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Come le cattive idee peggiorano la crisi del debito europeo

Discussioni e proposte, prospettive e strategie per il Paese

Come le cattive idee peggiorano la crisi del debito europeo

Messaggioda franz il 12/02/2012, 10:31

12 febbraio 2012 • John Cochrane (*)

L'Europa è piena di cattivi debiti tanto quanto è piena di cattive idee. La saggezza popolare suggerisce che il default di uno stato significhi la fine dell'euro: se la Grecia fallisce, deve lasciare la moneta unica. I contribuenti tedeschi devono salvare i governi del sud per salvare anche l'unione. Questa è una sciocchezza.

Alcuni stati degli Stati Uniti e alcuni governi locali sono falliti con debiti in dollari, esattamente come falliscono le imprese. Una moneta è semplicemente un'unità di valore, come i metri sono un’unità di lunghezza. Se i greci avessero “fatto la cresta” sull’olio di oliva nelle bottiglie da un litro, questo non avrebbe messo a rischio il sistema metrico decimale.

I salvataggi sono la vera minaccia per l'Euro. La Banca Centrale Europea ha comprato debito pubblico greco, italiano, portoghese e spagnolo. Ha prestato soldi alle banche che, a loro volta, acquistano debito pubblico. C'è una forte pressione sulla BCE affinché ne acquisti o ne garantisca ancor di più. Quando i governi debitori alla fine diverranno insolventi, o il resto d'Europa raccoglierà migliaia di miliardi di Euro in nuove tasse per ricostituire la banca centrale, oppure l'Euro si inflazionerà comunque.

Abbandonare l'Euro sarebbe un disastro per la Grecia, l'Italia e gli altri. Il ritorno alla moneta nazionale durante una crisi del debito comporterebbe un’espropriazione dei risparmi, un controllo del capitale che distruggerebbe il commercio, una spirale d’inflazione ed un isolamento che ammazzerebbe la crescita. E uscire dall’Euro non aiuterà questi paesi a evitare il default, perché il loro debito promette euro, non dracme o lire.

I pericoli della svalutazione. I difensori [della strategia di svalutazione] pensano che la svalutazione illuderebbe i lavoratori e li spingerebbe verso una maggiore “competitività”, come se la gente non si rendesse conto di essere pagata con il denaro del Monopoli. Se la svalutazione della moneta rendesse i paesi competitivi, lo Zimbabwe sarebbe il paese più ricco sulla Terra. Nessun elettore di Chicago vorrebbe lasciare al governatore del proprio stato la possibilità di svalutare la moneta per crearsi una sua via di fuga dai problemi di bilancio e dalle difficoltà economiche. Perché mai gli economisti pensano che i politici greci siano molto più saggi?

I piani più recenti prevedono che l’Europa sia più dura nel far rispettare regole sul deficit che sono simili a quelle stesse regole che i governi hanno allegramente ignorato per oltre 10 anni. Ma siamo sicuri che una direttiva da Bruxelles basterà a spingere i greci a darsi da fare? Immaginate quanto poco successo avrebbero avuto il Fondo Monetario Internazionale o le Nazioni Unite se avessero cercato di porre il veto sul deficit di bilancio degli Stati Uniti (ovvero, se il nostro Congresso avesse anzitutto approvato il bilancio). Questo piano è principalmente un modo per salvare la faccia alla BCE e lasciarle comprare crediti inesigibili con Euro freschi di stampa.

Una maggiore unione fiscale danneggia l’Euro. Pensate alla Polonia o alla Slovacchia. Un tempo utilizzare l’Euro era una scelta scontata: aveva un senso usare la stessa moneta che usano tutti gli altri piccoli stati confinanti, esattamente come l’Illinois vuole usare la stessa moneta dell’Indiana (e la Toscana quella dell’Umbria). Ad oggi, non è più così scontato: se usare la stessa moneta significa pagare per salvare la Grecia e l'Italia, allora forse l'adozione dell'euro non è un’idea così buona. Una moneta comune senza un’unione fiscale avrebbe un appeal universale. Un’unione monetaria con un’unione fiscale basata sul salvataggio rimarrà invece un piccolo affare.

I leader europei pensano che il loro compito sia di fermare il "contagio", per "calmare i mercati." Danno la colpa alla "speculazione" per i loro guai. Continuano ad aspettare il Grande Annuncio che imbonisca i mercali e li spinga a comprare qualche altro centinaio di miliardi di euro di debiti Ahimè, il problema è la realtà, non la psicologia, e i governi sono pessimi psicologi. Non si può riempire un buco da mille miliardi di Euro con la psicologia.

