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Prodi: "La crisi dura, politica industriale limitata"

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Prodi: "La crisi dura, politica industriale limitata"

Messaggioda annalu il 12/02/2010, 20:13

Da DIRE POLITICO:
Prodi attacca il governo: "La crisi dura, politica industriale limitata"
L'ex premier: "Non siamo affatto usciti dalla crisi. E non ho visto politiche governative per l'innovazione. Non posso criticare... il nulla"

ROMA - "Non ho visto politiche governative di coordinamento per l'innovazione. Non posso nemmeno criticare, perche' non si puo' criticare il nulla. Il nostro programma di Industria 2015 aveva un orizzonte giusto, decennale, perche' questi processi hanno bisogno di un obiettivo a lungo termine". Romano Prodi attacca la politica industriale del governo nella sua lectio magistralis sulla competitivita' dei sistemi industriali in tempo di crisi tenuta a Manifutura, festival dell'economia reale 2010 a Pisa. "Dobbiamo - continua Prodi - investire nell'aggregazione fra grandi e piccole imprese nei centri di ricerca, rendere conveniente la trasmigrazione fra universita', centri di ricerca, dobbiamo sviluppare tecnologie innovative". Secondo l'ex premier "dobbiamo incentivare la fusione e la collaborazione fra imprese. Ma anche porre grande attenzione quando le imprese vengono acquistate dai fondi finanziari. La loro sorte e' quasi sempre segnata: gli obiettivi dei fondi sono a breve, quelli delle imprese a lungo. Dobbiamo- conclude- creare imprese, non necessariamente grandi, ma in settori molto specializzati".
Il problema per Prodi è che "dalla crisi non siamo affatto usciti, anzi ci vorranno ancora molti anni prima di superarla del tutto. Non sono ottimista perche' vedo fatica nelle imprese: l'utilizzazione dei macchinari e' piombata fra il 60 e il 70% della capacita'. È un problema serio: ci vorranno 20 punti di ripresa per ritornare allo sfruttamento pieno degli impianti". Nel frattempo, insiste Prodi, "si indebolisce la struttura finanziaria delle imprese. Rischiamo che nei prossimi mesi diventi estremamente serio il problema degli insoluti".
Per quanto riguarda il Mezzogiorno "non esistono le condizioni per lo sviluppo di un'imprenditorialita' diffusa a causa delle condizioni di agibilita' a causa della presenza massiccia di attivita' criminali".
Poi Prodi allarga la sua critica all'Europa: "Avere economie che si orientano in modo diverso rende piu' complicata la politica dell'Unione europea. Ora l'Italia prende solo le briciole: e' il risultato della nostra limitata presenza a Bruxelles. La mancanza di una politica industriale italiana e la ridotta dimensione delle imprese consentono alle grandi aziende europee di fare lobby e orientare le politiche e i finanziamenti Ue quasi naturalmente verso i loro interessi. Dobbiamo riprendere la politica industriale- spiega- non e' una parola sporca. La mancanza di grandi imprese e' un problema serio. Eppure, nonostante questo, nella crisi abbiamo tenuto grazie alla meccanica strumentale, oltre al made in Italy. L'industria e' l'unico settore che regge alla concorrenza internazionale". Il problema, insiste l'ex premier, "non e' il costo della manodopera ma la mancanza di politiche settoriali di sostegno alla domanda ma soprattutto alla produzione e alla ricerca. Dobbiamo costruire una politica industriale incentrata sulle nostre caratteristiche, sulle filiere nei settori molto specializzati dove siamo forti".
12 febbraio 2010
annalu
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Re: Prodi: "La crisi dura, politica industriale limitata"

Messaggioda franz il 12/02/2010, 21:26

"Dobbiamo - continua Prodi - investire nell'aggregazione fra grandi e piccole imprese nei centri di ricerca, rendere conveniente la trasmigrazione fra universita', centri di ricerca, dobbiamo sviluppare tecnologie innovative"

Esatto ... e dobbiamo farlo anche perché gli altri lo fanno da decenni e quindi non stanno mica fermi.
Lo so bene perché all'estero sono coinvolto in questi processi, in parte contribuisco pure.
All'estero sono in movimento, siamo noi ad essere fermi ed arretrare.

