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Breve analisi delle spese statali

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

Breve analisi delle spese statali

Messaggioda franz il 07/04/2012, 9:11

Di Marco Esposito

Sul sito del Governo è disponibile il rapporto, stilato dal Ministro dei Rapporti con il Parlamento Piero Giarda, riguardante la spesa pubblica in Italia. La pubblicazione è del maggio 2011, quando Giarda non era ministro, e non indica alcuna soluzione al tema della eccessiva spesa pubblica, se non per linee generali. Probabilmente è adesso sul sito del Governo per far vedere che la voce “spesa pubblica” sarà esaminata, sia pur dopo quella “tasse nei denti fino a romperli”.

Ma alcune conclusioni sembrano possibili, al di là del chiacchericcio di chi non ha letto (o capito?) di cosa si parla quando Giarda afferma che 100 milardi di euro sono sotto l'occhio della ''spending review''. Esaminiamo quindi cosa dice il rapporto, che è diviso in tre parti: la prima, la più corposa, è incentrata sulla storia della spesa pubblica in Italia dal 1951 al 2010.

La spesa pubblica italiana è passata, come incidenza sul PIL, dal 23,6 % del 1951 al 51,2% del 2010, passando per il massimo del 56,6 % (sic) del 1993. Andando a vedere la spesa pubblica al netto degli interessi sul debito (la spesa primaria) si parte dal 22,5 del 1951 per arrivare (senza top, ma con solo un rallentamento nel 1995-1997) al 46,7 % del 2010. La prima tabella che vi riporto è quella di pag. 9 della relazione che riguarda l'evoluzione della composizione della spesa pubblica nel tempo.

Su NfA testo, tabelle e dibattito http://noisefromamerika.org/articolo/ta ... asso-basta
Qui il rappoto citato: http://www.governo.it/rapportiparlament ... _spesa.pdf

In particolare si sottolinea quanto scrive Giarda:

Ponendoci una domanda che non ha un grande contenuto operativo, ma che stimola qualche riflessione , ci si può interrogare:

“se i prezzi dei beni di consumo collettivo (i deflatori costruiti dall’ISTAT ai fini della costruzione dei quadri di contabilità nazionale a prezzi costanti) fossero cresciuti negli ultimi 40 anni con la stessa velocità dei prezzi dei beni di consumo privati (come rilevati dall’ISTAT), quale sarebbe stata la spesa per i beni di consumo collettivo prodotti nel 2010 ?”

La risposta a questa domanda è molto agevole dal punto di vista numerico ed è la seguente:

“la spesa per consumi collettivi nel 2010 sarebbe risultata pari a 236,5 miliardi di euro, contro l’importo di 328,6 miliardi rilevato per le spese effettivamente sostenute, con una differenza in meno di 92,1 miliardi di euro”


Prosegue Esposito:

Ovvero se la spesa dello stato, al di là della componente pensionistica, fosse aumentata in linea con l'inflazione avremmo 92 miliardi di spesa in meno nel 2010, rispetto alla base del 1970, che comunque non era bassa. Poiché i “processi produttivi” del settore pubblico non sono soggetti a particolari innovazioni tecnologiche, ma solo al diritto amministrativo che non è praticamente mai cambiato, gli aumenti di spesa sono da riferirsi praticamente solo alla componente salariale, senza alcun riferimento alla produttività e/o all'efficienza.

Giarda inoltre rileva che di questi 328 miliardi di euro una parte consistente (circa 97 miliardi) non deriva da scelte “politiche”, ma da automatismi di legge, perché sono contributi pensionistici figurativi, imposte indirette e ammortamenti (pag. 29). Ciò significa che le possibilità di compressione della spesa pubblica non pensionistica andrebbe vista sul valore di 230 miliardi di euro, pari al 40 % della spesa pubblica, mentre la percentuale più significativa è proprio sulla spesa pensionistica e assistenziale, che contribuisce con il 45% alla spesa pubblica, sul valore ricalcolato di 230 miliardi. È interessante notare, come fa Giarda, che in Italia esistono 22 milioni di pensioni, ma non di pensionati, difatti ci sono 4 pensioni ogni 3 pensionati. Infine, è utile notare che la spesa pubblica al netto di interessi e spesa pensionistica assistenziale è attualmente divisa in modo quasi paritario (52%-48%) fra Amministrazione Centrale dello Stato e Enti Territoriali (regioni, province comuni). Le percentuali nel 1980 erano invece 61 % Stato Centrale, 39 % Enti Territoriali.