Il presidente francese Nicolas Sarkozy ha detto che la Grecia è come Lehman Brothers, e il suo collasso farebbe cadere il sistema finanziario. La Grecia non è Lehman. Non ha migliaia di miliardi di dollari di contratti derivati. Non è un broker-dealer, il cui fallimento congelerebbe ogni tipo di attività finanziaria. I suoi creditori non hanno il diritto legale alla confisca dei beni dovuti alle controparti. La Grecia è solo un semplice debitore sovrano, come quelli che sono stati inadempienti da quanto Edoardo III imbrogliò la banca Peruzzi nel 1340.

Il debito delle banche. Il default del debito sovrano danneggerebbe il sistema finanziario, comunque, per la semplice ragione che l’Europa ha permesso alle sue banche di caricare in portafoglio questo debito, tenerlo a bilancio al valore nominale, e trattarlo come privo di rischio, senza nessun capitale accantonato che facesse da cuscinetto. I governi indebitati hanno fatto pressione sulle banche affinché acquistassero più debito pubblico, e non meno. La scorsa estate, per aumentare i loro indici di bilancio le banche hanno acquistato ancor più debito sovrano “senza rischio”, che ora possono usare come garanzia collaterale ai prestiti della BCE. La grande "operazione liquidità" della BCE darà alle banche centinaia di miliardi di euro per aumentare le loro scommesse sul debito sovrano. I correntisti bancari e i creditori l’hanno capito, e stanno correndo verso l’uscita.

Imbottendo le banche con il debito sovrano, i politici e regolatori europei stanno rendendo l’inevitabile default molto più rischioso dal punto di vista finanziario. Questa è una importante lezione per tutti quelli che si aspettano che la regolamentazione terrà al sicuro le banche! L’errore fatale dell'euro non è stato di unire zone con diversi livelli e tipi di sviluppo sotto un’unica valuta. Dopo tutto, il Mississippi e Manhattan (e Milano e Palermo) utilizzano gli stessi soldi. E non è stato neanche quello di privare i governi dei piaceri effimeri della svalutazione. Né è stato l’immaginare un’unione monetaria senza unione fiscale. L’errore fatale dell’Euro è stato la mancata regolamentazione bancaria. Il debito sovrano, che può sempre evitare il default esplicito quando lo stato stampa moneta, non rimane senza rischio in un’unione monetaria.

Ciononostante, gli organi di regolamentazione bancaria e le regole della BCE continueranno a fingere il contrario. Quindi, dall’abile applicazione di idee sbagliate, l’Europa ha preso una normale ristrutturazione del debito sovrano e l’ha trasformata prima in una crisi bancaria, poi in una crisi monetaria, poi in una crisi fiscale, e ora in una crisi politica.Quando finirà l'era delle pie illusioni, l'Europa dovrà affrontare una scelta difficile. Potrà avere un’unione monetaria senza default sovrani. Questa opzione significa unione fiscale, accettando veri controlli da parte dei tedeschi sui budget greci e italiani (e forse francese). Nessuno lo vuole, per ovvie ragioni. Oppure l’Europa potrà avere un'unione monetaria senza unione fiscale. Che funzionerebbe bene, ma deve essere basata su due idee fondamentali: gli stati devono poter fallire esattamente come le società private, e le banche, inclusa la banca centrale, devono trattare come rischioso il debito sovrano, esattamente come trattano il debito delle aziende.

La terza e ultima opzione è una rottura, probabilmente dopo una crisi e l’inflazione. L'euro, come il metro, è una grande idea. Gettarlo via sarebbe una vera e inutile tragedia.

http://noisefromamerika.org/articolo/co ... to-europeo


(*) I'm a professor at the University of Chicago Booth School of Business. I write "the grumpy economist", a blog of news, views, and commentary, from a humorous free-market point of view. After one too many rants at the dinner table, my kids called me "the grumpy economist," and hence this blog and its title. I'm not really grumpy by the way!
http://www.chicagobooth.edu/
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Re: Come le cattive idee peggiorano la crisi del debito europeo

Messaggioda flaviomob il 12/02/2012, 12:19

http://www.linkiesta.it/salvare-l-itali ... i-sinistra

“Per salvare l’Italia Monti faccia cose di sinistra”
Niccolò Cavalli

Applicando la ricetta individuata da Keynes nell’ultimo capitolo della Teoria generale, l’Italia potrebbe crescere in 5 anni del 2,5% in termini reali. Ne è convinto Giorgio Lunghini, ordinario di Economia politica all’Università di Pavia e accademico dei Lincei. Per l’economista l’azione del Governo Monti, improntata a una politica “dei due tempi”, è per definizione fallimentare: «È vero che il vincolo di bilancio è un problema reale, ma l’equità e la crescita lo sono altrettanto, anche perchè le condizioni del debito pubblico italiane non sono affatto disastrose, mentre ciò che spaventa gli investitori è principalmente il fatto che l’economia non cresca da almeno 10, 15 anni».