La mancanza di una politica industriale italiana e la ridotta dimensione delle imprese consentono alle grandi aziende europee di fare lobby e orientare le politiche e i finanziamenti Ue quasi naturalmente verso i loro interessi. Dobbiamo riprendere la politica industriale- spiega- non e' una parola sporca. La mancanza di grandi imprese e' un problema serio

Qui sono in discreto disaccordo con il Prof. Il calo delle grandi imprese (come numero e come dipendenti) è una costante generale delle economie occidentali da 20 anni a questa parte. Fenomeno accompagnato dalla crescita tumultuosa delle piccole imprese. Oggi il 99.9% delle imprese è costituito da PMI. Non solo da noi. Ovunque. Oggi sono tutte PMI. Le grandi imprese sono lo 0.1 o al massimo lo 0.2% Eppure non credo affatto che vadano rilanciate le grandi imprese (che sono elefantiache, centri di potere lenti e tarde ne reagire) ma che invece vada trovato un modo nuovo di fare "rete" tra le piccole e le medie imprese, senza escludere le "micro", che sono il taglio piu' piccolo ma dinamico e piu' vicino all'innovazione e anche + voluminoso (piu' dell'80% delle imprese ha meno di 10 dipendenti) e senza escudere le grandi, che dalla dinamicità delle piccole hanno tutto da imparare e guadagnare.

Il concetto moderno non è la "grande impresa" (struttura monolitica e gerarchica) ma una fitta rete interconnessa di piccole, medie e microimprese. Se questa rete è ben congeniata e supportata (o al meno non ostacolata) i piccoli - uniti - possono vincere sfide che le grandi imprese non possono nemmeno concepire.
Non è un caso che le grandi imprese siano sempre meno e con meno dipendenti mentre le piccole aumentino sia di numero sia di addetti. Avviene in tutta europa.

D'accordissimo che il problema è la mancanza di politiche di sostegno alla produzione e alla ricerca ma se queste politiche ci fossero ritengo che le PMI potrebbero approfittarne, per il loro dinamismo, prima ancora che le grandi imprese.
Oggi alcuni artigiani italiani, con pochissimi dipendenti, riescono a vincere importantissimi e ricchissimi appalti internazionali e lo fanno proprio mettendosi insieme, in rete, cooperando. La cooperazione dei piccoli batte la lentezza del grande. Lo dice anche un noto proverbio africano: se le formiche si mettono d'accordo, possono spostare un elefante.
Dobbiamo costruire una politica industriale incentrata sulle nostre caratteristiche, sulle filiere nei settori molto specializzati dove siamo forti".

Giustissimo. Le nostre caratteristiche sono quelle dell'artigianato locale, legato alle tradizioni e di taglio micro o piccolo.
Queste realtà sono sempre state attive localmente ma oggi, unite in rete, possono essere "grandi" sul fronte internazionale.
Qui il problema allora non è solo quello dell'innovazione di prodotto, di produzione o di mercato ma dell'innovazione organizzativa, della struttura tra le imprese.
Vero è che però ci manca il carburante fondamentale: l'innovazione, la ricerca.
Senza carburante ogni motore rimane fermo, anche se ha buone idee.
Ma è piu' facile muovere 100 motorini che un carro armato da 70 tonnellate.

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Re: Prodi: "La crisi dura, politica industriale limitata"

Messaggioda pianogrande il 13/02/2010, 0:04

I piccoli, generalmente, non fanno ricerca.
Vogliamo una "rete" al posto delle grandi imprese?
Benissimo.
L'importante è raggiungere la massa critica necessaria per avviare ricerca e processi di lungo periodo.
Ha bisogno di un capofila (o filiera) questa rete?
Questo è il primo problema.
Può essere lo stato?
Perché no, anche senza sovietizzazioni (lo stato dovrebbe indirizzare ed incentivare ma non partecipare direttamente).
Un'altro capofila potrebbe essere una grossa impresa rispetto al suo indotto.
Come, altrimenti, possono consorziarsi o, comunque, connettersi le PMI?
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Re: Prodi: "La crisi dura, politica industriale limitata"

Messaggioda franz il 13/02/2010, 11:49

pianogrande ha scritto:I piccoli, generalmente, non fanno ricerca.
Vogliamo una "rete" al posto delle grandi imprese?
Benissimo.
L'importante è raggiungere la massa critica necessaria per avviare ricerca e processi di lungo periodo.
Ha bisogno di un capofila (o filiera) questa rete?
Questo è il primo problema.
Può essere lo stato?
Perché no, anche senza sovietizzazioni (lo stato dovrebbe indirizzare ed incentivare ma non partecipare direttamente).
Un'altro capofila potrebbe essere una grossa impresa rispetto al suo indotto.
Come, altrimenti, possono consorziarsi o, comunque, connettersi le PMI?