Questo breve excursus (riassunto di un riassunto) ci porta adesso a delle considerazioni. Cosa produce lo Stato italiano ? Essenzialmente è un'azienda che offre servizi di vario tipo, con due grossi centri costo: Pensioni /Assistenza e Beni di Consumo Pubblici, al cui interno la parte del leone la fanno Sanità e Istruzione, con una percentuale significativa (quasi il 10%) l'ordine pubblico. Abbiamo visto come la spesa per Beni di Consumo Pubblico sia costantemente aumentata nel tempo, anche al netto dell'inflazione, e con una dinamica di costi crescenti a confronto di costi decrescenti nel settore dei beni privati. Questo sovra-costo è stato pagato con l'aumento della tassazione e del deficit. Ricordo peraltro che all'interno della categoria “Beni di Consumo Pubblici” il traino è avvenuto sulla spesa sanitaria (invecchiamento della popolazione) a scapito dell'istruzione (non è un paese per giovani), oltre all'esplosione delle spese ambientali. Sulla spesa pensionistica mi accodo al pensiero di Giarda: “la giungla delle pensioni”, con la nota (di Giarda, non mia) che le pensioni del settore pubblico sono mediamente più alte di quelle del settore privato e quelle dei maschi più alte di quelle delle femmine. Ancora è da notare il calo delle spese “in Conto Capitale”, oramai ferme e ridotte praticamente al solo pagamento delle annualità di mutui accesi per finanziare opere già realizzate. Infine lo spostamento dei costi dal Centro alla Periferia ha comportato un forte aumento delle “spese generali”, incluso l'aumento del “costo della politica” con il proliferare di istituzioni e organi pubblici a livello locale.

Le considerazioni finali di questa parte del paper sono le seguenti:

La spesa pubblica è stata quasi sempre, a partire dall’inizio degli anni sessanta, strumento di contrasto alle fluttuazioni nello sviluppo del reddito, sia attraverso i meccanismi incorporati nelle leggi di spesa (gli stabilizzatori automatici), sia per effetto di esplicite decisioni politiche assunte nel durante delle fasi di recessione. C’è qualche evidenza che una parte di queste decisioni, operando su componenti permanenti della spesa, abbia comportato un innalzamento permanente dei livelli di spesa pubblica e quindi dei suoi tassi di crescita di lungo periodo.


Le pagine 35 e 36 le ritengo incomprimibili, le riporto per intero, essendo un Bignami dell'analisi dei costi e degli sprechi in ambito aziendale privato, rapportata al settore pubblico:

Si ipotizzi, in via di esempio, che in un settore di attività pubblica esistano uno o più modi diversi per realizzare il prodotto o l’obiettivo proprio dell’attività finanziata con la spesa.

NELLA PRODUZIONE DI SERVIZI PUBBLICI

Sprechi di Tipo 1. Utilizzo di fattori produttivi in misura eccedente la quantità necessaria. E’ questo il caso quando due impiegati vengono utilizzati per fare un lavoro per il quale uno sarebbe sufficiente, oppure quando una macchina costosa e ad alto potenziale viene sistematicamente sotto-utilizzata.

Sprechi di Tipo 2. Acquisto di fattori produttivi pagando prezzi superiori al prezzo di mercato o all’effettivo valore. A titolo di esempio, si può citare il caso, più volte riscontrato nell’acquisto di farmaci, che diverse aziende sanitarie pagano prezzi diversi per lo stesso prodotto.

Sprechi di Tipo 3. Adozione di tecniche di produzione sbagliate rispetto ai prezzi dei fattori produttivi impiegati e quindi produzione a costi superiori al costo necessario. Nella produzione pubblica c’è una tendenza inarrestabile ad utilizzare, tra le diverse tecniche di produzione disponibili, quelle che si caratterizzano per la più alta intensità di lavoro.