11 febbraio 2012

Il 6 febbraio Giorgio Lunghini, professore di Economia Politica all’Università di Pavia e socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, ha tenuto con Stefano Lucarelli una conferenza sulle Teorie economiche di fronte alla crisi, terzo incontro nell’ambito delle 10 lezioni sulla crisi alla Casa della Cultura di Milano.

«La teoria economica oggi dominante - la teoria neoclassica – si presenta come una teoria capace di indagare qualsiasi aspetto dell’attività umana», ha spiegato Lunghini. «Essa sembra essere riuscita in un’impresa che sinora la fisica ha mancato: la proposta di un modello unificato di spiegazione della realtà considerata di propria competenza. Di certo, essa è riuscita a imporre come elementare e indiscutibile buon senso la sua visione del mondo e le conseguenti raccomandazioni politiche». «Tuttavia», nota Lunghini, «un economista non deve conoscere soltanto un metodo e una sola teoria, ma deve partire dalla consapevolezza che la teoria neoclassica è solo uno tra i molti modi di guardare alla realtà economica e sociale». «Leggere i classici», continua l’economista, «non è solamente un esercizio di storia del pensiero economico, ma è l’unico modo per acquisire quegli strumenti di comprensione e di critica che la teoria mainstream non è in grado di fornire. I classici sono molto più vivi di molti degli economisti che oggi scrivono su riviste e quotidiani».

Professor Lunghini, in cosa consiste la teoria economica neoclassica?
Al contrario dell’economia politica a essa precedente, l’economia neoclassica considera l’individuo, e non le classi sociali, quale oggetto della propria analisi, un individuo che è caratterizzato e studiato come un essere perfettamente razionale e con una conoscenza perfetta del futuro, intento a massimizzare la propria funzione di utilità. Questo individuo si muoverà, nello spazio astratto di un mercato in cui la moneta non conta nulla, entro i limiti imposti dalle proprie risorse e dalle strategie degli altri individui, fino a che tale interazione non condurrà all’equilibrio. Anche quando l’analisi neoclassica viene problematizzata, tentando di integrarla con asimmetrie informative, aspettative razionali, o distinguendo tra breve e lungo periodo, l’impostazione di base rimane quella ora descritta.

E che cosa c’è che non va in questa impostazione?
Il mondo neoclassico è dominato dall’armonia invece che dal conflitto, dalla razionalità invece che dall’incertezza, dall’equilibrio invece che dalla crisi: chiunque può rendersi che non si tratta affatto di una descrizione realistica della realtà in cui viviamo. È significativo che l’economia neoclassica non abbia una teoria delle crisi, ossia non preveda la crisi come possibile esito endogeno del sistema. Questo, alla luce dei fatti, dovrebbe già essere un motivo sufficiente per abbandonarla; ed è politicamente preoccupante che le ricette proposte per uscire dalla crisi non facciano altro che ispirarsi proprio alla sua filosofia, che è quella del laissez faire. Il mercato del lavoro, ad esempio, è concepito come inefficiente quando sindacati troppo potenti impongono un salario più alto di quello d’equilibrio: per la teoria neoclassica, la soluzione consiste nell’indebolire i sindacati e creare maggiore concorrenza tra i lavoratori, così da eliminare gli attriti artificiali e determinare un saggio salariale più basso, di equilibrio, in corrispondenza del quale non vi sarà disoccupazione involontaria, così che la produzione che ne risulta sarà interamente venduta. È questo l’impianto ideologico che giustifica l’idea di eliminare l’articolo 18, e diminuire le tutele ai lavoratori.

Cosa direbbero, invece, i classici?
David Ricardo era giunto, al termine di un ragionamento analitico molto rigoroso, a dimostrare una cosa che sembrerà molto semplice, ossia che se i salari sono alti, i profitti saranno bassi, e viceversa. In una società divisa in classi, il prodotto sociale non andrà tutto ai lavoratori, ma viene diviso tra i percettori di rendita, i capitalisti e i lavoratori stessi. In quest’ottica, nella sfera della distribuzione non vi è armonia, come sostiene la teoria neoclassica quando si concentra sulla “produttività marginale”, ma vi è conflitto: tra i rentiers e i capitalisti, e tra i capitalisti e i lavoratori. Piero Sraffa riprese questo punto, mostrando ineccepibilmente, e con un inconfutabile apparato matematico, che l’armonia distributiva postulata dalla teoria neoclassica non è dimostrabile: non esiste nessun livello “naturale” del salario, e non esiste nessuna configurazione “di equilibrio” nella distribuzione del prodotto sociale, poiché esso sarà distribuito, oltre che in base alle condizioni tecniche della produzione, in funzione dei rapporti di forza e delle variabili monetarie e finanziarie. Il risultato di questa critica è però stata la damnatio memoriae caduta su Sraffa e su tutto il suo lavoro.