Vero, i piccoli non fanno ricerca ma sono molto rapidi nell'introduzione di innovazioni fatte altrove.
Inoltre molte piccole start-up nascono attorno a neolaureati che hanno avuto l'idea geniale, sviluppata all'univ erstà (spesso all'estero).
Poi non tutta la ricerca ha bisogno di grandi aziende per essere fatta. 20 anni fa in campo informatico ed elettronico la ricerca e l'innovazione erano fatte da IBM, DIGITAL, HP, Texax Instruments. Oggi invece ci sono altri colossi. Ma i colossi di oggi erano "micro" 25, 15 o 10 anni fa (e si chiamavano Microsoft, Google, Yahoo ....) ed hanno sviluppato le loro innovazioni (di prodotto e di mercato) quando erano piccoli.
Sul piano pratico, ci sono poche innovazioni che sono concepibili solo con enermi investimenti in grandi centri di ricerca.
E questi grandi centri ci sono (all'estero).
Il resto è alla portata di piccoli laboratori, con un investimento modesto, alla portata di una rete distrettuale di imprese, cui puo' (deve) far parte anche l'università e qualche grande impresa.

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Prodi. L’Europa ha bisogno di strumenti contro la crisi

Messaggioda annalu il 15/02/2010, 20:33

L’Europa ha bisogno di strumenti contro la crisi
di Romano Prodi.
Da Il Messaggero, 14 febbraio 2010

Alla fine è finita come doveva finire. Francia e Germania si sono finalmente impegnate a venire in aiuto al disastrato bilancio greco. Lo hanno fatto dopo infinite discussioni e sospetti che lasceranno conseguenze sgradevoli, anche perché la Germania è stata trascinata per i capelli ad impegnarsi solo dopo lunghe esitazioni e giudizi spesso sprezzanti nei confronti del governo e del popolo greco. La signora Merkel sa infatti benissimo che i tedeschi sono ossessionati dalla paura di dovere intervenire in aiuto dei partner meno rigorosi e, per sua natura, essa non intende assumere rischi eccessivi.

È questa stessa paura che ha impedito che, quando è nato l’euro, si siano stabilite regole di intervento per eventi che prima o poi sarebbero accaduti. Grandi o piccole crisi finanziarie sono infatti fenomeni ricorrenti, anche se non quotidiani.

Mi ricordo che quando a Bruxelles si discuteva di questi problemi io chiedevo insistentemente che cosa si sarebbe fatto se un terremoto avesse distrutto il Lussemburgo. La domanda era naturalmente assurda e provocatoria perché il Lussemburgo non è zona sismica ma, proprio per la sua assurdità, voleva mettere in rilievo la necessità di avere regole di intervento e di aiuto in caso di eventi imprevisti in un qualsiasi Paese appartenente all’euro. Non se ne fece nulla, non si volle affiancare alla politica monetaria una politica economica comune e ci si limitò a stabilire regole di comportamento (il così detto patto di stabilità) senza strumenti di coordinamento e di controllo preventivo da parte delle autorità comunitarie. E quando “il terremoto del Lussemburgo” si è materializzato nell’incontrollato deficit del bilancio greco, l’unico strumento che avevamo in mano era un patto di stabilità che non poteva che essere definito “stupido” proprio perché era uno strumento rigido e non prevedeva strategie di intervento quando queste erano necessarie.

