Intervento su Il Messaggero del 17 gennaio 2009
di Romano Prodi
SI PARLA di una imminente tregua a Gaza. Se ne parla con ottimismo e
speranza ma la si invoca anche per necessità.
L’Egitto, grande e infaticabile mediatore, si trova infatti in una
posizione sempre più scomoda e difficile. Da un lato, soprattutto
negli ultimi tempi, non nasconde il suo distacco e la sua irritazione
nei confronti di Hamas e, dall’altro, non può nemmeno nascondere la
grande preoccupazione per l’effetto che i bombardamenti a Gaza,
producono sull’opinione pubblica, non solo egiziana ma di tutti i
Paesi arabi.
Nonostante il fermo controllo sui mass media esercitato dall’esercito
israeliano, le reti televisive più seguite nel mondo arabo continuano
infatti a mostrare all’opinione pubblica le tragiche scene delle
scuole colpite, dei bambini uccisi e degli ospedali sempre meno in
grado di curare i feriti.
La preoccupazione e la fretta dell’Egitto sono aumentate ulteriormente
dopo il vertice di Doha (in Qatar) nel quale la presenza del leader
della parte più estremista di Hamas (quella che risiede a Damasco ed è
capeggiata dallo sceicco Khaled Meshaal) ha spinto i Paesi presenti
verso posizioni sempre più dure ed intransigenti.
Il ragionato ottimismo che tre giorni fa il presidente egiziano mi
esprimeva riguardo a una possibile tregua, doveva essere perciò
tradotto in azione nel più breve tempo possibile. Questa è la ragione
per cui è stato convocato con la massima urgenza il vertice di Sharm
el Sheikh, vertice assolutamente necessario per porre termine alla
tragedia di Gaza prima che tutto il vicino Oriente si infiammasse.
Non nascondiamo però il rischio contenuto nella convocazione di questo
vertice di cui non sappiamo ancora
definitivamente quale sarà il livello di partecipazione, anche se ci
auguriamo che sia più ampio ed elevato possibile, proprio per la
grandezza dei problemi che deve affrontare. La nostra speranza per il
successo di questo vertice non può né deve nasconderne i limiti e
soprattutto i problemi che lascerà in ogni caso aperti. La necessità
che tutti i partecipanti avranno di giungere ad un accordo il più
rapidamente possibile renderà infatti difficile una decisione efficace
riguardo alla costituzione di una “forza di interposizione” capace da un
lato di controllare il traffico di armi fra l’Egitto e Gaza, ma capace
anche di permettere il flusso di merci di cui la città assediata ha
necessità, flusso che negli ultimi mesi è arrivato con sempre maggiore
difficoltà, imponendo penosi sacrifici a tutta la popolazione.
Ancora più complicato appare soprattutto il cammino verso una pace
stabile e una “soluzione politica” del problema palestinese. La
“guerra di Gaza” ha infatti radicalizzato ancora di più le posizioni,
ha aumentato la spaccatura non solo fra Israele e la Palestina, ma
anche all’interno dei palestinesi e, quello che è più grave, tra i
diversi Paesi arabi.
C’è chi pensa, seguendo il vecchio principio del “divide et impera”
che una ulteriore divisione tra i Paesi arabi possa facilitare la pace
definitiva in Medio Oriente. Nulla è più sbagliato di questa ipotesi.
Stando in Medio Oriente si deve infatti convenire che, in tempi nei
quali da un lato incombe la minaccia del terrorismo e dall’altro la
diffusione dei media è capace di infiammare in un attimo l’opinione
pubblica, le crescenti divisioni del mondo arabo non sono in alcun
modo un aiuto alla pace ma, all’opposto, rendono sempre più facile lo
scoppio di un conflitto inarrestabile.
E l’esperienza ci dimostra che non sono certo le liti fra i Paesi
arabi a garantire la sicurezza di Israele. É necessario perciò che le
cosiddette grandi potenze tengano ben presente questo fatto e
rifuggano dalla tentazione di ripetere il vecchio gioco che troppo
volte ha innescato tensioni e guerre. Nel ribadire la calda
ma non scontata speranza che l’incontro di oggi a Sharm el Sheikh
ponga finalmente fine alla guerra di Gaza, non facciamoci illusioni
sulla definitività e la stabilità di questa tregua.
Le cose in ogni caso partiranno da una situazione peggiore di quella
di un mese fa. Ci auguriamo perciò che il nuovo presidente degli Stati
Uniti, con lo stesso realismo di cui ha dato prova nella formazione
del suo governo, sia capace di dare concretezza e significato al
concetto di “dialogo che ha ripetutamente posto alla base della sua
futura politica estera. Dialogo e “divide et impera” non sembrano
infatti essere concetti fra di loro compatibili. Anche se in politica
tutto è possibile.
Romano Prodi
Mi ha ricordato uno dei motivi per cui ho scelto l'ulivo e Romano Prodi:
la constatazione che qualsiasi tipo di violenza anche dalla parte della ragione,innesca nella controparte mai la consapevolezza di essere nel torto,bensì il contrario;dunque l'unica via è sempre il dialogo.
Via lunga,tortuosa e con labili garanzie,ma che vale sempre la pena di seguire fino in fondo dato che non crea danno a terzi innocenti.
Stefano