Vi propongo un articolo molto polemico di P. Ignazi, noto come uno dei più attenti studiosi della destra.
Risale a qualche tempo fa, ma ritengo che quando si parla di certi vizi e vezzi della nostra politica, certi interventi non vadano mai in scadenza.
Un "populismo" che condiziona per forza di cose Sicurezza, Giustizia, Informazione.
Dall'Espresso del 30 maggio 2008.
"Gli osservatori stranieri temono che l'Italia sia il laboratorio di una nuova forma di regime politico
Ci sarà un motivo per cui quasi tutta la stampa internazionale, ivi compresa quella moderata, dal 'Wall Street Journal' al 'Financial Times', ha accolto la vittoria di Silvio Berlusconi con una sfilza di commenti caustici al limite del dileggio? Cosa può muovere un esercito di corrispondenti e analisti a una tale 'faziosità'; come possono non vedere il nitore morale, la storia cristallina e l'acume intellettuale della coalizione vincente e del suo leader maximo? Cospirazione dell'internazionale liberal, incompetenza e crassa ignoranza dei fatti italiani, invidia per i successi nello sport come negli affari del nostro primo ministro?
Ammettiamo per ipotesi che gli osservatori stranieri abbiano ragione a esprimere sorpresa e sconcerto nel vedere confermato alla carica di primo ministro il proprietario di un impero mediatico, ed elevati a cariche ministeriali rappresentanti di un partito xenofobo quale la Lega. Su che cosa si fonda la loro sorpresa e il loro sconcerto? Esaminandoli a fondo si rintracciano tre filoni.
Il primo fornisce un giudizio drastico sull'azione del precedente governo Berlusconi in campo economico: crescita zero, aumento del debito pubblico, sforamento del rapporto deficit/Pil, azzeramento dell'avanzo primario. Con risultati così deludenti non si capisce cosa possa far presagire un'efficiente gestione dell'economia da parte della stessa équipe di governo.
Il secondo riguarda - ohibò, ancora - il conflitto di interessi. Da noi è visto come una ossessione da monomaniaci, da fissati, da antiberlusconiani viscerali: suvvia, perché parlarne ancora? Agli italiani interessa ben altro. E poi, se Vespa, Mentana, Floris e tutti gli altri teatrini serali della politica non ne discutono, vuol proprio dire che il tema è out: fuori moda, fuori tempo e fuori luogo. Invece chiunque parli con osservatori stranieri - accademici, giornalisti, imprenditori - si sente sempre rivolgere la stessa domanda da 15 anni a questa parte: come è possibile questo gigantesco conflitto di interessi? Ciò significa che negli altri paesi la questione non è 'out', ma rimane un punto di riferimento per definire la qualità della democrazia di un sistema politico. Anche se la nostra destra si erge burbanzosa a difendere dalle critiche l'onore nazionale, con ridicole pose neo-crispine per non dire peggio, la questione è dirimente agli occhi della community politico-culturale internazionale.
Perché invece da noi è così irrilevante? Oltre alla penosa incapacità della sinistra di imporlo come tema politico centrale, messa all'angolo dalla potenza di fuoco dell'impero mediatico del Cavaliere non appena si tocca l'argomento, c'è forse una ragione più profonda, che si collega al terzo tema ricorrente delle critiche della stampa internazionale: il timore che l'Italia sia il laboratorio politico di una nuova forma di regime politico, di tipo populista.
La democrazia populista è una insidiosa deformazione della democrazia liberale. Nella democrazia populista il leader 'interpreta' il volere della masse. La sua legittimazione viene non tanto dal risultato elettorale, quanto dal suo rapporto esclusivo e diretto con i sentimenti profondi del popolo, che solo il leader interpreta e soddisfa. Quindi, chi si oppone diventa oggettivamente un nemico del popolo. La democrazia populista 'necessita' comunque di un nemico, indefinito e nascosto o palese e individuabile, al quale attribuire le difficoltà nel cammino dell'azione del governo. Organi dello Stato quali la magistratura, la Corte costituzionale o la presidenza della Repubblica, media indipendenti, attori sociali non consenzienti, interessi economici e persino organizzazioni internazionali, possono tutti rientrare nel novero dei bersagli da stigmatizzare. La logica della democrazia costituzionale, così come si è (faticosamente) affermata in Occidente dopo la sua vittoria sui fascismi, è invece tutta diversa: eleva a valore supremo la divisione, il rispetto e il controllo reciproco dei poteri, e il pluralismo degli interessi e delle opinioni, garantito da separazioni di competenze e ambiti.
Ora si può ben immaginare come sia stato guardato un paese dove si è consumata, nel caso Alitalia, una gigantesca commistione di poteri, con l'uomo più ricco della nazione, candidato al governo, che è intervenuto sulle trattative della vendita della compagnia di bandiera, facendo fuoco e fiamme contro un acquirente (straniero, si badi bene), col risultato di far colare a picco la società in attesa di essere raccattata con quattro soldi da imprenditori amici, grati per il gentile dono.
In linea di principio, una opposizione incisiva e una informazione libera e critica costituiscono anticorpi naturali alla deriva populista. Sulla prima vedremo se si riprenderà dalla sconfitta ed eviterà la trappola di melassa preparata dal Cavaliere; sulla seconda è difficile fare affidamento: il coro assordante di peana che laudano il governo, nonché le trombette che accompagnano ogni sua mossa, non sono di buon auspicio per il futuro. Il complesso mediatico-economico, versione post-moderna del vecchio complesso economico-militare evocato a suo tempo da John Galbraith, inquieta per la sua capacità di condizionamento della politica. E non solo in Italia.
Piero Ignazi "