Sprechi di Tipo 4. Utilizzo di modi di produzione antichi, chiaramente più inefficienti (e quindi più costosi) di quelli che si avrebbero utilizzando le tecnologie più avanzate e innovative. Ciò è notoriamente associato all’incapacità delle strutture pubbliche di investire ed innovare nelle tecnologie di produzione utilizzate.

Sprechi di Tipo 5. Utilizzo di modi di produzione che impiegano fattori di produzione incompatibili tra di loro, ad esempio lavoro non specializzato applicato al funzionamento di macchine innovative ed evolute.

NELLE POLITICHE REDISTRIBUTIVE

Sprechi di Tipo 6. Errata identificazione dei soggetti meritevoli di essere sostenuti nei programmi di sostegno del reddito disponibile. In questo caso i modi di produzione (le procedure di selezione o ammissione), si caratterizzano per spreco e inefficienza.

In molti dei tipi di spreco elencati finora, la spesa potrebbe essere ridotta senza causare riduzione dell’offerta di servizi. In altri casi, come il numero 4, l’eliminazione delle inefficienze nella parte corrente, richiederebbe aumenti della spesa in conto capitale per il rinnovo dei mezzi di produzione.

NELLA ESECUZIONE DI INVESTIMENTI PUBBLICI

Sprechi di tipo 7. La progettazione di opere incomplete, il mancato completamento di opere iniziate, i tempi di esecuzione molto superiori ai tempi programmati. A queste tipologie si possono aggiungere la progettazione di opere di dimensione eccessiva rispetto alla capacità realisticamente sfruttabile, a volte eseguite con materiali troppo pregiati (opere utili che potrebbero essere costruite a costi minori).

Tra gli osservatori e gli studiosi che si occupano di organizzazione della amministrazione pubblica e che amerebbero vedere un settore pubblico capace di svolgere i suoi compiti in modo efficiente, c’è un sentimento diffuso sul fatto che la organizzazione sul territorio dell’offerta di servizi pubblici da parte di tutte le istituzioni coinvolte, dagli uffici periferici dello stato, agli enti territoriali, alle strutture quasi pubbliche come le Camere di Commercio, si caratterizzi per una organizzazione industriale o di sistema palesemente datata perché ancora oggi costruita sul modello “provinciale” tipico dello stato Ottocentesco. A ciò si aggiunga l’esistenza di un numero eccessivo di livelli di governo, con riferimento specifico alla questione mai affrontata delle province, di un numero eccessivo di enti locali (l’ultimo tentativo di riordinare l’assetto locale risale a una legge del 1810 nel Regno d’Italia napoleonico), di un numero eccessivo e indistinto di università, di tribunali e così via.

Secondo questa visione, quand’anche ciascuno dei centri di produzione dei diversi settori di attività distribuiti sul territorio nazionale potrebbe essere riorganizzato eliminando sprechi e inefficienze specifiche, resterebbe sempre un’endemica inefficienza di sistema, propria di un sistema industriale vecchio, cresciuto all’interno di barriere protettive, oltre che disorganizzato al proprio interno. Questa visione è propria di studiosi e politici che avevano poste molte speranze, nel 1970, sul ruolo che avrebbero potuto assumere le regioni a statuto ordinario nel riordino dell’offerta pubblica sui territori regionali. Le ragioni per cui, dopo 40 anni, le regioni sono divenute solo un nuovo livello di governo che si è inserito in un vecchio sistema industriale sono molte e non possono essere trattate in questa sede. Con pochi poteri nei confronti dei livelli di governo locale e senza effettiva autonomia finanziaria misurabile solo dall’effettivo comando su fonti di entrata propria, si sono progressivamente assimilate ai ricchi proprietari terrieri dell’Italia agricola, capaci di negoziare astutamente con l’ufficio del catasto (il governo centrale) gli estimi (i fabbisogni finanziari) delle loro proprietà.


