Le mani bucate delle Regioni

I MILLE RIVOLI DELLA SPESA PUBBLICA
Le mani bucate delle Regioni
La vera spending review decisiva per tagliare seriamente una spesa pubblica capace di divorare metà della ricchezza prodotta nel Paese è quella che dovrebbero fare le Regioni. Tutte: dal Sud al Nord. Perché se è vero che nella Sicilia assurta a simbolo degli sprechi il governatore regionale vanta un numero di collaboratori superiore perfino a quelli del premier britannico, anche i faraonici e costosissimi piani di espansione immobiliare messi in atto da alcune Regioni nordiste lasciano il segno nelle tasche dei contribuenti. Al pari della superficialità con la quale si distribuiscono fiumi di denaro ai gruppi politici delle assemblee legislative o della sfrontatezza che spinge taluni amministratori a elargire consulenze inutili ad amici e parenti. Pessimi esempi, tutti diversi fra loro per gravità e dimensione. Ma che fanno parte della stessa aberrante logica per cui «il denaro di tutti è il denaro di nessuno», secondo una folgorante definizione di Tommaso Padoa-Schioppa.
Un principio applicato «a tappeto» negli ultimi anni, che ha inflitto ferite profonde alle nostre finanze. Nei dieci anni fra il 2000 e il 2009 la spesa pubblica regionale è lievitata da 119 a 209 miliardi. L'aumento, per metà imputabile alla sanità, è stato del 75,6 per cento. Tre volte e mezzo l'inflazione, ma soprattutto il doppio rispetto alla crescita del 37,8 per cento registrata da tutta la spesa pubblica italiana nel suo complesso. La conclusione è semplice. Senza il contributo devastante delle Regioni il rapporto fra spesa pubblica e Prodotto interno lordo sarebbe, al netto degli interessi, più o meno lo stesso di una decina d'anni fa.
E oggi, che ci costano almeno 90 miliardi in più, sicuramente le Regioni e la sanità non funzionano meglio di allora. Questo, sopra ogni altra cosa, dovrebbe far riflettere i profeti di un federalismo casereccio, convinti che per risolvere i problemi dei conti pubblici sia sufficiente decentrare sempre di più. Compresa quella sinistra che nel 2001, al solo scopo di rincorrere la Lega sul suo terreno nella speranza di evitare un tracollo elettorale al Nord, ha creato con la riforma del titolo V della Costituzione le premesse per il disastro: privando nei fatti lo Stato centrale del potere di controllo. La stessa sinistra, con il medesimo personale politico, che fra qualche mese si ricandiderà a prendere in mano le redini del Paese.
Il fatto è che la sciagurata riforma di undici anni fa è stata soltanto la ciliegina sulla torta. Da quando le Regioni sono nate, oltre quarant'anni fa, sono più le cose che non hanno funzionato. I centri decisionali si sono moltiplicati, la pubblica amministrazione è sempre meno efficiente, le procedure più complesse, il groviglio di norme e competenze inestricabile. I veti incrociati paralizzano le scelte. A valle degli apparati regionali sono proliferati centinaia di enti e società che hanno alimentato sprechi e deprecabili pratiche di sottogoverno e clientelismo. L'autonomia si è rivelata talvolta un comodo paravento per dissipare denaro pubblico, senza che lo Stato possa mettere in atto contromisure.
Vedremo in quali programmi elettorali ci sarà l'unica proposta sensata che può rimettere l'Italia in carreggiata, ovvero una revisione radicale del ruolo e delle funzioni delle Regioni. A cominciare dall'abolizione degli statuti speciali. Ma servirà coraggio. Tanto coraggio. Molto più di quello che si vede in circolazione.
Sergio Rizzo 23 agosto 2012 | 7:49 www.corriere.it
Le mani bucate delle Regioni
La vera spending review decisiva per tagliare seriamente una spesa pubblica capace di divorare metà della ricchezza prodotta nel Paese è quella che dovrebbero fare le Regioni. Tutte: dal Sud al Nord. Perché se è vero che nella Sicilia assurta a simbolo degli sprechi il governatore regionale vanta un numero di collaboratori superiore perfino a quelli del premier britannico, anche i faraonici e costosissimi piani di espansione immobiliare messi in atto da alcune Regioni nordiste lasciano il segno nelle tasche dei contribuenti. Al pari della superficialità con la quale si distribuiscono fiumi di denaro ai gruppi politici delle assemblee legislative o della sfrontatezza che spinge taluni amministratori a elargire consulenze inutili ad amici e parenti. Pessimi esempi, tutti diversi fra loro per gravità e dimensione. Ma che fanno parte della stessa aberrante logica per cui «il denaro di tutti è il denaro di nessuno», secondo una folgorante definizione di Tommaso Padoa-Schioppa.
Un principio applicato «a tappeto» negli ultimi anni, che ha inflitto ferite profonde alle nostre finanze. Nei dieci anni fra il 2000 e il 2009 la spesa pubblica regionale è lievitata da 119 a 209 miliardi. L'aumento, per metà imputabile alla sanità, è stato del 75,6 per cento. Tre volte e mezzo l'inflazione, ma soprattutto il doppio rispetto alla crescita del 37,8 per cento registrata da tutta la spesa pubblica italiana nel suo complesso. La conclusione è semplice. Senza il contributo devastante delle Regioni il rapporto fra spesa pubblica e Prodotto interno lordo sarebbe, al netto degli interessi, più o meno lo stesso di una decina d'anni fa.
E oggi, che ci costano almeno 90 miliardi in più, sicuramente le Regioni e la sanità non funzionano meglio di allora. Questo, sopra ogni altra cosa, dovrebbe far riflettere i profeti di un federalismo casereccio, convinti che per risolvere i problemi dei conti pubblici sia sufficiente decentrare sempre di più. Compresa quella sinistra che nel 2001, al solo scopo di rincorrere la Lega sul suo terreno nella speranza di evitare un tracollo elettorale al Nord, ha creato con la riforma del titolo V della Costituzione le premesse per il disastro: privando nei fatti lo Stato centrale del potere di controllo. La stessa sinistra, con il medesimo personale politico, che fra qualche mese si ricandiderà a prendere in mano le redini del Paese.
Il fatto è che la sciagurata riforma di undici anni fa è stata soltanto la ciliegina sulla torta. Da quando le Regioni sono nate, oltre quarant'anni fa, sono più le cose che non hanno funzionato. I centri decisionali si sono moltiplicati, la pubblica amministrazione è sempre meno efficiente, le procedure più complesse, il groviglio di norme e competenze inestricabile. I veti incrociati paralizzano le scelte. A valle degli apparati regionali sono proliferati centinaia di enti e società che hanno alimentato sprechi e deprecabili pratiche di sottogoverno e clientelismo. L'autonomia si è rivelata talvolta un comodo paravento per dissipare denaro pubblico, senza che lo Stato possa mettere in atto contromisure.
Vedremo in quali programmi elettorali ci sarà l'unica proposta sensata che può rimettere l'Italia in carreggiata, ovvero una revisione radicale del ruolo e delle funzioni delle Regioni. A cominciare dall'abolizione degli statuti speciali. Ma servirà coraggio. Tanto coraggio. Molto più di quello che si vede in circolazione.
Sergio Rizzo 23 agosto 2012 | 7:49 www.corriere.it