Siamo arrivati all’assurdo che la Lettonia e l’Ungheria, Paesi membri dell’Unione Europea ma non della zona Euro, quando sono precipitati in una situazione di difficoltà finanziaria, hanno facilmente trovato un diretto interlocutore nel Fondo monetario internazionale che, con mezzi adeguati, ha preparato un’efficace strategia di uscita dalla crisi. Si sarebbe potuto fare la stessa cosa con la Grecia, ricorrendo anche in questo caso al Fondo monetario internazionale ma una sorta di orgoglio europeo lo ha fortunatamente impedito, anche se molti lo chiedevano. Certo sarebbe stato più semplice, perché il Fondo monetario internazionale dispone delle strutture di controllo e di monitoraggio che le autorità europee non hanno ancora voluto organizzare. Ma sarebbe anche stato un messaggio di rinuncia delle autorità europee a completare la costruzione dell’euro. A questo punto la logica vorrebbe che si mettesse mano a qualcosa simile ad un Fondo monetario europeo per fare fronte ad altre future crisi che prima o poi verranno. Questo fondo sarebbe il logico completamento del patto di stabilità. Oggi però nessuno ci pensa: si preferiscono le soluzioni caso per caso come quella costruita per la Grecia. Un Fondo monetario europeo, con sue strutture forti e specializzate, costituirebbe qualcosa di troppo simile a un’unione non solo monetaria ma anche economica e finanziaria. Questo ci porterebbe nella direzione di una più forte unione politica, cosa che quasi nessuno, tra i capi di Stato o di governo, oggi vuole.

E che l’attuale frammentazione dei poteri europei rende ancora più difficile.

In tal modo rimaniamo in mezzo al guado, con un euro che ci ha salvato da tanti guai, ma intorno a cui non si vogliono costruire gli strumenti necessari per fare dell’Unione Europea un grande protagonista della vita politica ed economica mondiale.

Ed in mezzo al guado rimarremo per un pezzo.

Fatte queste osservazioni bisogna però sottolineare che l’euro rimane una valuta forte,un vero e proprio pilastro dell’economia europea e una necessaria alternativa al dollaro nell’economia mondiale.

Le vicende greche (e le preoccupazioni che riguardano la Spagna, l’Irlanda e il Portogallo) hanno indebolito la quotazione dell’euro rispetto al dollaro, ma questo non è certamente un fatto negativo, perché la rivalutazione eccessiva della nostra moneta ha fortemente danneggiato le esportazioni in questo periodo di gravi e permanenti difficoltà economiche. Se la quotazione dell’euro scendesse di qualche altro punto nessuno certamente piangerebbe. Anche perché i segnali che vengono dall’economia reale non sono incoraggianti: sono ormai mesi che si parla di ripresa ma tutti gli indicatori dell’economia italiana continuano ad essere preceduti dal segno meno. Salvo quello della disoccupazione, che continua a crescere.
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Re: Prodi: "La crisi dura, politica industriale limitata"

Messaggioda pianogrande il 16/02/2010, 16:27

Noi, nel nostro piccolo, siamo molto lungimiranti.
In mancanza degli "Stati Uniti d'Europa" stiamo dannandoci l'anima per costruire gli "Stati Uniti d'Italia".
Qualcuno dirà: "Ma l'Italia è già unita".
E' vero.
Questo è un problema ma è di facile soluzione.
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Re: Prodi: "La crisi dura, politica industriale limitata"

Messaggioda annalu il 22/02/2010, 20:06

Da Il Messaggero, 21 febbraio 2010:
Nessuno può guardarci dall’alto in basso
I deficit di USA, Inghilterra e Spagna.
di Romano Prodi

Da quando è cominciata questa lunga crisi economica sono entrati in crisi anche coloro che per professione commentano, analizzano e fanno previsioni sull’economia. In primo luogo perché il crollo è giunto quasi totalmente imprevisto, anche se molti si sono affrettati a dire che già l’avevano messo in conto, semplicemente perché avevano scritto che gli squilibri esistenti non potevano durare all’infinito. E non era certo difficile dirlo. Le contraddizioni e le divergenze nel dibattito di oggi trovano tuttavia origine soprattutto nel fatto che la lunghezza e la profondità della crisi si accompagnano a cambiamenti del tutto imprevisti.