Tra gli autori classici, lei cita anche Marx.
Marx è l’unico autore che fornisce una teoria della crisi, eppure è proprio lui a mostrare che il capitalismo potrebbe anche riprodursi senza incontrare crisi, ma se e soltanto se la distribuzione del prodotto sociale fosse tale da non generare situazioni in cui i redditi sono troppo bassi per sostenere la domanda, ossia quando la distribuzione della ricchezza viene spostata dai salari ai profitti. Marx parlava in questo senso di “crisi di sovrapproduzione”; il che però non significa che “abbiamo prodotto troppo”, poiché si tratta di una sovrapproduzione relativa: rispetto alla capacità d’acquisto, non rispetto ai bisogni della società, che sono anzi spesso frustrati proprio da questo meccanismo di mercato, che lascia le parti non abbienti della popolazione in stato di privazione. L’altra condizione individuata da Marx era che moneta, banca e finanza avrebbero dovuto essere funzionali soltanto al processo di produzione e riproduzione del sistema, e non dare invece luogo a sovraspeculazione e a crisi di tesaurizzazione. Se le merci non si vendono, infatti, è anche perché la ricchezza viene tesaurizzata oppure utilizzata per attività speculative. Keynes condivise con Marx quest’analisi.

Ma Keynes non era convintamente antimarxista?
Da buon liberale inglese nato nell’Ottocento lo era, certo, ma d’altronde lo stesso Marx dice di sé je ne suis pas marxiste. Il punto su cui Keynes si trovò in accordo con Marx è la critica alla teoria standard, che considera neutrale la moneta, cioè vede la moneta come un semplice mezzo per lo scambio di merci, mentre nella realtà capitalistica la moneta viene domandata di per sé stessa. Questo potrebbe essere considerato un comportamento irrazionale: perché mai detenere moneta, così rinunciando all’utilità derivante dall’acquisto di un bene oppure all’interesse fornito dall’acquisto di titoli? Solamente Paperon de’ Paperoni ama il denaro in quanto denaro! In realtà, spiega Keynes, nel mondo reale è perfettamente razionale detenere moneta in forma liquida, poiché viviamo in un mondo incerto, e la domanda di moneta tende a crescere con l’aumentare della nostra percezione di incertezza, così come tenderà in questo caso a crescere il tasso di interesse, ossia il premio che chiediamo per separarcene. Ma il tasso di interesse, unito all’incertezza circa il futuro, sono proprio le due determinanti delle scelte di investimento da parte degli imprenditori, che potranno dunque prendere decisioni non ottimali e far sì che il sistema economico in cui viviamo resti in una condizione cronica di attività subnormale per un periodo considerevole, senza una tendenza marcata né verso la ripresa né verso il collasso completo. Ecco il paradosso della povertà in mezzo all’abbondanza; e ecco la necessità di un intervento dello Stato, se del sistema economico in cui viviamo si vogliono eliminare i difetti principali: la disoccupazione e la distribuzione arbitraria e iniqua della ricchezza e del reddito.

E come si può intervenire per eliminare questi difetti?
Nell’ultimo capitolo della Teoria generale, Keynes propone tre linee di intervento: una redistribuzione del reddito per via fiscale (imposte sul reddito progressive e elevate imposte di successione), l’eutanasia del rentier, e un certo, non piccolo, intervento dello Stato nell’economia. La ricetta keynesiana è, di per sé, anche se a ciò non era intesa, una ricetta per l’equità e per la crescita. La redistribuzione del reddito (peraltro predicata dall’articolo 53 della Costituzione italiana) comporterebbe un aumento della propensione marginale media al consumo e dunque della domanda effettiva. L’eutanasia del rentier, dunque del “potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale”, renderebbe convenienti anche investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali normalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale, come la sanità o l’educazione. Per quanto riguarda l’intervento dello Stato, secondo il Keynes de La fine del laissez faire, il suo compito è proprio quello di svolgere efficacemente quelle attività che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, senza sovrapporsi ad essi. Ricordo che l’Italia, a questo proposito, ha una tradizione illustre, purtroppo tradita.

