Grazie califfato, grazie califfo!
Limes Oggi
Carta di Laura Canali
Dopo anni di torpore, lo Stato Islamico ci ha brutalmente svegliato e riportato alla realtà: in Europa non abbiamo Forze armate all’altezza delle sfide attuali. Dobbiamo ricostruirle.
di Giuseppe Cucchi
Iraq, Jihadismo, limes oggi, Siria, Stato Islamico, terrorismo, Europa
Ringraziare il califfato e il califfo? Sembra un proposito assurdo ma in fondo noi occidentali, e in particolare noi europei, dobbiamo parecchio a entrambi.
Di solito non ci si accorge di una malattia, per quanto grave possa essere, allorché essa è in incubazione. Il male diviene evidente solo quando si manifestano i suoi primi sintomi e spesso a quel punto è troppo tardi per poterlo efficacemente curare.
A noi occidentali stava succedendo la stessa cosa. Il lunghissimo periodo di pace di cui abbiamo goduto in Europa dalla seconda guerra mondiale in poi stava portandoci a prevedere per i paesi della Ue un futuro del tutto privo di qualsiasi violenza bellica, in cui sarebbe bastato mantenere in vita un simulacro di Forze armate. Giusto quanto bastava per fornire un contributo di dimensioni accettabili alle varie missioni di più o meno intenso peacekeeping decise, o benedette, dalle Nazioni Unite.
Per gli Stati uniti le cose erano un poco diverse, ma nella sostanza anch’essi si illudevano di poter tirare il fiato e di avere la possibilità di incassare il dividendo della dottrina Obama – quella smart strategy adattata alle circostanze che tentava di scaricare sugli alleati regionali il costo e la responsabilità di interventi indispensabili senza che ciò intaccasse il potere Usa.
I risultati di queste illusioni, nutrite mentre la malattia di sottecchi dilagava e le nostre frontiere europee da “cintura di amici”, come le chiamava Prodi vent’anni fa, si trasformavano nel ring of fire, il termine con cui le cita uno degli ultimi numeri dell’Economist, sono stati molteplici e deleteri.
Da un lato il rapporto transatlantico è stato giudicato superato, mentre la Nato combatteva una battaglia apparentemente persa in partenza per ridefinire i suoi compiti ed evitare di essere anemizzata, magari dolcemente e senza strepito.
Dall’altro il potenziale bellico dei paesi membri si riduceva progressivamente, nel costante tentativo di recuperare dalla difesa quelle risorse che facevano difetto in altri settori considerati prioritari. C’è stata così una caccia senza respiro al cosiddetto “dividendo della pace” che si è scaglionata senza interruzione su tutti i 25 anni passati dalla caduta del Muro di Berlino e che per molti aspetti dura ancora, nonostante tutti i campanelli d’allarme stiano suonando a distesa.
Per di più, questa riduzione dei potenziali nazionali è avvenuta in maniera completamente scoordinata. Quasi una corsa in cui ciascuno dei partecipanti temesse che l’altro lo potesse sopravanzare. In questo spirito la maggioranza delle truppe americane stanziate in Europa se ne è tornata a casa oppure ha raggiunto teatri operativi diversi, mentre i livelli di organici e di efficienza delle singole nazioni europee scendevano a dei minimi assolutamente inaccettabili.
Nell’azione Nato contro la Libia, conflitto corto e di intensità tutto sommato molto ridotta, noi europei siamo rimasti rapidamente senza munizioni per gli aerei e abbiamo dovuto acquistarle dagli Stati Uniti. Un fatto che la dice lunga e sui livelli delle nostre scorte e sulla nostra capacità produttiva nel settore.
Quando la tensione fra Ucraina e Russia ha assunto aspetti realmente preoccupanti, il vertice della Nato, svoltosi in quei giorni, ha dovuto tristemente constatare che l’Alleanza avrebbe incontrato difficoltà fortissime a schierare in frontiera anche una sola divisione di forze alleate. Ha quindi cercato di riconfortare i suoi terrorizzati membri del nord-est europeo con soluzioni fantasiose relative alla dislocazione in aree avanzate di depositi di armi e materiali e alla creazione di forze di reazione molto, molto, molto rapide… il tutto ben in fieri, naturalmente!
Ad aggravare ulteriormente il quadro è giunta la notizia di questi giorni che riporta come anche le Forze armate tedesche siano in realtà in condizioni pietose, del tutto degne di “una cicala del sud” e non certo all’altezza di una “formica del nord “, oltretutto chiaramente destinata alla leadership europea.
Su questa situazione che l’opinione pubblica, i governi e le forze politiche dei nostri paesi si rifiutano con ostinazione di vedere, si è a un certo punto scatenato il ciclone Putin.
Neanche Putin però, con tutta la sua consumata abilità di scacchista strategico condita di annessioni, creazioni di Stati-cuscinetto fantoccio, volontariati fasulli che ricordano quelli nazisti e fascisti nella guerra di Spagna, è riuscito a generare uno shock sufficiente a far sì che il malato si accorgesse di quanto era progredita la malattia.
Parliamoci chiaro: nessuno ha mai realmente creduto alla possibilità di una guerra della Russia contro l’Occidente. Non ci abbiamo creduto qui e non ci hanno creduto in Russia. Basta vedere come tutte le preoccupazioni si siano concentrate e tuttora si concentrino da un lato sugli effetti delle misure di embargo sull’economia nazionale, dall’altro sull’ipotesi di trovarci a corto di gas in un inverno che le previsioni promettono particolarmente rigido.
Dopo Putin sono entrati in scena il califfo e il suo califfato, e loro sì che fanno paura. Sia perché si ricollegano a ricordi ancestrali di nemici spietati e guerre durissime, protrattesi per secoli e secoli. Sia perchè i combattenti di questo nuovo jihad agiscono con una logica di eliminazione fisica dell’avversario, reale o potenziale che esso sia. Una logica che noi non riusciamo più a comprendere. Sia perchè la rapidità dell’avanzata dello Stato Islamico ha dimostrato quanto il loro appello, oltretutto ammantato di un alone di vittoria, possa avere fascino sulle masse arabe disperate del Medio Oriente, della Penisola arabica e del Nord Africa.
La presenza fra le forze dello Stato Islamico di alcune migliaia di musulmani europei di seconda e terza generazione ci ha inoltre costretti a comprendere che questo non può essere definito unicamente come un conflitto alle frontiere. È invece un conflitto che, almeno potenzialmente, abbiamo già in casa.
Il sintomo si è così manifestato e la malattia è divenuta palese. Che cosa aspettiamo a questo punto per verificare quali siano le nostre lacune e per ricostruire uno strumento di sicurezza interno ed esterno che sia all’altezza di affrontare la sfida? Magari orientandoci su quella soluzione europea che è forse l’unica che ci consentirebbe di essere efficaci realizzando nel contempo anche economie di scala?
E cosa aspettiamo a dire grazie al califfo e al califfato che ci hanno – magari un po’ brutalmente – strappati al sogno per riconsegnarci alla realtà?
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Per approfondire: La radice quadrata del caos http://www.limesonline.com/la-radice-qu ... caos/77991