Qualsiasi siano le caratteristiche, i tempi e le modalità della ripresa emerge infatti una perdita di peso e una netta diminuzione della libertà di movimento degli Stati Uniti. Il costo dello sforzo militare che da ormai molti anni è crescente in ogni parte del mondo sommato al costo del salvataggio del sistema finanziario e delle riforme promesse dal presidente Obama, hanno portato il deficit americano verso dimensioni insostenibili (superiori al 10%) anche da parte di un paese che possiede la moneta che è ancora il punto di riferimento dell’economia mondiale.

Attraversando l’Atlantico si incontra un’Europa che complessivamente ha le carte più in ordine, con un deficit medio poco più della metà di quello degli Stati Uniti, ma con differenze enormi tra paese e paese.

Si passa da un -3,6% della Germania, al -5,2% dell’Italia al -12,3 della Grecia e della Gran Bretagna, fino a oltre il -13% dell’Irlanda.

Queste disparità hanno naturalmente attirato l’attenzione sul paese che unisce un deficit pesantissimo ad un debito pregresso altrettanto pesante, cioè la Grecia.

Come succede in questi casi è partita la speculazione, sono partite le previsioni negative rispetto al futuro e, in modo assolutamente immotivato, si è arrivati a prevedere perfino una prematura fine dell’Euro. Nulla di tutto questo accadrà perché, nonostante la critica situazione delle istituzioni europee, alla fine si è trovato un principio di accordo per venire incontro alle emergenze della Grecia.

L’Euro è infatti uno strumento troppo prezioso per abbandonarlo di fronte ai pur esecrabili errori dei governi dei paesi che ne fanno parte.

Questa altalena di eventi ha tuttavia portato a variazioni nei cambi anch’esse impreviste e, apparentemente, del tutto irrazionali. Fino a pochissimi mesi fa non solo l’Euro quotava attorno a 1,50 dollari ma le analisi più raffinate concordavano nel prevederne un ulteriore ascesa. C’era perfino chi riteneva inevitabile arrivare al livello di due dollari per euro. A causa della diversità delle situazioni tra paese e paese e , soprattutto, a causa della debolezza dei poteri di intervento delle istituzioni europee, l’Euro ha invece perduto il 10% del suo valore nei confronti del dollaro.

E la situazione è così incerta e confusa che, personalmente mi rifiuto di fare qualsiasi previsione sul futuro dei cambi, proprio perché manca ogni linea comune sulle grandi decisioni riguardo alla politica economica mondiale.
In tale confusione l’unico punto fermo è che certamente non piango per l’indebolimento dell’Euro perché questo indebolimento costituisce oggi lo stimolo maggiore per le nostre esportazioni. Il che, per un paese come l’Italia, è l’aiuto più concreto ad una ripresa che ancora non si è seriamente materializzata.

Ritornando un attimo all’Europa, è doveroso notare come paesi come La Gran Bretagna e la Spagna, che si presentavano come virtuosi e si permettevano di guardare dall’alto in basso l’Italia, presentano ora un bilancio pubblico con deficit fino a pochi anni fa inimmaginabili.

Questi alti e bassi dovrebbero spingere a un maggiore equilibrio di giudizio ma, soprattutto, a collaborare maggiormente nella direzione di una più forte costruzione europea. Il quadro politico va tuttavia nella direzione opposta e gli attuali leader europei sono più spinti a seguire le paure dei propri cittadini che non a spiegare loro cosa ci aspetta nel futuro. E per vedere questo futuro materializzarsi ci dobbiamo perciò spostare ulteriormente verso est, dove la nuova Asia non solo ha già superato la crisi ma accumula le risorse materiali e umane per assumere un ruolo trainante nel futuro.

Ci tocca perciò concludere che l’unica cosa certa è che, quando usciremo da questa crisi, il mondo non sarà più lo stesso.
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Re: Prodi. L’Europa ha bisogno di strumenti contro la crisi

