povero paese, perché nel 99 cento dei casi la pancia degli imprenditori italiani non sopporta la Fiat, ché in passato ha drenato e gli ha sottratto le agevolazioni pubbliche. Nel 99 per cento dei casi, gli imprenditori vorrebbero che questa fiscalizzazione tombale il governo la desse a loro non alla Fiat che ha già avuto.
E gli italiani che ne pensano? Paradossalmente, quelli che a nostro avviso sono i due principali meriti del governo Monti, l’essere cioè riuscito a radicare nella testa della gente la consapevolezza di come stanno davvero le cose in Italia e ad aprire le menti a pensare internazionale, giocano non dico a favore, ma quanto meno a comprensione della ruvidezza della posizione di Marchionne.
Pubblicato: Dom, 23/09/2012 - 13:15 • da: Riccardo Gallo
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