Come giudica in questo senso l’azione del governo?
La politica del governo è stata sino ad ora improntata a una politica dei “due tempi”: si tratta di una strategia per definizione fallimentare. Il vincolo di bilancio è un problema reale, certo, ma non è l’unico: l’equità e la crescita sono altrettanto importanti, e si doveva agire simultaneamente nei confronti di questi due aspetti – anche perché le condizioni del debito pubblico italiane non sono affatto disastrose, mentre ciò che spaventa gli investitori è principalmente il fatto che l’economia non cresca da almeno 10, 15 anni. Pierluigi Ciocca, che è stato il primo a parlare, già nel 2003, di un “problema di crescita dell’economia italiana”, ha di recente ha suggerito tre mosse per l’economia italiana, che a integrazione della ricetta keynesiana assicurerebbero a un tempo rigore, equità e crescita.

Di quali misure stiamo parlando?
Ciocca individua tre voci di spesa su cui intervenire: i trasferimenti alle imprese, che sono spesso forme d’inefficienza se non di illegalità e corruzione, e che alimentano un sistema imprenditoriale affetto da nanismo, con bassi standard tecnologici e scarsa propensione all’innovazione. Questi trasferimenti dovrebbero diminuire almeno di 2 punti percentuali. Gli acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione andrebbero poi centralizzati e ridefiniti, ricontrattando i prezzi fuori mercato, riducendo complessivamente le uscite dal 6 al 9%. Infine, la spesa per il personale potrebbe diminuire circa del 10% con un parziale turnover, tenendo fermi i salari unitari. Assieme ad alcune misure a sostegno della produttività (dagli interventi per le infrastrutture e per la diminuzione della pressione fiscale alla revisione del diritto societario, delle procedure concorsuali, del processo civile, della tutela della concorrenza e del diritto amministrativo) e della domanda (attraverso una spending review dei conti pubblici, per individuare le spese improduttive e tagliarle, aumentando al contempo le spese produttive), queste misure potrebbero portare ad una crescita in 5 anni del 2,5% in termini reali.

Eppure il presidente Monti ha promesso una crescita del 10% con le liberalizzazioni e ha dichiarato che, rispetto alla crisi, siamo a metà del guado.
Sarebbe utile, intanto, spiegare in quanto tempo è prevista questa crescita. In ogni caso, non si risolvono problemi strutturali con 500 notai in più e il doppio dei taxi o delle farmacie. Occorre piuttosto rendersi conto che la crisi non è affatto a metà del guado, e chiunque conosca l’andamento dell’export e della crescita ne è perfettamente consapevole. Senza contare l’occupazione, che va malissimo: è oggi all’8-9% e, facendo i conti veri, cioè conteggiando cassaintegrati, scoraggiati e inattivi, è plausibile che questa cifra possa essere stimata attorno al 12%. A questo va aggiunto che la quota di giovani disoccupati è altissima, quasi al 40%, e che, quando i giovani lavorano, sono lavoratori temporanei, precari, e sono sempre i primi a essere licenziati. Si tratta di una condizione drammatica di crisi economica e politica, che coinvolge un’intera generazione e, con essa, tutto il Paese.

Professore, ma come siamo finiti in questa situazione?
Negli ultimi anni si è avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite; e dunque si è determinata una insufficienza di domanda effettiva e una disoccupazione crescente. D’altra parte, la finanza è diventata un gioco fine a se stesso. In condizioni normali, la finanza è un gioco a somma zero: c’è chi guadagna e chi perde; ma quando essa assume le forme patologiche di una ingegneria finanziaria alla Frankestein, ci perdono tutti: anche e soprattutto quelli che non hanno partecipato al gioco. Questi processi si sono diffusi in tutto il mondo, grazie alla globalizzazione e alla conseguente sincronizzazione delle diverse economie nazionali; e grazie all’assenza di un coordinamento della divisione internazionale del lavoro e di un appropriato ordinamento monetario e finanziario internazionale. Così che i singoli paesi si trovano a dover fronteggiare le conseguenze della crisi ciascuno da solo, ma non autonomamente; bensì, in Europa, secondo le direttive della Banca Centrale Europea e, in generale, del “senato virtuale”.

Che cosa intende per “senato virtuale”?
Il “senato virtuale”, secondo una definizione che Noam Chomsky mutua da Barry Eichengreen, è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating, le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano “irrazionali” tali politiche - perché contrarie ai loro interessi - votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi e in particolare delle varie forme di stato sociale. I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale. Infatti è questa una crisi tale che, se non se ne esce, avrà conseguenze gravissime non soltanto economiche (una lunga depressione), ma soprattutto politiche. Il Novecento europeo ha insegnato che dalla crisi si esce a destra. Uscite a destra che oggi non sfoceranno in nazifascismo; ma più probabilmente - poiché la seconda volta le tragedie si presentano come farsa - in forme di populismo autoritario. Con Tolkien al posto di Heidegger e gli Hobbit al posto delle Walkirie.





Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/salvare-l-itali ... z1mA4u1Y3K


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Re: Come le cattive idee peggiorano la crisi del debito europeo

Messaggioda franz il 12/02/2012, 12:45

Secondo gli economisti "non-keynesiani" le crisi sono causate proprio dalle politiche economiche keynesiane stesse, basate sulla domanda artificialmente drogata da bassi tassi di interessi, immissioni di moneta fresca, spesa pubblica facendo debiti, conseguenti bolle speculative e cicli di inflazione, depressione, nuove politiche anti crisi e via di seguito.

Di fatto gli stati (i governi) seguono filoni keynesiani mentre il mondo privato tende in parte ad andare a rimorchio (visto che l'economia pubblica arriva in certi casi al 50% del PIL) ed in parte a sopravvivere da soli o almeno a tentare di farlo, cosa difficie quando l'economia pubblica soffoca quella privata con il 50% di pressione fiscale.

Che dire del settore finanziario? È sicuramente quello piu' influenzato dalle politiche monetarie e finanziari statali, perché sono molto condizionati dal costo del denaro (che lo decide lo stato tramite la banca nazionale) e dalla liquidità (la quantità di carta stampata, anche qui decisa dalle politiche monetarie statali). L'altro terzo fattore che influenza l'economia monetarie e finaziaria è data dalla bilanca comerciale dei pagamenti (import export) e questo è l'unioco aspetto lasciato forse al libero mercato.

In ogni caso, comunque la si pensi, Monti ha già detto che non seguirà politiche di sostengno della domanda (faallimentari, aggiungo io) per cui l'appello di Cavalli è puramente simbolico, di testimonanza. Per sostenere la domanda, bisogna avere soldi. Soldi veri, non carta stampata di notte in cantina. E di soldi veri non ce ne sono.
L'unica cosa vera, di sinistra, da proporre è lavorare di più. Cosa ovvia quando si hanno debiti.
Ultima modifica di franz il 12/02/2012, 13:05, modificato 1 volta in totale.
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Re: Come le cattive idee peggiorano la crisi del debito europeo

Messaggioda flaviomob il 12/02/2012, 12:50

Anche la Germania (molto più di noi) segue i filoni keynesiani e... sta benissimo! ;)

Lavorare di più? Piuttosto utopistico in un paese in cui si continuano a perdere posti di lavoro e in cui quelli che rimangono vengono mantenuti più a lungo dalle generazioni precedenti, togliendo ossigeno ai giovani.


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Re: Come le cattive idee peggiorano la crisi del debito europeo

Messaggioda franz il 12/02/2012, 13:11

flaviomob ha scritto:Anche la Germania (molto più di noi) segue i filoni keynesiani e... sta benissimo! ;)

Lavorare di più? Piuttosto utopistico in un paese in cui si continuano a perdere posti di lavoro e in cui quelli che rimangono vengono mantenuti più a lungo dalle generazioni precedenti, togliendo ossigeno ai giovani.

Non mi sembra affatto che la germania, con le sue politiche di rigore, segua un filone keynesiano o neotale.
Ma d'altronde visto che Keyness nella sua lunga opera ha scritto di tutto ed il contrario di tutto (ha piu' volte cambiato idea) è anche dififcile stabilire realmente quale sia una politica keynesiana :lol:

Certo che si deve lavorare di piu', perchè come ho già spiegato mesi fa in un thread che non ricordo, se si lavora di meno si ha meno reddito e quindi si puo' spendere di meno (e la mia spesa è il reddito di altri). A questo keneys riparava fornendo denaro gratis (a basso costo e stampato di fresco) per sostenere la domanda a il risultato naturale era l'inflazione ed il dilungarsi della crisi.
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Re: Come le cattive idee peggiorano la crisi del debito europeo

Messaggioda flaviomob il 12/02/2012, 13:24

Sei sicuro di conoscere Keynes? ;)


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Re: Come le cattive idee peggiorano la crisi del debito europeo

Messaggioda franz il 12/02/2012, 15:08

flaviomob ha scritto:Sei sicuro di conoscere Keynes? ;)

E tu? :o
Ho appena letto un libro (ok, non certo di lodi, decisamente critico) ma che per il 50% è costituito da estese citazioni del confuso pensiero di costui. Dico confuso con una qualche ragione perché le sue ricette sono sempre state generiche: ha sempre parlato di sostenere la domanda e gli investimenti in un determinato modo (riassumo: basso costo del denaro, incremento della liquidità, spesa pubblica anticiclica) ma non ha mai dato numeri precisi, formule. A chi gli chiedeva "quanto?" lui rispondeva "Quanto basta" oppure "il giusto". Roba da santone o guru, piu' che da economista. Ma allora non esisteva un'econometria e si andava a spanne. Chi ha tentato di realizzare le sue teorie, nella prima metà del 1900, ha dovuto provare a quantificare quel "quanto" realizzando disastri uno dopo l'altro che si sono seguiti fino alla seconda guerra mondiale ed alla sua morte. Poi per fortuna Keynes è stato dimenticato a lungo, anche perché di crisi non ce ne sono piu' state. Torna di moda se c'è una crisi perché i politici si sentono in dovere di fare qualche cosa e l'unico risultato è quello di drogare l'economia, creare inflazione, svalutare la moneta, indebitare gli stati.
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Re: Come le cattive idee peggiorano la crisi del debito europeo

