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Praga e Tiblisi, un accostamento 40 anni dopo

Discussioni su quanto avviene su questo piccolo-grande pianeta. Temi della guerra e della pace, dell'ambiente e dell'economia globale.

Praga e Tiblisi, un accostamento 40 anni dopo

Messaggioda franz il 21/08/2008, 16:49

Praga ’68, chi si girò altrove

Gerardo Morina
Quarant’anni dopo, l’orso russo torna a ruggire, questa volta nel Caucaso. Si direbbe che ha perso il pelo ma non il vizio, mentre, attorno a lui, si creano condizioni in parte simili a quelle che caratterizzavano la Guerra Fredda.
Anziché la crisi dei missili sovietici a Cuba, c’è quella innescata dai missili americani in Europa orientale.

La dottrina Putin pare la versione moderna della dottrina Breznev, basata sull’obbligo all’«assistenza fraterna» ai Paesi comunisti. Allora, da proteggere c’erano i «Paesi satelliti» dell’URSS. Oggi, c’è quello che Mosca chiama «il vicino estero», Paesi non piu’ dipendenti dalla Russia, ma considerati ancora parte della sua sfera d’influenza, come la Georgia e l’Ucraina, invise perché troppo filo-occidentali.

Non si tratta di una strategia necessariamente militarista, ma di una studiata esibizione muscolare, in base alla quale, di fronte ad una cronica sindrome d’accerchiamento, la Russia non esita a impiegare i carri armati ma anche altre armi, come le pressioni economiche, o il blocco cibernetico ,come in Estonia, o lo strumento del gas e del petrolio (la vera forza russa odierna), come in Ucraina.

Esattamente quarant’anni fa i carri armati non solo di Mosca, ma anche di Berlino Est, Sofia, Budapest e Varsavia, calpestavano la Primavera di Praga obbedendo alla spietata logica dello zarismo sovietico. E senza neppure le apparenti «giustificazioni» di equilibrio internazionale o di potenza che potevano avere accompagnato, nella sua brutalità ma anche nella sua immediatezza, l’intervento in Ungheria.

Ma in fondo cosa chiedeva Praga - si interrogava l’editoriale senza firma comparso sull’edizione del 22 agosto 1968 del ‘Corriere della sera’- «la Praga degli intellettuali comunisti rinnovatori ed entusiasti oggi schiacciata dal peso dei carri armati sovietici?». Risposta: «Chiedeva soltanto, in cambio dell’assoluta fedeltà al patto di Varsavia e al Comecon, il diritto ad una certa, e misurata, autonomia interna, ad una via nazionale al comunismo».

Chiedeva in altre parole un «socialismo dal volto umano» (lo slogan «socialismus s lidskou tvárí» venne infatti a identificarsi con la Primavera di Praga), una richiesta totalmente irricevibile da un sistema rigido e allo stesso tempo fragile come quello emerso in URSS. Allora l’invasione di Praga dimostrò l’incompatibilità tra comunismo e democrazia.

Oggi che il comunismo è crollato da tempo, il governo autocratico di Putin sembra voler darsi la stessa impronta.
Per la prima volta nella sua storia, l’Unione Sovietica, decidendo in quell’agosto ’68 l’invasione armata della Cecoslovacchia, suscitò contro di sé la reazione non equivoca della maggior parte dei paesi e partiti comunisti, posti di fronte a uno dei bivi più angosciosi della loro esistenza: o seguire Mosca, che stroncava col ferro la via nazionale cecoslovacca; o continuare la tesi delle vie nazionali e opporsi all’URSS.

I due maggiori tra i partiti comunisti occidentali, quello italiano e quello francese, non attesero molto tempo per decidersi a pronunciarsi contro l’invasione armata. Lo stesso 22 agosto 1968, cioé il giorno dopo l’invasione, «L’Unità», allora organo del partito comunista italiano, pubblicava a mo’ di editoriale il comunicato del suo Ufficio politico che esprimeva il suo grave dissenso, mentre nel taglio basso sempre di prima pagina il quotidiano dava notizia che il PCF (partito comunista francese) «esprime sorpresa e riprovazione». Da parte, poi, dei Paesi che avevano partecipato all’invasione era ovvio che non ci si potesse aspettare niente che ufficialmente contrariasse l’invasione.

