La Cina celebra una marcia lunga 60 anni

Il 1. ottobre 1949 Mao proclamava la nascita della Repubblica popolare
A CURA DI FERNANDO MEZZETTI
Pechino inizia oggi i festeggiamenti per il 60.anniversario della rivoluzione comunista. Lo fa con toni trionfali che mirano ad esaltare l’antica civiltà cinese e la rapida modernizzazione del Paese. Il partito si definisce ancora comunista, ma è una struttura di mero potere autoritario, avendo fatto da tempo suicidio ideologico: oltre il 70 per cento del Prodotto interno lordo viene dall’economia privata.
Otto giorni di festa in tutto il Paese e parata militare nella capitale con 56 reggimenti, nuovi missili nucleari e sistemi d’arma avanzati. La Repubblica popolare celebra oggi i propri 60 anni in toni trionfali, con l’esaltazione dell’antica civiltà cinese e della propria rapida modernizzazione. Festeggiamenti di ogni genere: in quasi tutti i cinema, filmone da 30 milioni di euro su questi decenni trascorsi, realizzato da una decina di registi di fama con 200 attori di prima grandezza; a Pechino, un epico musical con 3.200 attori e cantanti. «La Cina si alza in piedi», è il grido con cui Mao Zedong, dal rostro della Città Proibita, proclamò il primo ottobre 1949 la nascita della repubblica popolare: presentava una Cina nuova, in rottura col passato, riscattata dalle umiliazioni inferte da occidentali e giapponesi, portatrice di antica civiltà, ma decaduta nell’impatto con la modernità. Il trionfalismo attuale ha significato ben più vasto: non solo piena indipendenza, avendo anche ristabilito la sovranità su Hong Kong (1997) e Macao (1999), ma per potenza economica e prodigioso sviluppo, con il quale in pochi anni la sua immensa popolazione è uscita da fame e arretratezza. Si esalta la Cina totale, con un fondo di fiero nazionalismo per i traguardi conseguiti e col recupero di Confucio, che, vissuto 500 anni prima di Cristo, ha permeato il pensiero e la cultura collettivi.
La repubblica popolare è nata due volte. Con Mao nel ‘49 e dopo la sua morte, avvenuta il 9 settembre 1976. La prima, chiusa e enigmatica, dell’eguaglianza in basso; la seconda che grida «arricchirsi è glorioso», sorta nel 1978, dopo due anni di lotte interne, col ritorno al potere di Deng Xiaoping, che Mao aveva liquidato per tre volte: iniziava allora la fine del maoismo, con l’avvio di apertura e riforme. La prima nasceva in piena guerra fredda, schierandosi nel campo socialista guidato da Stalin, che alla fine del conflitto mondiale aveva ristabilito in Cina i possedimenti della Russia zarista, i quali torneranno a Pechino solo dopo la sua morte. La seconda sorge in strettissimo rapporto con gli Stati Uniti, pur avviato da Mao e Zhou Enlai nel ‘71 contro l’Unione Sovietica, il cui primo frutto fu l’ingresso di Pechino all’ONU nel seggio fino ad allora occupato dai nazionalisti rifugiatisi nel ‘49 a Taiwan.
Nella prima, dopo le iniziali stragi e deportazioni di massa, le difficoltà per la costruzione economica furono aggravate dalle campagne politiche volute per trent’anni dal Grande Timoniere. Nel 1957, la lotta antidestrista, per cui tecnici, scienziati, intellettuali, furono «mandati giù», deportati nelle campagne a «imparare dai contadini»: rivalsa di classe, ma sperpero di conoscenza preziosa. Dal 1958 al 1961 il «grande balzo in avanti», con collettivizzazione integrale dell’agricoltura e della stessa esistenza umana nelle Comuni del popolo e rudimentali «altiforni da cortile» per una immaginaria industrializzazione: almeno trenta milioni di morti di fame in tre anni. Infine, il disastro della rivoluzione culturale, dal 1966 al 1976, lanciata da Mao contro un apparato che, pur omaggiandolo, l’aveva di fatto emarginato. È la Cina del «Libretto rosso» coi pensieri di Mao, agitato da milioni di giovani ignari i quali, chiuse per anni scuole e Università, si impegnavano nella lotta di classe, benché capitalisti e ceto medio fossero stati da anni eliminati.
La seconda repubblica si forma liquidando Mao e la sua eredità. Niente lotta di classe, ma sviluppo economico e modernizzazione. Abolisce le Comuni, dando la terra ai contadini, avvia un’economia di mercato, si apre agli investimenti stranieri (circa 700 miliardi di dollari in dieci anni), istituisce la Borsa, stimola l’iniziativa privata, sviluppa l’istruzione, diventa fabbrica del mondo, anche di prodotti ad alta tecnologia, arriva ai primi posti nel commercio mondiale e fa scorrerie a caccia di materie prime; le riserve, 14 milioni di dollari nel 1978, oggi superano duemila miliardi, metà dei quali in bond del Tesoro USA, branditi con moniti a Washington.