Messaggioda flaviomob il 12/02/2012, 16:45

Sappiamo bene come le teorie di Keynes abbiano rappresentato un riferimento dal New Deal fino agli anni settanta, per essere poi rimpiazzate dal monetarismo, di segno opposto. Ora, dagli anni '70 ad oggi sono passate due generazioni: solo un pensiero fortemente ideologico può sostenere che la crisi odierna sia in rapporto con le idee keynesiane... ;)


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Re: Come le cattive idee peggiorano la crisi del debito europeo

Messaggioda franz il 12/02/2012, 17:57

flaviomob ha scritto:Sappiamo bene come le teorie di Keynes abbiano rappresentato un riferimento dal New Deal fino agli anni settanta, per essere poi rimpiazzate dal monetarismo, di segno opposto. Ora, dagli anni '70 ad oggi sono passate due generazioni: solo un pensiero fortemente ideologico può sostenere che la crisi odierna sia in rapporto con le idee keynesiane... ;)

Ah, non so cosa sai bene tu o cosa sapete bene voi. Il news deal riguarda gli anni dal 1933 al 1936 e la maggior critica che si fa alle teorie di Keynes è che una crisi che sarebbe potuta durare un solo anno, grazie alle politiche keynesiane è durata fino all'inizio della seconda guerra mondiale. Cioe' le sue politiche non risolvono le crisi, le attenuano si' ma prolungandole, preparando pero' l'appuntamento alle prossime crisi. Vediamo dopo come. Keynes poi è caduto nel dimenticato con la sua morte (1946) e la cosa è dovuta al fatto che la sue influenza era molto forte quando era vivo, per la sua grande abilità oratorie e di persuasione e che con il boom del dopo guerra nessuno sentiva la necessità di misure che si attuano di solito in periodi di crisi.

A mio avviso (e non solo mio) ogni volta che uno Stato, a fronte di una crisi, attua politiche di allargamento dei cordini della borsa per sostenere la domanda (questo è il punto centrale) tramite immissione di denaro fresco, bassi tassi di interessi e defict spending, ecco allora sta seguendo un filone keynesiano. Cosa che a livello americano hanno fatto gli ultimi presidenti della fed.
Ora in sé queste politiche hanno il vago pregio di funzionare debolmente e non sono dannose nell'immediato, ma lo sono nel medio termine, visto che l'immissione di denaro fresco per sostenere la domanda (politiche deflattive) ha il difetto di creare inflazione e bolle speculative (l'afflusso di denaro si concentra nell'affare che sembra dare i risultati migliori piu' a breve, per esempio l'immobiliare o la new-economy). In fondo quello che viene fatto è drogare il mercato con i soldi. Keneyn non credendo molto nel mercato (ci sono momenti alterni in cui sostienee il libero mercato ed altri no) riteneva che il modo migliore per una regolazione intelligente era quella monetaria (bassi tassi di interessi e elevata liquidità) perché sosteneva che il risparmio privato non si traduceva tutto in investimenti e presumeva (errore classico del dirigista) che un regolatore centrale illuminato in ambito monetario sarebbe stato meglio di milioni di risparmiatori ora euforici, ora spaventati. Tuttavia immettendo denaro fresco a basso costo, creave quelle euforie (leggi bolle) che una volta scoppiate (e tutte le bolle scoppiano) creavano la prossima crisi, quindi fuga dal mercato, crollo della domanda, depressione, disoccupazione, nuova necessità di sostengo. In pratica un drogato tra una crisi di astinenza e l'altra.

Riassumendo: Keynes sosteneva alcune cose. Gli stati che hanno fatto quelle cose hanno seguito le sue politiche.
Non è ideologia; è analisi della realtà.

Me veniamo al dunque (il testo di Cavallo o Lunghini).

Le cose per me assolutamente ridicole sono tre.
la prima è che la sinistra, come misure definite tali, indica le politiche di quell'anticomunista di Kenyes, sostenitore a tempi alterni del libero mercato, che pero' era interventista e statalista in campo monetario. Quindi le politiche di sinistra sono principemente monetarie? Direi che proprio a sinistra non si sa piu' a che santo votarsi se ci si riduce a Keynes, che mi pare ben lontano dal mainstrem della ricerca economica moderna.