A pag. 40 (su un sito del governo!) Giarda si domanda se l'elevata tassazione causata dall'elevato livello di spesa non sia un freno alla crescita economica generale, e quali sono i “costi economici dell'alto prelievo tributario”. Il rapporto non fornisce alcuna indicazione specifica su come abbattere la spesa pubblica, ma solo dei generici indicatori, con cui ci si trastulla da tempo immemorabile (non è un atto di accusa a Piero Giarda, anzi). Oltre che rimarcare il problema della “spesa locale” non associata ad alcuna “tassazione locale”, personalmente noto solo che a fronte di programmi di spesa varati negli anni '70 e rimasti in vita a dispetto delle mutate condizioni economiche lo stesso si può dire di aumenti di imposta o nascita sic et simpliciter di nuove imposte, che, morti i programmi di spesa a cui dovevano far fronte, sono rimaste in vita per “finanziare qualcos'altro”, e le accise sui carburanti ne sono una imperitura memoria, oltre che solo un esempio.

E veniamo alle conclusione, questa volta mie e non di Piero Giarda.

In nessuna azienda privata si lasciano aumentare i costi in maniera così significativa, soprattutto i costi generali. Se allo Stato Italiano è stato possibile fare ciò è perché anche il fronte delle entrate è elastico, attraverso l'aumento dei tributi o mediante il finanziamento in deficit (è il noto problema del soft budget constraint). Adesso che il finanziamento in deficit non è più possibile, perché i mercati ci randellano nelle gengive al primo accenno di disavanzo fuori controllo, il nuovo governo ha agito sulla leva delle entrate, senza fare molto sul lato dei costi (a parte la riforma delle pensioni). Poiché i margini di aumento delle entrate sono ormai ridotti (siamo il paese con un record mondiale di tassazione, primato non proprio entusiasmante), è il momento di fare qualcosa per abbassare i costi in maniera drastica.

Abbiamo visto che Giarda ha individuato due centri di costo: Beni di Consumo Pubblici, in cui gli stipendi dei dipendenti pubblici sono il costo maggiore, oltre che assolutamente slegati da produttività, efficienza e salario privato, e Pensioni/Assistenza. Da imprenditore non sono abituato a ragionare in termini di “pace sociale”, ma di costi da abbattere, perchè semplicemente non te li puoi permettere. Non essendo possibile licenziare grandi masse di dipendenti pubblici le soluzioni sono due: taglio lineare percentuale dei salari di tutti i dipendenti pubblici, a parità di orario (l'hanno fatto gli operai della Germania, quelli che piacciono tanto ai sindacati, quindi non ci dovrebbero essere problemi), a cui io introdurrei due correttivi: taglio totale oltre una certa cifra (6.000 € mensili, ad esempio) e nessun taglio al di sotto di una certa cifra; alternativamente, il taglio potrebbe essere graduale per fasce di reddito, 3 % da 1.000 a 1.200, 5% da 1.200 a 1.500, e così via, fino ad arrivare al 100% oltre 6.000 euro al mese. A nessuno piace farsi ridurre il salario, ma almeno stiamo mantenendo il posto di lavoro (cosa che non sempre accade ai “colleghi” del settore privato). Una misura più draconiana andrebbe presa per i “politici”: per loro il taglio del 100% avviene al di sopra dei 4.000 €/mese, oltre all'eliminazione tout court delle indennità per tutti livelli di Governo al di sotto del Parlamento Italiano.

I calcoli del risparmio non sono facili. Non avendo trovato una tabella riassuntiva per importi gli stipendi dei dipendenti pubblici in Italia, si può fare un ragionamento solo sul dato medio e il rapporto pubblico/privato (qui, in un file .pdf) la fonte dei dati. A fronte di un salario medio privato di € 28.380 abbiamo un salario medio pubblico di € 31.608, riportando i dati del settore pubblico a quello privato avremmo un risparmio di € 3,227,5 per ognuno dei 3.500.000 dipendenti pubblici, pari a circa 12 miliardi, senza considerare che la CGIA di Mestre ha calcolato che se le retribuzioni del settore pubblico fossero cresciute negativamente in termini reali dal 2001 (qui, a lato c'è il differenziale PIL/salari pubblici negli anni), come ha fatto la mitica Germania, il risparmio sarebbe superiore, intorno ai 20 mld di euro. Questo può essere ottenuto senza licenziare nessuno, ma applicando un minimo di decenza comparativa con il settore privato. Anche se teniamo conto del fatto che i dipendenti del settore pubblico possono avere caratteristiche (ad esempio maggiore grado di istruzione o maggiore anzianità) che fanno sì che i loro salari siano più alti di quelli dei dipendenti del settore privato, i risparmi sarebbero comunque consistenti.