Messaggioda franz il 20/03/2010, 10:01

Romano Prodi ha scritto:Siamo arrivati all’assurdo che la Lettonia e l’Ungheria, Paesi membri dell’Unione Europea ma non della zona Euro, quando sono precipitati in una situazione di difficoltà finanziaria, hanno facilmente trovato un diretto interlocutore nel Fondo monetario internazionale che, con mezzi adeguati, ha preparato un’efficace strategia di uscita dalla crisi. Si sarebbe potuto fare la stessa cosa con la Grecia, ricorrendo anche in questo caso al Fondo monetario internazionale ma una sorta di orgoglio europeo lo ha fortunatamente impedito, anche se molti lo chiedevano. Certo sarebbe stato più semplice, perché il Fondo monetario internazionale dispone delle strutture di controllo e di monitoraggio che le autorità europee non hanno ancora voluto organizzare. Ma sarebbe anche stato un messaggio di rinuncia delle autorità europee a completare la costruzione dell’euro. A questo punto la logica vorrebbe che si mettesse mano a qualcosa simile ad un Fondo monetario europeo per fare fronte ad altre future crisi che prima o poi verranno. Questo fondo sarebbe il logico completamento del patto di stabilità. Oggi però nessuno ci pensa: si preferiscono le soluzioni caso per caso come quella costruita per la Grecia. Un Fondo monetario europeo, con sue strutture forti e specializzate, costituirebbe qualcosa di troppo simile a un’unione non solo monetaria ma anche economica e finanziaria. Questo ci porterebbe nella direzione di una più forte unione politica, cosa che quasi nessuno, tra i capi di Stato o di governo, oggi vuole.

Non so se ci sono i tempi tecnici per costituire un FME per assistere i casi di Portogallo Irlanda Italia Grecia e Spagna (PIGS) ma leggevo alcune considerazioni che ci aiutano a capire perché l'Europa dell'Euro non vuole che FMI si occupi della Grecia. In pratica un prestito FMI darebbe agli americani il potere di imporre politiche monetarie ed economiche allo stato che l'ha richiesto. Visto che la moneta di questo stato è l'Euro, si capisce come le nazioni dell'area Euro non vogliano interferenze sulla loro politica monetaria. Ecco perché non ci sono stati problemi per Lettonia ed Ungheria ma ci sono per la Grecia (e ci potrebbero essere per Spagna, Portogallo e Italia).

Interessanti - come sempre - le considerazioni su NoiseFromAmerika:
Il canarino cinguetta flebilmente
di fabio scacciavillani, 18 Marzo 2010

Per comprendere la posta in gioco nella saga della crisi greca occorre considerarne le implicazioni sistemiche. Le autorità, non solo in Europa, dovrebbero aver chiaro che la strategia per evitare una Grande Depressione si incardina su un implicito contratto sociale: risorse e poteri straordinari in cambio di riforme sistemiche. Finora invece le risorse sono state utilizzare per lo più nel tentativo di perpetuare lo status quo. La Grecia è solo il caso più macroscopico, che per i mercati ha assunto il ruolo del canarino in miniera.

La crisi greca ha preoccupanti implicazioni sistemiche. Da inizio anno i mercati globali sono stati influenzati fortememente dalle aspettative sul ritorno alla normalità nella politica monetaria e dalla situazione dei conti pubblici in Grecia. I due elementi sono strettamente collegati perché il rialzo dei tassi segnerebbe (almeno per molti analisti ed economisti di mercato) l'uscita dalla fase di emergenza, mentre la bancarotta di uno stato sovrano rappresenterebbe un vistoso fallimento della strategia di politica economica sin qui seguita a livello globale.

L'opinione pubblica e gli investitori erano stati indotti a credere che le misure eccezionali adottate a cavallo tra il 2008 ed il 2009 avrebbe stabilizzato la crisi e in breve tempo i germogli della crescita sarebbero spuntati. La ripresa avrebbe permesso di riassorbire gradualmente, ma senza traumi, i debiti accumulati durante la fase di emergenza. E infatti nella tarda primavera del 2009 i giornali, i discorsi dei banchieri centrali e le dichiarazioni dei Ministri erano infarcite di riferimenti a questi germogli. Ma a partire dall'autunno scorso, con il continuo aumento della disoccupazione in America e l'affievolirsi della crescita in Europa, gli atteggiamenti sono diventati più prudenti e i riferimenti ai germogli più sfumati, fino a sparire quando il tasso di crescita nel quarto trimestre del 2009 ha lambito lo zero.

I mercati -- che avevano scommesso sullo scenario della ripresa robusta (grazie ai prestiti a tasso quasi zero dalle banche centrali) -- sentono la fiducia vacillare da inizio anno. In questo clima la Grecia ha assunto il ruolo del canarino in miniera, al di là delle cifre in ballo per il rifinanziamento del suo debito che in una situazione normale non sarebbero tali da far deragliare l'economia mondiale.