Da 250 dollari all’anno nel 1980, il reddito pro capite è arrivato ora a 3.000, circa 6.000 a parità di potere d’acquisto. La società di eguali si è diversificata. Pur nei vantaggi per tutti, si hanno vincitori e vinti: 350 mila milionari in euro, una classe media di circa 300 milioni con potere d’acquisto di livello europeo e l’immensa popolazione rurale con reddito pro capite di 700 dollari. Il potere è stato messo in pericolo nel 1989 dalle manifestazioni sulla Tiananmen, represse con la strage. Ma mentre in Europa crollavano i regimi socialisti e nel ‘91 scompariva l’Unione Sovietica, nel ‘92 Deng, scomparso poi nel ‘97, per non fare questa fine, rilanciava con maggior audacia le riforme, fino a che la proprietà privata è stata legittimata nella costituzione.
Il partito si definisce ancora comunista, ma è una struttura di mero potere autoritario, avendo fatto da tempo suicidio ideologico: oltre il 70 per cento del PIL viene dall’economia privata. Non è più il partito di contadini e operai, ma anche di imprenditori e manager, esaltati dal Quotidiano del popolo come «nuovo strato di 50 milioni di persone che possiedono o gestiscono patrimoni per 1.300 miliardi di dollari, creano ogni anno sei milioni di posti di lavoro, contribuiscono per un terzo alle entrate tributarie». Su 73 milioni di iscritti, con ammissione altamente selettiva, oltre tre milioni sono capitalisti. Il partito unico si è aperto a loro volendo rappresentare tutta la società, risolvendo al proprio interno le diversità di interessi e le latenti tensioni sociali e etniche. Il sistema resta quindi autoritario, esposto a tutte le critiche sui diritti umani. Esso dichiarava nel 1980 che «350 milioni di persone non hanno di che mangiare, di che vestirsi, dove dormire». Oggi sono «soltanto» 30 milioni, dato confermato dagli enti internazionali. Affermando quindi di soddisfare diritti umani primari, avendo liberato moltitudini dalla fame e dall’arretratezza, Pechino ammonisce i critici che «assicurare benessere a un miliardo e 300 milioni di persone è il maggior contributo alla stabilità e alla pace mondiale». La Cina in crescita preoccupa molti. Ma l’incubo di una Cina destabilizzata e nel caos sarebbe peggio.
www.cdt.ch
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Pechino inizia oggi i festeggiamenti per il 60.anniversario della rivoluzione comunista. Lo fa con toni trionfali che mirano ad esaltare l’antica civiltà cinese e la rapida modernizzazione del Paese. Il partito si definisce ancora comunista, ma è una struttura di mero potere autoritario, avendo fatto da tempo suicidio ideologico: oltre il 70 per cento del Prodotto interno lordo viene dall’economia privata.
Otto giorni di festa in tutto il Paese e parata militare nella capitale con 56 reggimenti, nuovi missili nucleari e sistemi d’arma avanzati. La Repubblica popolare celebra oggi i propri 60 anni in toni trionfali, con l’esaltazione dell’antica civiltà cinese e della propria rapida modernizzazione. Festeggiamenti di ogni genere: in quasi tutti i cinema, filmone da 30 milioni di euro su questi decenni trascorsi, realizzato da una decina di registi di fama con 200 attori di prima grandezza; a Pechino, un epico musical con 3.200 attori e cantanti. «La Cina si alza in piedi», è il grido con cui Mao Zedong, dal rostro della Città Proibita, proclamò il primo ottobre 1949 la nascita della repubblica popolare: presentava una Cina nuova, in rottura col passato, riscattata dalle umiliazioni inferte da occidentali e giapponesi, portatrice di antica civiltà, ma decaduta nell’impatto con la modernità. Il trionfalismo attuale ha significato ben più vasto: non solo piena indipendenza, avendo anche ristabilito la sovranità su Hong Kong (1997) e Macao (1999), ma per potenza economica e prodigioso sviluppo, con il quale in pochi anni la sua immensa popolazione è uscita da fame e arretratezza. Si esalta la Cina totale, con un fondo di fiero nazionalismo per i traguardi conseguiti e col recupero di Confucio, che, vissuto 500 anni prima di Cristo, ha permeato il pensiero e la cultura collettivi.