Sarebbe opportuno inoltre un intervento sulle pensioni correntemente erogate, con l'obiettivo di portare il loro ammontare a un livello più vicino a quello che si otterebbe applicando il criterio contributivo (ossia il criterio che verrà applicato per determinare le pensioni di chi ora è giovane). Per le pensioni che risultano alte a causa dell'adozione del sistema retributivo o di qualche altro criterio più favorevole di quello contributivo, come accade per i vitalizi dei parlamentari, sarebbe opportuno imporre un tetto massimo per esempio 4.000 euro al mese (Amato e Bertinotti sopravviveranno). Giusto per dare un'idea in Italia, secondo l'Istat, ci sono 719.989 persone che nel 2008 percepivano una pensione di oltre € 3.000/mese, per una spesa complessiva di € 37,5 miliardi. Inutile dire che queste 719.989 persone hanno la fetta più grossa delle pensioni in Italia. Per capire di cosa parliamo se queste 719.989 persone avessero un importo pari a quello della classe che la precede (2.500/2.999 €/mese) avremmo un risparmio di € 16 miliardi annui.

Applicando quindi semplicemente dei criteri di equità pubblico/privato, senza nemmeno scendere nei particolari dei numerosi casi di sperpero di denaro pubblico di cui l'Italia è piena potremmo risparmiare fra i 28 ed i 38 miliardi di euro all'anno, con un semplice decreto, sul tipo di quello con cui si è reintrodotta l'IMU, e almeno alleviare di conseguenza un po' le tasche dei 22 mln di taxpayers italiani, in attesa della “riforma epocale della spending review” di cui parla Giarda nel paper, e che non ho commentato, poiché mi sembrava la classica carota davanti all'asino. Sempre che non sia sbagliato il lato.
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Re: Breve analisi delle spese statali

Messaggioda flaviomob il 08/04/2012, 12:59

Intanto i tagli dovrebbero procedere a partire dai superpagati manager pubblici, dirigenti, consulenti, anche segretari comunali (facciamoli anche fuori, nei comuni più piccoli, accorpandoli), parlamentari, consiglieri etc.
Nella PA vanno valutati parametri di produttività e non solo di reddito: non tutte le vacche sono uguali, di giorno.

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Re: Breve analisi delle spese statali

Messaggioda franz il 08/04/2012, 20:51

flaviomob ha scritto:Nella PA vanno valutati parametri di produttività e non solo di reddito

Vero, ma non è affatto facile.
Come valuti la produttività di un insegnante? Dai voti che dà? Troppo facile, direi. Sono capaci tutti a dare buoni voti.
Come valuti la produttività di un poliziotto? Da quanti ladri arresta? E se per risultare piu' produttivo arresta anche qualche onesto? E se poi il ladro (vero) viene scagionato dal giudice per i soliti motivi prodedurali?
Come valuti la produttività di un militare in tempo di pace?
Come valuti la produttività di un burocrate? Da quante pratiche evade algiorno? Ma non è meglio snellire le procedure, riformare il diritto amministrativo e risparmiare sul numero dei burocrati?
Non dico che sia impossibile valutare la produttività nel settore pubblico. Dico che è molto difficile.
La produttività si stima con il valore aggiunto generato e la PA non produce valore aggiunto misurabile, salvo quelle poche entità che svolgono attività economiche.
Si puo' valutare il merito, quello si'.
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Re: Breve analisi delle spese statali

Messaggioda flaviomob il 10/04/2012, 12:07

Beh ho appena letto sul Fatto che una parte dei finanziamenti alle università dipende dalla maggiore tendenza ad avere studenti non fuori corso e con una media di voti alta... quindi un bell'incentivo ad "allargare" la manica. Per il resto, la produttività della PA viene misurata in tutti i paesi civili ed è ovvio che sia misurabile anche da noi. I nostri insegnanti sono bravi ma fanno solo 18 ore a settimana di lezione frontale: aumentarle a 24 (come faceva mia nonna) e aumentare gli stipendi. La PA dal punto di vista burocratico è valutabile in termini di accessibilità (e quindi da un feedback di qualità dato dagli utenti) e di organizzazione interna (valutabile quindi dai responsabili).