La paura che aleggia non è legata in senso stretto alla sostenibilità del debito greco, ma all'ipotesi che le misure di stimolo si rivelino inefficaci a livello globale, e quindi a uno scenario in cui molti governi si ritroverebbero a fronteggiare una montagna di debiti e un'economia ancora più debole (per il peso degli interessi). Ecco perché le tensioni si scaricano non solo sulla Grecia ma sui mercati dei titoli a reddito fisso nelle economie mature (risparmiando molti mercati emergenti già usciti dalla crisi) a partire da quelli che rischiano di essere coinvolti in un effetto domino: nell'immediato Portogallo, Spagna, Irlanda, Italia. Ma l'onda d'urto si abbatterebbe poi sul Regno Unito (forse dopo le elezioni che potrebbero produrre un Parlamento senza maggioranza) e non risparmierebbe il Tesoro americano.

Per questo il test greco ha una valenza che trascende l'Europa e dovrebbe essere affrontato anche al di fuori delle chiuse stanze di Bruxelles e Francoforte. Dopo la presentazione del terzo piano di austerità in meno di tre mesi, bisognerebbe chiedersi quanto possano durare ancora minuetti e schermaglie tra Bruxelles, Atene e le altre capitali, e con quale credibilità le istituzioni europee possano convincere i mercati attraverso ambigui “contingency plans” tipo quello varato dai ministri dell'eurozona il 16 marzo.

In definitiva, le autorità comunitarie e quelle nazionali non solo in Europa dovrebbero aver chiaro che la strategia per evitare una ripetizione della Grande Depressione si incardina su un implicito contratto sociale: risorse senza precedenti in tempo di pace (finanziate con debiti che graveranno sulle generazioni future) e poteri vastissimi, sono stati concessi ai governi per ristabilire le condizioni di una crescita sostenibile attraverso riforme strutturali in quattro direzioni: a) l'architettura finanziaria e la regolamentazione dei mercati, b) l'eliminazione delle rendite e degli sprechi, c) la razionalizzazione dello stato sociale (a partire dai sistemi pensionistici fuori controllo quasi dappertutto), d) il riassetto degli squilibri nelle partite correnti.

Finora i progressi sono stati trascurabili, quindi le risorse sottratte alle generazioni future rischiano di essere semplicemente dilapidate nel vano tentativo di perpetuare uno status quo insostenibile. La Grecia è solo il caso più macroscopico, frutto avvelenato di una situazione disastrata già prima della crisi (e malamente celata da imbrogli contabili). Ma è solo una questione di tempo, probabilmente mesi, prima che altri paesi raggiungano un analogo punto critico. Quindi sarebbe meglio concentrarsi (non solo in Grecia) sulle riforme di ampio respiro che riportino il sistema economico su un binario di efficienza ed eliminino gli sperperi che la classe politica predilige per assicurarsi il consenso elettorale.

Il sostegno ai conti pubblici in Grecia (e ovunque si rendesse necessario) dovrebbe essere condizionato a misure chiare di medio periodo, sotto il controllo di un organismo indipendente dalle resistenze e dalle pressioni che inevitabilmente si scateneranno (anzi, si sono già scatenate) contro l'inversione di rotta. È facile fissare limiti al rapporto deficit/Pil o altri parametri macro, difficile è far approvare le leggi ed i provvedimenti che consentano di raggiungere gli obiettivi. Questo processo è lungo e irto di ostacoli, in Grecia come in qualsiasi nazione. Né la Commissione Europea, già emascolata sul rispetto dei parametri di Maastricht, né la BCE che non ne ha il mandato, possono esercitare un controllo pervasivo e inchiodare un governo al rispetto degli impegni sottoscritti. Creare il Fondo Monetario Europeo (anche volendo concedere in astratto che sia una buona idea, ma personalmente ne dubito) richiederebbe comunque troppo tempo. L'unica alternativa concreta rimane il Fondo Monetario Internazionale. Tergiversare è oltremodo pericoloso, non solo per la Grecia.
http://www.noisefromamerika.org/index.php/articoli/1774
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