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Choc federale: sette regioni mantengono le altre

Discussioni su aspetti locali di attualità, specifici o comuni a vari luoghi, ove già non affrontati nei forum tematici. Riforme locali: decentramento e federalismo.

Choc federale: sette regioni mantengono le altre

Messaggioda franz il 13/08/2008, 14:58

Choc federale
di Luca Piana
Sette regioni mantengono le altre. Che farebbero fatica a tenere aperti ospedali e scuole.
Da Bolzano alla Sicilia , ecco chi rischia la crisi con la riforma


Raffaele Lombardo, viceré berlusconiano in Sicilia, c'è andato giù duro. All'inizio di agosto, celebrando i primi cento giorni da presidente della Regione, ha detto di non considerare l'unità d'Italia un vantaggio per la storia siciliana. Subito dopo, però, ha annunciato che tratterà con il ministro leghista Roberto Calderoli, artefice del federalismo fiscale prossimo venturo, il modo per salvaguardare il fiume di denaro pubblico che affluisce nell'isola, facendone la regione più assistita d'Italia.

L'ambiguità di Lombardo, autonomista a parole, ma centralista quando si tratta di incassare, ha una spiegazione semplicissima. La questione siciliana è uno dei punti critici che il governo di Silvio Berlusconi dovrà affrontare per regalare agli alleati della Lega Nord e all'Italia intera il federalismo fiscale, una riforma che nel Meridione preoccupa i più. Il motivo lo mostra la figura di pagina 46. Nessun'altra regione ha un bilancio così negativo fra le spese sostenute complessivamente dalle amministrazioni pubbliche sul suo territorio e le entrate fiscali raccolte dai cittadini che lo abitano. Un saldo che in Sicilia è un baratro: oltre 13,2 miliardi di euro.

IN SETTE PAGANO PER TUTTI

I dati, elaborati dall'Ufficio studi dell'Associazione degli artigiani (Cgia) di Mestre, descrivono il punto da cui parte l'Italia per intraprendere la riforma federalista. Il fattore chiave è il residuo fiscale, la differenza fra quanto lo Stato incassa dai cittadini di ogni regione e quanto spende per loro. Dalla figura si vede che, su 19 regioni e due province autonome, solo sette hanno un residuo positivo: si va dai 38 miliardi della Lombardia ai 2 delle Marche, passando per Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Toscana e Lazio. Se si considerano i dati per abitante, nella classifica dei più tartassati, restano in vetta i lombardi, o almeno quelli che pagano le tasse: ogni anno elargiscono alla pubblica causa 4 mila euro a testa, seguiti dagli emiliani con 3.656. I più fortunati invece sono i valdostani: grazie alle prerogative dell'autonomia incamerano circa 4.191 euro l'uno.


GIÙ LE MANI DAL BOTTINO
I numeri fotografano un'Italia dove nel tempo le differenze economiche sembrano farsi più profonde, invece di ridursi. E la spaccatura non lascia dubbi ai sostenitori del federalismo: "Solo chi spende i propri soldi, li può spendere bene", riassume Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre, secondo il quale "il federalismo è necessario per coniugare efficienza dell'amministrazione e responsabilità della politica". Una regola aurea che ha però, dice Bortolussi, un corollario: "Regioni come la Lombardia e il Veneto dovranno darsi da fare: quando avranno le mani libere, sarà essenziale investire in innovazione, creare lavoro qualificato, far crescere la loro economia per fare da traino a tutti".

Allo stesso tempo i dati mostrano anche il motivo per cui un federalismo senza condizioni è politicamente impossibile. Stando a questi calcoli, infatti, circa 30 milioni di italiani vivono in rosso. Una regione come la Campania, se da un giorno all'altro dovesse cavarsela da sola, dovrebbe azzerare la sanità, chiudendo tutti gli ospedali. Ma non basterebbero per colmare la voragine nei conti di Sicilia e Calabria, che forse dovrebbero tagliare anche le scuole. Pure la Liguria, peraltro, si troverebbe costretta a pesanti sacrifici, visto che il suo residuo fiscale è negativo per 853 milioni.