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Re: Breve analisi delle spese statali

Messaggioda franz il 10/04/2012, 13:02

flaviomob ha scritto:Beh ho appena letto sul Fatto che una parte dei finanziamenti alle università dipende dalla maggiore tendenza ad avere studenti non fuori corso e con una media di voti alta... quindi un bell'incentivo ad "allargare" la manica. Per il resto, la produttività della PA viene misurata in tutti i paesi civili ed è ovvio che sia misurabile anche da noi. I nostri insegnanti sono bravi ma fanno solo 18 ore a settimana di lezione frontale: aumentarle a 24 (come faceva mia nonna) e aumentare gli stipendi. La PA dal punto di vista burocratico è valutabile in termini di accessibilità (e quindi da un feedback di qualità dato dagli utenti) e di organizzazione interna (valutabile quindi dai responsabili).

Ok, proviamoci, ma a livello individuiale si misura il merito ed a livello di gruppo si misura la produttività, come capacità di trasformare input in un output che abbia valore economico (cosa difficile in una scuola, in un ospedale, in un commissariato).
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Re: Breve analisi delle spese statali

Messaggioda pianogrande il 10/04/2012, 14:01

Bene!
Mi avete convinto.
Lo stato non è una azienda.

I parametri per valutare le prestazioni individuali o di gruppo, però, non possono non esistere.

Di esempi ce ne sono a tonnellate.

Quando lo stato mi chiede carte o informazioni che già possiede, il tempo per fare un documento o dare una autorizzazione che richiede tempi tecnici che ne costituiscono lo 0,000001%, la soddisfazione dei cittadini (che può essere rilevata con metodi oggettivi), la frequenza di episodi di mala qualchecosa, la qualità della vita dei più deboli.
Ci sono le varie classifiche dove siamo 80-90-esimi a cui corrispondono manager che sono primi nella galassia per stipendio.
La produttività degli insegnanti potrebbe essere valutata con la verifica degli obiettivi didattici (o di formazione o come volete chiamarli) da parte di enti onesti.

Concluderei che una macchina dello stato non in grado di valutare la produttività collettiva e/o individuale è, solo per questo, da buttare via (grandi consulenti e grandi manager e grandissimi figli di ...... compresi).
Fotti il sistema. Studia.
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Re: Breve analisi delle spese statali

Messaggioda franz il 10/04/2012, 18:40

pianogrande ha scritto:La produttività degli insegnanti potrebbe essere valutata con la verifica degli obiettivi didattici (o di formazione o come volete chiamarli) da parte di enti onesti.

Vero, ma basta vedere la rivolta sindacale contro i test INVALSI e le forti criticha al PISA per capire che la strada sarà in salita ed i "signor NO" sempre quelli.
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Re: Breve analisi delle spese statali

Messaggioda gabriele il 13/04/2012, 12:55

Opinione di Michele Boldrin

Ecco come tagliare la spesa pubblica fino al 3% del Pil
Tagliare le poltrone nelle controllate pubbliche e costi della politica? 0,5-0,6% del Pil. Riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici riallineandoli a quelli dei privati? 0,8-0,9% del Pil. Via i sussidi alle imprese? Si sale al 3% del Pil. Trenitalia? Eni? Vendere, non a prezzi di borsa, ma facendo pesare le quote di controllo. Per tagliare, Giarda e Monti, basta volerlo.