Ma pochi giorni prima che l’invasione fosse decisa al Cremlino, altri due partiti comunisti si erano decisamente espressi a favore della Cecoslovacchia: la Jugoslavia di Tito e la Romania di Ceausescu. Si stabilivano così, imprevedibilmente, i fronti dei vari partiti dopo la mossa (incauta) dell’URSS. Se da un lato l’Albania oltranzista, seguace di Pechino, s’era affrettata a emanare un comunicato di condanna sia contro l’invasione sovietica sia contro il revisionismo cecoslovacco; se dall’altro lato Fidel Castro, troppo lontano dagli interessi dei partiti comunisti europei e asiatici, non esitava a sposare la tesi di Mosca, la Cina, il primo tra i paesi del dissenso comunista, offriva un appoggio «anche armato» a chi fosse pronto a opporsi al predominio sovietico. In altre parole, gli eventi cecoslovacchi fornirono alla Cina un buon pretesto per riaffermare lo «spirito imperialista» e quindi traditore del marxismo-leninismo, dell’URSS.

Da un giorno all’altro il gioco probabile delle alleanze ideologiche fu insomma sconvolto. Almeno a livello ufficiale, perché a livello di reazioni individuali o di gruppo le cose andarono diversamente. Ci fu infatti chi fece propri i valori del dissenso dell’Est, ma anche chi, caparbiamente, finse di non vedere e girò la testa dall’altra parte.

Ebbero così luogo, come mette in luce lo storico Paolo Sensini sul numero speciale appena uscito di «Critica sociale» dedicato a Praga ’68, due Sessantotto. Il Sessantotto delle barricate, della contestazione, della lotta per l’immaginazione al potere, che l’invasione di Praga non fece scendere massicciamente in piazza, semmai offrendo soltanto a livello individuale un doloroso spunto di riflessione; e il Sessantotto che si svolse avendo come sottofondo unitario quella che Enzo Bettiza nel suo recente «La primavera di Praga.1968:la rivoluzione dimenticata» (Mondadori,maggio 2008) definisce «rapsodia comunisteggiante» tra i ritratti di Mao,Che Guevara, Stalin e Trotzkij.

Su «Critica sociale» Sensini ha fatto uno spoglio ragionato di tutta la pubblicistica della sinistra extraparlamentare italiana dal 1968 al 1977. Ne esce una serie di atteggiamenti di ortodossia politica strabilianti, frutto, scrive Sensini, della «grande capacità di egemonia culturale e politica esercitata dalla dirigenza del Partito comunista italiano sull’insieme del paese».

In occasione dei moti cecoslovacchi si erano sì registrate, tre le fila del PCI, voci che «deploravano» la feroce repressione esercitata dalle truppe sovietiche nei confronti dei contestatori. Ma, nonostante qualche mugugno in taluni settori del partito, nel complesso si accettava il dato di fatto che reimponeva «manu militari» l’ordine socialista.

In particolare, dice chiaramente Sensini, i gruppi ancora più a sinistra bevvero sino in fondo la pozione ideologica e assunsero posizioni che, col senno di poi, appaiono quasi incredibili. Persino il gruppo del «Manifesto», che più tardi maturò la sua storica scissione dal PCI anche come conseguenza dell’invasione sovietica a Praga, non uscì mai dalla vecchia logica, sostenendo che non occorreva più libertà ma un ritorno a Lenin.

Per non parlare dei «Quaderni Piacentini» che liquidavano i fatti di Praga come «socialimperialismo della burocrazia sovietica» del quale però il maoismo cinese avrebbe costituito un correttivo. O di «Lotta Continua», attenta al grande lascito di Lenin e pronta a contrapporre al «comunismo falso della Polonia quello vero rappresentato dalla Cina».

O ancora di «Nuovo Impegno» che di fronte al suicidio di Jan Palach commenta: «Non ci fa certo ridere la sua morte...ma il fatto principale della mobilitazione generato da Palach non ha contenuti socialisti». Per concludere,tra gli altri, con «Avanguardia Operaia», decisa nel condannare la Primavera di Praga alla stregua di «un volgare tentativo di riformare il paese con ricette all’occidentale». Fu insomma una parte di mondo che tacque o sproloquiò pur di fronte all’evidenza di fatti orrendi. Un silenzio e uno sproloquio non insoliti nella Storia, tipico, sempre, di chi sceglie di guardare, e di non vedere.

20/08/2008 23:26
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