MODELLO LOMBARDO ADDIO
È per questo che, probabilmente, sono state abbandonate le ipotesi più spinte di federalismo. Dopo essere stata inserita nel programma elettorale del Popolo della libertà, è finita nel cassetto la proposta messa a punto dalla Regione Lombardia, che a inizio luglio veniva ancora difesa dal ministro dell'Interno, Roberto Maroni. Se fosse diventato legge, il modello lombardo avrebbe dirottato alle regioni l'80 per cento dell'Iva pagata localmente e metà del gettito dell'Imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef). Secondo i calcoli degli economisti, il budget delle regioni sarebbe esploso da 87 a 206 miliardi. A fronte di questo mare di quattrini, però, i raffinati giuristi lombardi si erano dimenticati di indicare quali spese sarebbero divenute di loro competenza.

oggi, dunque, sul tavolo restano due ipotesi. La prima è stata firmata dal ministro Calderoli, la seconda dalla Conferenza delle regioni guidata dal presidente emiliano Vasco Errani. Entrambe, in attesa dei colloqui che partiranno a fine mese, evitano di indicare quante risorse passeranno concretamente dal controllo statale a quello delle regioni. Già oggi, tuttavia, è possibile identificare alcuni snodi cruciali.

OBIETTIVO COLPO DI SPUGNA
Il cardine del sistema Calderoli, che verrà presentato in Consiglio dei ministri il 12 settembre con la supervisione del ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, è l'abbandono del costo storico dei servizi come criterio per determinare i budget. L'idea è questa: la spesa pubblica è incrostata di sprechi al punto da non servire come indicatore del giusto prezzo dei servizi forniti ai cittadini. In futuro, dunque, anche per materie garantite dalla Costituzione come scuola e sanità verranno stabiliti dei costi standard, finanziati trattenendo in ogni regione una parte delle tasse versate in loco. Chi spenderà meno, avrà le risorse per estendere l'offerta, magari aumentando le cure garantite. Chi sprecherà, avrà vita dura.

Se per l'istruzione, inserita da Calderoli nel suo testo ma non dalle regioni, mancano del tutto dati regionali, una simulazione condotta da Anna Paschero, uno dei tecnici della Regione Piemonte che stanno lavorando sulla riforma, mostra invece quel che potrebbe accadere nella sanità. Il fabbisogno sanitario pro capite, infatti, cambia da regione a regione: si va dai 1.382 euro della Campania ai 1.657 della Liguria, dove pesa l'elevato numero di anziani. La media è di 1.491 euro per abitante, un livello sul quale potrebbero collocarsi i costi standard voluti dalla riforma. Tra le regioni a statuto ordinario anche Calabria, Puglia, Basilicata, Veneto e Lombardia stanno sotto la media e potrebbero beneficiare di maggiori risorse. Le altre tireranno la cinghia.

SCUOLA MODELLO FEDERALE
Il fatto che materie delicate come la sanità e l'istruzione possano cadere fra le responsabilità delle regioni non preoccupa gli esperti. "Oggi veniamo da una lunga storia di spesa gestita dal centro in modo ferreo, eppure ci sono differenze abissali da una città all'altra", dice Gilberto Muraro, docente all'Università di Padova e autore di numerosi scritti sul federalismo, secondo il quale "quel che serve è una maggiore responsabilizzazione". Allo stesso tempo, tuttavia, Muraro vede con favore il fatto che siano previste verifiche periodiche del nuovo sistema: "In questo modo eventuali errori non pregiudicheranno il futuro", spiega.