12 aprile 2012 - 08:31


Giusto una settimana fa avevo concluso la prima metà di queste riflessioni avvertendo che, se non si fa uno sforzo straordinario di vendita di proprietà pubblica per abbatterlo, lo stock di debito finirà per farci sistematicamente molto danno attraverso il costo soverchio che alti tassi reali d’interesse generano. Neanche a farlo apposta, nel giro di pochi giorni lo spread fra il nostro debito e quello tedesco ha ricominciato a crescere comprovando che non parlavo del tutto a vanvera. Questo non grazie a mie supposte capacità divinatorie (quelle ce le ha solo Nouriel Roubini…) ma perché la realtà dei fatti quella è: prima vi togliete le fette di salame dagli occhi meglio è per voi tutti, cari compatrioti fiscalmente residenti nel Bel Paese. Qualche anima bellasifaperdire ha immediatamente osservato (lo fanno da vent’anni, da quando Draghi privatizzò qualcosetta) che vendere oggi vuol dire svendere e che sarebbe meglio aspettare. Gigantesca cazzata, pardon my French, per due banalissime ragioni.

Anzitutto: continuare a vivere sotto la spada di Damocle di un costo del debito che può andar fuori controllo al primo stormir di spese è molto più dannoso, per il sistema economico nazionale, dell’idea di perdere alcuni, molto ipotetici, guadagni futuri. Solo persone incapaci d’intendere il funzionamento dei sistemi economici possono fantasticare che la tassazione aggiuntiva che un aumento dello spread implica, assieme all’effetto credit crunch che la continua sottovalutazione del nostro debito pubblico genera via banche, sia paragonabile alle presunte perdite da “svendita”. In secondo luogo, va ricordato a queste anime bellesifarperdire che vendere attraverso trattativa privata il pacchetto di controllo di Eni o Unicredit non implica venderlo alle quotazioni di borsa attuali. Il pacchetto di controllo d’una azienda di grandi potenzialità ma mal gestita (come, per dire, Trenitalia platealmente è) vale svariate volte la sua quotazione di borsa. In Spagna stanno facendo piani seri per vendere non solo gli aeroporti, che Iberia già è privata, ma persino Renfe e Bankia. Il governo Monti ha appena creato la Banca del Sud… Se si forzassero le fondazioni a vendere i pacchetti di controllo delle grandi banche italiane, non solo i politici gestori delle medesime recupererebbero un po’ del patrimonio pubblico che hanno gettato al vento malgestendo quelle medesime banche negli ultimi 15 anni, ma potrebbero, finalmente, avere una dotazione decente che permetterebbe loro di fare ciò per cui sono state create. Che NON consiste in gestire MPS e Banca Intesa ma fare beneficienza: cosa utile e che permetterebbe a molti enti locali di non aumentare le imposte per finanziare alcuni servizi.

Per continuare partiamo dall’opportuna intervista del ministro Piero Giarda su La Stampa, intervista che sembra quasi organizzata dal sottoscritto con la finalità di poter affermare: ve l’avevo detto che non intendono tagliare nulla! Ad essa risponde la simpatica (a me) Emma Marcegaglia, continuando a chiedere (giustamente) di ridurre le imposte sulle imprese e continuando a non dire (impropriamente) che spese tagliare per poterlo fare. Emma, deciditi a parlare esplicito almeno ora che sei libera di farlo: per ogni riduzione d’imposta serve una riduzione di spesa, quali suggerisci? Io ci provo.

Siccome i simboli contano ed al popolo tassato a sangue occorre anche dare giustizia e non solo promesse, tagliare i costi della casta politico-burocratica è assolutamente necessario, prioritario e possibile. Vi sono in Italia circa 50mila persone, dal segretario comunale di Abbiategrasso al Presidente della Repubblica passando per il capo della polizia di stato ed il presidente della municipalizzata di casa vostra, che costano (in stipendi e benefici materiali) tra il triplo ed il quintuplo (ho scritto giusto: dal 300% al 500%) di quanto i loro analoghi costino in paesi, come la Spagna, che hanno una struttura istituzionale simile alla nostra ed un reddito per capita identico al nostro. Ho fatto due conti non del tutto inventati e sono fra i 5 ed i 7 miliardi di euro all’anno. Sono, di fatto, costi della politica e non ho incluso il finanziamento illegale ai partiti noto come “rimborsi elettorali”. Non è tanto, ma messi assieme fanno lo 0,5-0,6% del PIL di spese (ossia tasse) in meno. Qualche impresa ringrazierebbe.