Il secondo aspetto, questo grottesco, è che alla fine della fiera le proposte concrete, oltre a vaghe politiche keynesiane, sono queste:
Di quali misure stiamo parlando?
Ciocca individua tre voci di spesa su cui intervenire: i trasferimenti alle imprese, che sono spesso forme d’inefficienza se non di illegalità e corruzione, e che alimentano un sistema imprenditoriale affetto da nanismo, con bassi standard tecnologici e scarsa propensione all’innovazione. Questi trasferimenti dovrebbero diminuire almeno di 2 punti percentuali. Gli acquisti di beni e servizi della pubblica amministrazione andrebbero poi centralizzati e ridefiniti, ricontrattando i prezzi fuori mercato, riducendo complessivamente le uscite dal 6 al 9%. Infine, la spesa per il personale potrebbe diminuire circa del 10% con un parziale turnover, tenendo fermi i salari unitari. Assieme ad alcune misure a sostegno della produttività (dagli interventi per le infrastrutture e per la diminuzione della pressione fiscale alla revisione del diritto societario, delle procedure concorsuali, del processo civile, della tutela della concorrenza e del diritto amministrativo) e della domanda (attraverso una spending review dei conti pubblici, per individuare le spese improduttive e tagliarle, aumentando al contempo le spese produttive), queste misure potrebbero portare ad una crescita in 5 anni del 2,5% in termini reali.

Ma questa sarebbero misure di sinistra? Direi prorio di no: sono le classiche misure che l'economia classica o neoclassica propone. Basta sussidi alle imprese (droga) inizio di riduzione della spesa pubblica e dei salari pubblici. Se queste sono misure di sinistra mi converto immediatamente. :-)

La terza cosa letta, che mi ha fatto sobbalzare sulla sedia (e non so se piangere o ribaltarmi dalle risate) è questa frase:
Professore, ma come siamo finiti in questa situazione?
Negli ultimi anni si è avuto un cospicuo spostamento, nella distribuzione del reddito, dai salari ai profitti e alle rendite;

Il professore dimentica stranamente di sottolineare che il principale responsabile di questo trasferimento dal lavoro alla rendita è proprio lo Stato indebitato fino al collo. Perché nel caso italiano, il fatto che esista un debito mostruoso di 1900 miliardi di Euro (interno o esterno non importa) comporta che banche e risparmiatori invece di dare quei soldi all'economia per gli investimenti produttivi (ricerca, impianti, assunzioni, innovazione) li devono dare allo Stato in cambio ... di una rendita, di un profitto (gli interessi sui BOT e CCT). E lo Stato non è produttivo, non crea valore aggiunto, quindi piu' è vasta la fetta di economia pubblica minore è quella privata, che crea (a stento) la ricchezza.
E come si è arrivati a questo debito mostruoso? In tantI modi, comperso il malaffare ma quello principale è di aver pensato alla redistribuzione a pioggia (clientelare) senza avere i fondi necessari a copertura. Quindi una redistribuzione keynesiana fatta a debito, non potendo alzare le tasse oltre una certa misura di decenza.

E qui si chiude il cerchio e chiudo anche io perché l'ho fatta già troppo lunga ;)
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Re: Come le cattive idee peggiorano la crisi del debito europeo

Messaggioda flaviomob il 12/02/2012, 18:20

Se ti riferisci al debito pubblico italiano, mi pare ovvio che si incrementi il debito in uno stato in cui, con l'avvallo della politica "ufficiale" o di gran parte di essa 100-200 miliardi di euro ogni anno vengono sottratti dall'economia legale per finire in salari in nero, affitti in nero, evasione fiscale e contributiva, esportazione illegale di capitali (che si potrebbero esportare anche legalmente, basta dichiararli, se fossero "puliti"), corruzione tra privato e pubblico e tra privato e privato, traffico illegale di droghe e rifiuti, fondi neri all'estero eccetera.

Per quanto riguarda Keynes, le sue teorie sono state la base del new deal e per quanto riguarda l'uscita dalla crisi del '29 è opportuno ricordare come in Europa due paesi ne uscirono con la dittatura, gettando le basi per la successiva II guerra mondiale, mentre gli USA ne uscirono con politiche sociali attive. Nel periodo in cui la Gran Bretagna conferiva il titolo di baronetto a Mussolini, per dire...

Una lettura interessante
http://www.reblab.it/2011/08/marx-keyne ... alistiche/

e anche
http://it.wikipedia.org/wiki/Hyman_Minsky
http://en.wikipedia.org/wiki/Hyman_Minsky


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