CHI PAGA L'UGUAGLIANZA
Uno dei problemi, però, è come consentire alle regioni più povere di far quadrare i conti, almeno all'inizio. L'idea di Calderoli è prendere le tre regioni migliori e calcolare che fetta di tasse devono trattenere per sostenere la loro spesa. Si calcola la media fra le tre. Chi riesce a spendere meno, versa il resto in un fondo (detto perequativo) che verrà ripartito fra chi, al contrario, spende di più. Per pagarsi la propria sanità, alla Lombardia basterebbe trattenere una fetta del gettito Irpef del suo territorio pari a un'aliquota del 4,4 per cento; in Calabria, dove i redditi dei cittadini sono più bassi, si arriverebbe al 16,3. Le tre regioni migliori - ipotizzate secondo le schema Calderoli - sarebbero dunque Lombardia, Emilia Romagna e Lazio. L'aliquota media fra le tre (il 5,3 per cento relativa all'Irpef) è però inferiore a quella che sia l'Emilia che il Lazio dovrebbero trattenere per sostenere interamente la loro spesa sanitaria.

MEDIAZIONE EMILIANA
Questi calcoli hanno un risultato paradossale: solo la Lombardia darebbe un contributo al fondo perequativo, pari a circa 1,2 miliardi. Tutte le altre Regioni, comprese quelle che generano sul loro territorio un gettito fiscale sufficiente a ripagare per intero le loro spese, andrebbero a debito con il fondo perequativo, rimpinguato dallo Stato per circa 11 miliardi l'anno, al quale dovrebbero chiedere denaro continuamente per pagare medici e infermieri. I problemi sono vari. Le regioni che hanno i conti in ordine non ci stanno a fare inutilmente brutta figura. Le altre temono, se le risorse venissero elargite direttamente da quelle più ricche, di dover dipendere dagli avversari politici, i quali potrebbero bloccare i finanziamenti al fondo. Per questo motivo la Conferenza delle regioni ha definito un altro sistema, che passa dalla triangolazione dello Stato, che risulterebbe il distributore delle risorse: "La nostra proposta è l'unica che possa tenere insieme Nord e Sud, regioni grandi e piccole", avverte Errani, che chiede un periodo di transizione di cinque anni, più lungo dei tre proposti da Calderoli "Oggi", spiega il presidente emiliano, "nessuno è in grado di dire quale sia il costo standard per moltissimi servizi: stabilire un percorso morbido è l'unico modo per arrivare a una soluzione credibile".

IL RICATTO
Non tutti, però, sono convinti che il meccanismo studiato da Calderoli possa reggere alle pressioni che arriveranno dai partiti. Dice Fabio Pammolli, presidente del Cerm, un centro indipendente di ricerca economica: "I principi della riforma sono indiscutibili. Dubito però che per molti servizi di base, che dovranno essere garantiti dalla Lombardia alla Puglia, sarà possibile definire un costo standard". Spiega Pammolli: "Man mano che si allarga il ventaglio di servizi offerti da una regione, diventa sempre più difficile stabilire un costo standard: qual è il costo 'giusto' per un efficiente servizio di assistenza agli anziani a Milano rispetto a Campobasso?". Il rischio, spiega l'economista, è che la compilazione di un elenco infinito di prezzi e servizi apra la strada al ricatto da parte dei parlamentari delle regioni politicamente più influenti, per far lievitare progressivamente i costi standard, ammorbidire i vincoli di bilancio e tornare, di fatto, al rimborso generalizzato a pié di lista delle spese sostenute. Con un rischio ulteriore: che ogni regione d'ora in poi faccia da sé. E che tutte restino, irrimediabilmente, sprecone
(13 agosto 2008)
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Re: Choc federale: sette regioni mantengono le altre

Messaggioda franz il 13/08/2008, 21:29

Il problema di base che intendo far rilevare è la assoluta incompetenza dei personaggi politici che discutono di questi problemi.
Come leggere farfalle passano dai costi all'onere tributario dimenticando che quest'ultimo è afflitto da una evasione che supera - nella media nazionale - il 25% del PIL ma che è anche ben differenziata sul territorio.
Se la media è tra il 25 ed il 30% del PIL (a seconda delle stime) essa è sotto il 20% al Nord, attorno alla media al Centro, attorno al 40-50% al Sud, con punte del 90-95 percento in alcuni settori (agricoltura ed edilizia).

