Rapporto Cnel: «Urge ricambio generazionale» nell'Italia che invecchia
di Alessia Grossi
«L'Italia è un paese vecchio: si vive più a lungo e si fanno meno figli. Tuttavia, la società italiana sta invecchiando non solo per motivi demografici, ma anche perché il sistema di potere lascia poco spazio alle nuove generazioni. I meccanismi di formazione e di selezione delle èlite sono infatti caratterizzati da una bassa capacità di ricambio e da una pronunciata longevità grazie alla pervicacia con la quale la classe dirigente nostrana difende le posizioni acquisite». Parte da questo assunto la ricerca del Cnel, scolta in collaborazione con Unicredit Group e presentata giovedì a Roma, dal titolo «Urg! Urge ricambio generazionale».
L'indagine ha analizzato quattro ambiti. Il mercato del lavoro, la politica, l'università, le libere professioni. Il dato principale, su tutti è quello del lavoro, per lo più precario che non si trasforma quasi mai in un’assunzione.
«Stando ai dati dell'Istat – dice la ricerca del Cnel - la trasformazione delle collaborazioni in contratti a tempo indeterminato non è affatto la norma. Il 73,1 per cento dei giovani che alla fine del 2006 erano assunti con un contratto di collaborazione, a distanza di un anno erano ancora nella stessa posizione. Il passaggio al lavoro dipendente è diventato realtà solo per un giovane collaboratore su cinque. Peraltro questo passaggio per circa la metà dei neodipendenti ha significato accontentarsi di un contratto a tempo determinato. In pratica, nell'arco di un anno, solo un collaboratore su dieci è entrato a pieno titolo nel mondo del lavoro standard, ottenendo un contratto a tempo indeterminato». Insomma, «le carriere si allungano e chi ha un percorso lavorativo molto frammentato ogni volta è costretto a ricominciare dalla base della piramide, rimanendo di fatto escluso dalle posizioni di vertice.
Ecco emergere un altro tratto del sistema italiano. L'assunzione di posizioni di rilievo dipende dall'esperienza lavorativa, intesa semplicemente in termini di anzianità aziendale, a prescindere dai livelli di produttività e delle competenze di ciascuno».
Non a caso, quindi, secondo la ricerca del Cnel, «considerando le posizioni dirigenziali del lavoro dipendente, si nota che in dieci anni il contributo dei giovani all'interno dei ruoli direttivi passa dal 9,7 per cento al 6,9 per cento, tra i quadri invece dall'17,8 per cento del '97 si scende al 12,3 per cento dello scorso anno. Lo stesso andamento si rileva anche tra i liberi professionisti: in dieci anni diminuiscono anche i giovani imprenditori, dal 22 per cento al 15 per cento e i giovani impegnati nelle libere professioni passano dal 30 per cento al 22 per cento».
Accanto al precariato, «si va purtroppo delineando un fenomeno che getta una luce sinistra sulle possibilità dei giovani di ridurre le distanze con le generazioni successive. Tra il 2006 e il 2007, crescono di circa 200mila unità i giovani inattivi, cioè ragazzi che non lavorano e non cercano lavoro.
All'interno di questo grande gruppo, in totale si tratta di sei milioni di persone, oltre agli studenti e alle casalinghe, sono presenti anche persone che hanno già avuto una qualche esperienza lavorativa. Se si scava tra i giovani inattivi, si trovano 979.217 individui che l'anno prima avevano in qualche modo partecipato al mercato del lavoro, si tratta del 16,2 per cento degli inattivi».
Questi giovani «hanno avuto un brusco cambiamento di status. Solo nel 2006 erano formalmente inseriti nelle forze di lavoro, come occupati o persone in cerca, mentre nel 2007 hanno deciso di non provare nemmeno a cercare un lavoro.
Tra questi, la transizione più violenta è quella degli oltre 220mila giovani che nel 2006 erano occupati e nel 2007 hanno rinunciato a cercare attivamente un lavoro . Circa 430mila sono invece i giovani nel 2006 in cerca di prima occupazione, diventati quest'anno inattivi. Infine, ci sono 330mila disoccupati passati nel 2007 condizione di non attività».
19 marzo 2009
dal'Unità
Rapporto Cnel (pdf)