Scendiamo di un gradino nella scala gerarchica e parliamo degli stipendi pubblici. Dice bene Piero Giarda: da due anni, salvo promozioni interne, non sono aumentati. Ma erano aumentati moltissimo prima (leggere relazioni Banca d’Italia) e nel frattempo sono diminuiti sia i redditi degli italiani nel privato che quelli dei dipendenti pubblici nei paesi che si son trovati a fare i conti con una crisi fiscale. Detto altrimenti, caro Piero, abbi il coraggio che i tuoi colleghi in Spagna, Inghilterra e California hanno avuto: taglia (non linearmente ma progressivamente) gli stipendi pubblici in modo tale da riallinearli, in % di quelli del settore privato, al livello del 1995. Ho fatto due conti a spanne, ed è un altro 0,8-0,9% del PIL. Poca roba? Forse, ma siamo già ad una riduzione d’imposte dell’1,3-1,5% del PIL.

Per evitare che Emma si illuda che io lavori per lei, occupiamoci di sussidi alle imprese. Siccome è tema trito e ritrito non lo elaboro. Sono una ventina di miliardi e, come il lettore attento noterà, sparirebbero quasi tutti se si decidesse di vendere ciò che ho suggerito la settimana scorsa di vendere. Due piccioni con una fava: qualcuno osa immaginarsi perché mai Passera e Monti non abbiano proposto la fava? Suggerimento: pensate al signor Belsito ed a cosa faceva (fa) oltre che amministrare i soldi della Lega. Roma è piena di Belsito che tengono famiglia, vasta assai. In ogni caso, se si facesse sarebbe un altro 1,2-1,5% del PIL di spese, e tasse, in meno. Siamo gia vicini al 3,0% e son parecchie le imprese ad essere contente.

Mi fermo qui, rendendomi conto che ho bisogno della terza puntata per finire il ragionamento con i veri tre pezzi da novanta (nord/sud, pensioni, produttività pubblica). Ma il punto dovrebbe già essere evidente: è la somma – cari Monti, Giarda e, perché no, Grilli – che fa il totale. Basta voler sommare.

http://www.linkiesta.it/come-tagliare-la-spesa-pubblica
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Re: Breve analisi delle spese statali

Messaggioda franz il 13/04/2012, 13:31

gabriele ha scritto:Mi fermo qui, rendendomi conto che ho bisogno della terza puntata per finire il ragionamento con i veri tre pezzi da novanta (nord/sud, pensioni, produttività pubblica). Ma il punto dovrebbe già essere evidente: è la somma – cari Monti, Giarda e, perché no, Grilli – che fa il totale. Basta voler sommare.

http://www.linkiesta.it/come-tagliare-la-spesa-pubblica

Bene, Michele si ferma qui. Lo conosco credo da 15 anni, ben prima che diventasse noto per le sue apparizioni TV a Ballarò (l'economista italo-americano con l'orecchino, terrore di Tremonti e Brunetta ma anche di tanti altri incompententi che albergano purtroppo alle nostre latitudini) e per i sui articoli sul Fatto e l'Inkiesta. Lui si ferma qui (in attesa della terza puntata) ma intanto possiamo proseguire noi.

Solo il federalismo, se ben fatto (di tipo "costitutional") puo' significare un altro 2% del PIL (in meno) mentre se fatto male (alla moda leghista) puo' comportare anche spese superiori.

Poi c'è il taglio imponente da fare alla burocrazia statale e quindi anche ai burocrati ed al loro stipendio, ai posti di lavoro inutili (militari compresi) che puo' significare, in modo graduale, anche un 10% del PIL in 10-15 anni.

E una parte di questi tagli poptrebbe essere anche convertita in spese sociali che oggi non abbiamo e che se avessimo potrebbero sostenere l'economia (consumi) ed anche in investimenti.
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Re: Breve analisi delle spese statali

Messaggioda flaviomob il 13/04/2012, 15:43

Insegnanti che lavorano (in classe) almeno 24 ore alla settimana e non 18 (ma vengono retribuiti per 36) e che non fanno tre mesi di ferie ma durante l'estate (tranne agosto) fanno ripetizioni gratuite a chi ne ha bisogno. Ovviamente parlo di chi ha un contratto pubblico a tempo indeterminato, non certo dei poveri precari sfruttati (e non retribuiti per tre mesi l'anno).


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