A ben dire che certe regioni vivrebbero in rosso! Ma sono le stesse in cui il nero si avvicina al massimo.
Che ricuperino l'evasione e la smettano di piangere.

Sul piano dei costi poi sono giuste alcune considerazioni sulla sanità (che a ben vedee nei paesi federali ha un sistema di finanziamento solo in parte di tipo fiscale ed è in gran parte di tipo assicurativo obbligatorio) ma non si tiene conto che in un paese federale con grandi divari (come potrebbe inizialmente essere il nostro) gli stipendi pubblici non sarebbero uguali per tutti, da bolzano a pantelleria ma seguirebbero il costo della vita, che in fatti è ben diverso (30% tra nord e sud) già nel privato.

Oggi lo stesso stipendio pubblico (ed 1700 €) uguale per tutti, forse è adeguato solo per chi vive nel Centro Italia.
Al Nord invece lo stesso stipendio è da fame, mentre al Sud rappresenta un reddito di tutto rispetto.

Che succederebbe ad applicare stipendi pubblici su scala locale, come di fatto già si fa nel privato?
Che al Nord dovrebbero finalmente garantire stipendi adeguati al costo della vita. Aumentandoli.
E questo si rifletterebbe nella necessità di avere un gettito fiscale adeguato. Forse aumentandolo.
Perché e evidente che l'insegnante di varese, che con 1700 euro fa la fame, si chiederebbe che cavolo se ne fa del federalismo se continua ad avere lo stesso stipendo da fame che prima riceveva da Roma.

Al Sud invece è chiaro che stante un costo della vita che è del 25-30% inferiore se abbassassero gli stipendi pubblici - anche solo del 10%) potrebbero anche abbassare la pressione fiscale. Cosa che unita ad un buon ricupero dell'enorme evasione potrebbe portare a tasse al sud molto piu' basse di quelle del nord. Questo a sua volta, se unito ad investimenti per strutture e sicurezza, puo' finalmente rilanciare il Sud.

Senza considerare questi aspetti:
a) la differenza di evasione tra nord e sud
b) la differenza di costo della vita tra nord e sud
c) le differenze salariali tra nord e sud, per ora dsolo nel privato ma in futuro anche nel settore pubblico
... per me è chiaro che si fanno solo discorsi vuoti e propaganda estiva.

Ovviamente sono pochi i politici della CdL che hanno il coraggio di dire che federalismo fiscale ha senso se gli sipendi pubblici sono su base locale e se al Sud finalmente si danno una mossa con l'evasione e sono pochi quelli del centro sinistra disposti ad accettare l'idea di stipendi pubblici diversi a seconda di regioni e/o provincie.
Ragion per cui il concetto viene feudianamente rimosso e non si capisce quindi a cosa serva il federalismo fiscale.

In particolare va tuttavia rilevato che nei paesi che sono federali da lungo tempo le differenze geopolitiche sub-nazionali (indice di Gini) sono basse e calanti per cui è facile trovare stipendi pubblici e privati omogenei o uguali nelle varie entità geografiche. E' da noi, dopo piu' di un secolo di gestione centralizzata, che il divario continua a crescere ed è arrivato a quello che sappiamo.

Il federalismo (compreso quello fiscale) puo' invertire la tendenza ma la medicina va presa tutta; anche quella che non piace. Quindi non basta differenziare le imposte (a tutti piacerebbe vederle calare). Bisogna differenziare i costi, legadoli al costo della vita e tra questi c'è il personale. Bisogna anche intervenire sull'evasione ed essa è maggiore dove ci si lamenta che scarseggiano le risorse fiscali. Per ora pagano quelle sette regioni ma forse è un bene che smettano di farlo.
Forse quelle sette regioni pensano cosi' di guadagnarci ma se dovessero contemporaneamente adeguare gli stipendi dei loro dipendneti si accorgerebebro che forse il federalismo fiscale è piu' un vantaggio del sud (che ha ampia possibilità, volendo, di ricupero dell'evasione) che del Nord, che dovrebbe aumentare gli stipendi pubblici del 15-20%.

Ciao,
Franz
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