La repubblica popolare è nata due volte. Con Mao nel ‘49 e dopo la sua morte, avvenuta il 9 settembre 1976. La prima, chiusa e enigmatica, dell’eguaglianza in basso; la seconda che grida «arricchirsi è glorioso», sorta nel 1978, dopo due anni di lotte interne, col ritorno al potere di Deng Xiaoping, che Mao aveva liquidato per tre volte: iniziava allora la fine del maoismo, con l’avvio di apertura e riforme. La prima nasceva in piena guerra fredda, schierandosi nel campo socialista guidato da Stalin, che alla fine del conflitto mondiale aveva ristabilito in Cina i possedimenti della Russia zarista, i quali torneranno a Pechino solo dopo la sua morte. La seconda sorge in strettissimo rapporto con gli Stati Uniti, pur avviato da Mao e Zhou Enlai nel ‘71 contro l’Unione Sovietica, il cui primo frutto fu l’ingresso di Pechino all’ONU nel seggio fino ad allora occupato dai nazionalisti rifugiatisi nel ‘49 a Taiwan.
Nella prima, dopo le iniziali stragi e deportazioni di massa, le difficoltà per la costruzione economica furono aggravate dalle campagne politiche volute per trent’anni dal Grande Timoniere. Nel 1957, la lotta antidestrista, per cui tecnici, scienziati, intellettuali, furono «mandati giù», deportati nelle campagne a «imparare dai contadini»: rivalsa di classe, ma sperpero di conoscenza preziosa. Dal 1958 al 1961 il «grande balzo in avanti», con collettivizzazione integrale dell’agricoltura e della stessa esistenza umana nelle Comuni del popolo e rudimentali «altiforni da cortile» per una immaginaria industrializzazione: almeno trenta milioni di morti di fame in tre anni. Infine, il disastro della rivoluzione culturale, dal 1966 al 1976, lanciata da Mao contro un apparato che, pur omaggiandolo, l’aveva di fatto emarginato. È la Cina del «Libretto rosso» coi pensieri di Mao, agitato da milioni di giovani ignari i quali, chiuse per anni scuole e Università, si impegnavano nella lotta di classe, benché capitalisti e ceto medio fossero stati da anni eliminati.
La seconda repubblica si forma liquidando Mao e la sua eredità. Niente lotta di classe, ma sviluppo economico e modernizzazione. Abolisce le Comuni, dando la terra ai contadini, avvia un’economia di mercato, si apre agli investimenti stranieri (circa 700 miliardi di dollari in dieci anni), istituisce la Borsa, stimola l’iniziativa privata, sviluppa l’istruzione, diventa fabbrica del mondo, anche di prodotti ad alta tecnologia, arriva ai primi posti nel commercio mondiale e fa scorrerie a caccia di materie prime; le riserve, 14 milioni di dollari nel 1978, oggi superano duemila miliardi, metà dei quali in bond del Tesoro USA, branditi con moniti a Washington.
Da 250 dollari all’anno nel 1980, il reddito pro capite è arrivato ora a 3.000, circa 6.000 a parità di potere d’acquisto. La società di eguali si è diversificata. Pur nei vantaggi per tutti, si hanno vincitori e vinti: 350 mila milionari in euro, una classe media di circa 300 milioni con potere d’acquisto di livello europeo e l’immensa popolazione rurale con reddito pro capite di 700 dollari. Il potere è stato messo in pericolo nel 1989 dalle manifestazioni sulla Tiananmen, represse con la strage. Ma mentre in Europa crollavano i regimi socialisti e nel ‘91 scompariva l’Unione Sovietica, nel ‘92 Deng, scomparso poi nel ‘97, per non fare questa fine, rilanciava con maggior audacia le riforme, fino a che la proprietà privata è stata legittimata nella costituzione.
Il partito si definisce ancora comunista, ma è una struttura di mero potere autoritario, avendo fatto da tempo suicidio ideologico: oltre il 70 per cento del PIL viene dall’economia privata. Non è più il partito di contadini e operai, ma anche di imprenditori e manager, esaltati dal Quotidiano del popolo come «nuovo strato di 50 milioni di persone che possiedono o gestiscono patrimoni per 1.300 miliardi di dollari, creano ogni anno sei milioni di posti di lavoro, contribuiscono per un terzo alle entrate tributarie». Su 73 milioni di iscritti, con ammissione altamente selettiva, oltre tre milioni sono capitalisti. Il partito unico si è aperto a loro volendo rappresentare tutta la società, risolvendo al proprio interno le diversità di interessi e le latenti tensioni sociali e etniche. Il sistema resta quindi autoritario, esposto a tutte le critiche sui diritti umani. Esso dichiarava nel 1980 che «350 milioni di persone non hanno di che mangiare, di che vestirsi, dove dormire». Oggi sono «soltanto» 30 milioni, dato confermato dagli enti internazionali. Affermando quindi di soddisfare diritti umani primari, avendo liberato moltitudini dalla fame e dall’arretratezza, Pechino ammonisce i critici che «assicurare benessere a un miliardo e 300 milioni di persone è il maggior contributo alla stabilità e alla pace mondiale». La Cina in crescita preoccupa molti. Ma l’incubo di una Cina destabilizzata e nel caos sarebbe peggio.
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