RITARDI NAZIONALI
Il passaggio inevitabile (e necessario) alla società delle competenze
M olti auspicano un ritorno ai valori dell' economia italiana del secolo scorso. Non ce n' è bisogno: siamo già fermi agli Anni 50. Nel Novecento le società più avanzate hanno vissuto una grande rivoluzione sociale ed economica. Le società anglosassoni erano classiste, e in qualche caso anche razziste: negli Anni 30, negli Usa, ad Harvard le ammissioni di ebrei e indiani erano contingentate. Poi è esplosa una grande ricerca di eguaglianza, che si è però tradotta nella richiesta di pari opportunità, non di uguaglianza di risultati. La creazione del Sat (il test nazionale standard alla maturità) e l' assegnazione di borse di studio per chi aveva i risultati migliori, indipendentemente dal nome che portava, innescò una rivoluzione dei meccanismi di ammissione alle migliori università americane che si completò nel 1965.
Intanto, nel 1954 Michael Young, un socialista britannico, coniava il termine «meritocrazia». Questa rivoluzione sociale fu accompagnata da una altrettanto significativa rivoluzione economica: il passaggio da una società «industriale» a una «post-industriale», come la definì Daniel Bell nel 1971 (The Coming of a Post-Industrial Society), nella quale contavano sempre meno gli operai e sempre più i lavoratori con competenze avanzate (professionisti, manager, tecnici). Creare idee era divenuto più importante che creare prodotti. Avevano sempre più peso i servizi e le grandi imprese che assumevano la maggioranza dei laureati. Questa profonda trasformazione non toccò l' ideologia del libero mercato, ma ne modificò le condizioni: i servizi sono in gran parte locali e dunque hanno bisogno di più regole del manifatturiero per garantire la concorrenza (un' auto straniera si può acquistare, un abbonamento telefonico di un operatore estero no). E quando le regole sono sbagliate, come è oggi il caso della finanza, portano a catastrofi economiche globali. Ma non si tratta di un «capitalismo anglosassone senza regole». È piuttosto la finanza globale che non sa ancora regolare le grandi banche che «non possono fallire». Ed è cambiata la natura del capitalismo, da famigliare basato sulla ereditarietà a capitalismo e ricchezza basati sull' education e sul lavoro. Il numero dei laureati negli Usa esplose, dal 7 per cento negli Anni 60 al 26 per cento nel 1996. Anche la scuola si è trasformata: i sistemi educativi non hanno più il compito di formare lavoratori per il modello fordista-manufatturiero ma giovani con le giuste «competenze della vita» per l' economia post-industriale: ovvero la capacità di individuare, analizzare e risolvere i problemi, di lavorare con persone diverse, di dibattere e comunicare. Test come il Sat o Pisa e dell' Invalsi misurano proprio queste competenze.
Nel Sud Europa si è seguito un percorso diverso che ha preso forme più radicali in Italia (la Spagna ha spinto la libertà economica e la Francia ha mantenuto i suoi antichi valori della meritocrazia). La ricerca di eguaglianza ha preso la forma della ricerca di «eguaglianza di risultati» invece che delle «pari opportunità». L' antiliberismo economico ispirava la politica e il capitalismo di stampo anglosassone veniva ritenuto incompatibile con la ricerca dell' eguaglianza sociale. Il paradigma economico è rimasto quello dell' era «industriale», favorendo le imprese manifatturiere che esportavano, ma la ricerca della pace sociale ha portato a un' alleanza di ferro Confindustria-Stato-sindacati che in cambio richiese la protezione delle imprese. E il servizio pubblico diventava il più grande datore di lavoro. La scuola seguì un percorso coerente: le scuole e le università dovevano garantire il «diritto allo studio», la didattica era tarata sugli studenti meno dotati e con maggiori difficoltà, al termine «meritocrazia» si associava un' ideologia poco sensibile al sociale. L' utopia di questo paradigma è finita con la globalizzazione che ha messo a nudo la poca competitività delle troppo piccole imprese industriali italiane e con l' ingresso nell' euro che non ha più consentito di svalutare la lira per aiutare le imprese a esportare e allo Stato di spendere per creare lavoro.
Questo paradigma lascia oggi gli italiani con la società più ineguale del mondo occidentale perché il gap tra ricchi e poveri è a livello del mondo anglosassone ma la mobilità sociale è molto inferiore: i poveri non hanno le opportunità di diventare più ricchi. La ricchezza basata sul capitale (gli italiani sono più ricchi degli americani e dei tedeschi) si erode perché i figli non lavorano. L' antiliberismo ci ha fatto scivolare all' 88° posto nella classifica della libertà economica, dopo Thailandia e Turchia e, anche quando si attenuava, il libero mercato non poteva nascere perché mancava la cultura del rispetto delle regole. Il libero mercato non nasce in un' economia con un sommerso record di milioni di piccole imprese inefficienti che sopravvivono facendo concorrenza sleale alle altre. Il capitalismo famigliare italiano è restato quello dell' inizio del secolo scorso: basato sulla ereditarietà e non sull' education e dove la famiglia conta più dell' impresa.
Mancando le grandi imprese, la domanda di laureati non si è sviluppata come nelle società post-industriali: ecco perché siamo il fanalino di coda per numero di laureati. La ricerca dell' egualitarismo e la paura della concorrenza hanno fatto un' altra vittima illustre: l' eccellenza italiana. Mancano le università eccellenti e i giovani con livello 5 e 6 ai test Pisa sono la metà della Francia e un terzo della Finlandia. La nostra società è incapace di selezionare i suoi giovani migliori: le borse di studio, essendo basate su voti falsi e su un reddito anch' esso falso, vanno spesso a mediocri figli di evasori. A soffrire non è solo l' eccellenza ma anche la qualità media del nostro sistema educativo.
Il sistema scolastico è ancora basato sulla riforma Gentile, adatto al modello «industriale», ma inadeguato per un' economia che richiede le «competenze della vita»: in un terzo delle regioni italiane (in maggioranza al sud), i test Pisa sono un disastro. E, secondo un test sulle «competenze della vita» sulla popolazione tra 16 e 64 anni, l' 80 per cento degli italiani sono risultati «analfabeti». Perché sanno leggere, ma non capiscono ciò che leggono. Siamo in ritardo di 50 anni per trasformarci in una società post-industriale. Per farlo, è necessario farne nascere i due valori chiave: meritocrazia e libertà economica basata su regole giuste rispettate da tutti.
http://meritocrazia.corriere.it RIPRODUZIONE RISERVATA
Abravanel Roger
(30 aprile 2011) - Corriere della Sera