IL CASO: Roma-Milano, il duello infinito da Sordi alle invettive di MorettI
Il federalismo al cinema
non può funzionare
Gag sulla capitale e stereotipi sui lombardi: scene cult al cinema
MILANO - Contrordine, padani! Non rideremo più sentendo la voce baritonale di Alberto Sordi aspirante vedovo che con il suo indimenticabile «accento» meneghino domandava: «Ma cosa fa, chì a Milàn cun stu cald?». O il povero Aldo Fabrizi che per mascherare la sua curiosità da guardia (mentre chiede informazioni sulle abitudini del ladro Totò) si schermisce sostenendo: «Poliziotto? No, no... mi son de Milàn ». Basta, d’ora in poi le storie padane saranno raccontate da veri padani e interpretate solo da padani doc: Bossi dixit all’inagurazione della Manifattura Tabacchi riconvertita in «casa del cinema milanese». E peccato che non ci sia più Guido Nicheli, l’attore bergamasco specializzato nella macchietta del milanese sguaiato e sbruffone, perché per lui si sarebbero forse aperte luminose carriere da protagonista dopo una vita da spalla.
Basta! Basta inflessioni romanesche nelle fiction televisive, rincara il ministro Castelli. Peccato che se ne accorga solo quando l’accento riguarderebbe un papa bergamasco e non abbia mai detto niente quando la fretta di editare troppi telefilm esteri aveva portato alla fine della scuola italiana del doppiaggio, cancellando ogni parvenza di buona dizione (quella, per esempio, che il super-romano Ferruccio Amendola sapeva mettere in campo quando offriva le sue apprezzatissime sfumature capitoline a Stallone e De Niro, ad Al Pacino e Dustin Hoffman). E sarà curioso scoprire con che accento si esprimerà l’israeliano — e non proprio esempio di perfetto dicitore — Raz Degan, scelto dal regista Renzo Martinelli per interpretare Alberto da Giussano, il condottiero simbolo del riscatto padano contro i barbari extracomunitari in Barbarossa.
Ma forse un basta andrebbe detto a certi discorsi che si preoccupano più di infiammare l’animo leghista che di aiutare davvero un ipotetico cinema lombardo a crescere. La purezza non è mai stata una caratteristica fondante della settima arte e proprio a cominciare dai registi milanesi l’esercizio del pastiche regionalistico è stato un percorso che ha dato molte e belle riuscite. Come ha fatto il milanesissimo Alberto Lattuada, che ha diretto due dei film più corrosivi sulla Sicilia e la sicilianità, Mafioso e Don Giovanni in Sicilia (il primo con Alberto Sordi, il secondo con Lando Buzzanca), usando in entrambi Milano e i suoi miti— l’efficienza e la professionalità nel lavoro, la mondanità e l’erotismo nel sociale — per innescare battute e gag. Per non parlare del ligure ma milanese d’adozione e d’educazione Renato Castellani che tra i primi ha saputo scherzare sull’immagine che le abitudini milanesi sembravano accreditare nel resto d’Italia, per esempio quando in È primavera fa dire da una compagna di viaggio alla timida Elena Varzi che sta «salendo» in treno verso il capoluogo lombardo che «i milanesi sono gente cattiva, perché non mangiano la pasta come noi.... Mangiano polenta ».
Inevitabile, allora, che il cinema del resto d’Italia giocasse allo stesso modo con gli stereotipi della milanesità, visto che proprio le macchiette comiche lombarde erano le prime a prendere in giro le «virtù» meneghine, a cominciare da Tino Scotti e il suo «Ghe pensi mì. Ghe: nome; pensi: cognome; mì: targa, Milano», per continuare con Walter Chiari che in Walter e i suoi cugini (innocua satira di Rocco e i suoi fratelli) interpreta un pedone che nemmeno ai semafori smette di far correre le gambe... perché il milanese ha sempre fretta e non può mai fermarsi. Così, quando un romano capita al Nord, come il vigile urbano Alberto Rodolfi, esiliato sotto il Duomo per eccesso di attivismo, il finale non può essere che l’elencazione dei pregi locali, che immancabilmente finiscono in «ùn»: nebiùn, panetùn e naturalmente magùn. Da ascoltare pronunciati con la voce stentorea di Alberto Sordi (in Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo).
Se Totò e Peppino sbarcano a Milano bardati come in Siberia (per via della nebbia «che non si vede») e sentendo parlare un vigile in milanese si credono di fronte a un tedesco, non è che la milanesissima Mariangela Melato si comporti con minor cattiveria comica descrivendo le manie e le arroganze di una sciurètta che fa naufragio in Sardegna. E se il napoletan-frusinate Vittorio De Sica può essere un elegante autista milanese in Gli uomini che mascalzoni, perché mai il figlio Christian non potrebbe divertirsi (e divertire) inventandosi una cadenza meneghina in Sapore di mare?
Il fatto è che la milanesità è prima di tutto uno stato d’animo, una condizione dello spirito e come tale — almeno al cinema — appartiene a tutti, dal «terrunciello» di Eccezzziunale... veramente al vampiro che «mangia la cadrega» in Tre uomini e una gamba.
E, speriamo prossimamente, a molti altri volti e accenti non lombardi. Ormai sono passati trent’anni dalle invettive linguistiche di Michele Apicella in Ecce bombo («Silvia, non la Silvia. Fortunatamente siamo a Roma, non a Milano: la Silvia, il Giorgio, il Pannella, il Giovanni») e anche Nanni Moretti ha smussato i suoi tanti spigoli. Sarebbe davvero un peccato (e un errore) se, per favorire la nascita di un polo cinematografico a Milano, proprio i lombardi costruissero una nuova linea gotica, geografica e linguistica
Paolo Mereghetti
15 luglio 2009
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