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Berlino 20 anni dopo: la notte che cadde il Muro

Discussioni su quanto avviene su questo piccolo-grande pianeta. Temi della guerra e della pace, dell'ambiente e dell'economia globale.

Berlino 20 anni dopo: la notte che cadde il Muro

Messaggioda franz il 04/11/2009, 9:17

"Era già buio quando il tenente della Stasi, esausto e pressato dalla folla, decise di arrendersi"
Le macerie seppellirono il comunismo, crollato insieme al simbolo dell'Europa divisa

Berlino 20 anni dopo
la notte che cadde il Muro

di BERNARDO VALLI

IL passaggio della Bornholmer Strasse era uno dei più importanti, dei più frequentati, nella Berlino spaccata in due dal Muro. La frontiera tra Est e Ovest tagliava, esattamente in mezzo, il ponte d'acciaio a cavallo della ferrovia. A Est, nella zona comunista, si stendeva Prenzlauer Berg, un vecchio quartiere operaio in cui abitavano da anni artisti e intellettuali. A Ovest, nella zona capitalista, addossate a Wedding e Reinickendorf, le facciate delle case avevano colori più accesi, più freschi, di quelle di Prenzlauer Berg, dove i muri erano grigi, slabbrati e ancora graffiati dai proiettili della Seconda guerra mondiale. Là, nella tarda sera del 9 novembre 1989, il tenente colonnello della Stasi, Harald Jaeger, vice comandante del valico di frontiera della Bornholmer Strasse, esasperato dalla folla scalpitante, urlante, trattenuta con fatica, decise di arrendersi.

Era esausto. Aveva invocato invano per telefono ordini precisi dai superiori trincerati dietro risposte sfuggenti.
Sparare sulla gente? Neanche per sogno. I tempi erano cambiati, l'ufficiale della polizia politica lo sapeva. Ma non conosceva le nuove regole. Quattro giorni prima c'era stata una imponente manifestazione, a Berlino Est, ritmata da slogan che chiedevano democrazia, e il regime non aveva reagito. Inoltre si sapeva che da mesi decine di migliaia di tedeschi orientali aggiravano il Muro, raggiungendo la Germania federale attraverso l'Ungheria. E nessuno aveva impedito quelle evasioni di massa. Né le truppe sovietiche acquartierate nell'Europa orientale né gli eserciti nazionali erano usciti dalle caserme.

Mikhail Gorbaciov, insediato al Cremlino dall'85, aveva escluso la violenza per mantenere l'ordine nell'impero. L'Europa non avrebbe conosciuto la strage cinese della Tienanmen, avvenuta tre mesi prima a Pechino. Anche se quella drastica reazione non sarebbe stata del tutto sgradita ai leader ortodossi: a Honecker, a Husak, a Ceausescu, a Zivkov, rispettivamente al potere, o da poco sostituiti, a Berlino, Praga, Bucarest e Sofia. Budapest e Varsavia avevano invece già imboccato la strada del postcomunismo.

Il tenente colonnello della Stasi era in preda al dilemma: aprire o non aprire il valico? Nessuno dei suoi superiori aveva osato rispondere con chiarezza all'interrogativo. E alla fine Jaeger capi che doveva assumersi la responsabilità. Accompagnando le parole con un largo gesto del braccio disse rivolto alla folla: "Andate pure, tutti fuori!" E ordinò ai suoi uomini di alzare le barriere. Un'ondata umana sommerse il ponte d'acciaio.

Non potendo usare le armi, l'ufficiale della Stasi non sarebbe comunque riuscito a contenere a lungo la folla. Intasava la Bornholmer Strasse fino alla Schoenhauser Allee. Ma Jaeger, appena alzata la barriera, fu colto dal dubbio. Aveva infranto la consegna alla quale si era attenuto per più di vent'anni? Per l'ennesima volta chiamò il suo superiore, il colonnello Ziegenhorm. Temeva un rimprovero, e, invece, Ziegenhorm gli disse laconico: "Bene!" E interruppe la telefonata.

La confusa, incerta situazione che regnava al passaggio della Bornholmer Strasse, dove si aprì la prima falla nel Muro berlinese, rifletteva quella del regime comunista tedesco, e in generale dell'intero impero sovietico in decomposizione. Quel giorno, quella sera, Berlino, più in particolare la Bornholmer Strasse, era il punto nevralgico di un sistema che sembrava destinato a durare secoli e che invece stava crollando. Non in seguito a una guerra perduta. Ma per la sua stessa natura. Il comunismo reale moriva di comunismo. Crollava con il Muro che aveva costruito. E cosi finiva, in anticipo sul calendario gregoriano, anche il secolo delle ideologie (il secolo breve) cominciato con la Grande guerra, nel 1914, e poi proseguito con tragici, storici colpi di scena: il naufragio sanguinoso della Russia zarista, l'avvento dei Soviet, il crollo dell'impero tedesco, la marcia su Roma, l'incendio del Reichstag, Auschwitz, il bunker-tomba di Hitler, il gulag, la guerra fredda, l'Europa divisa. All'improvviso, nel 1989, si è afflosciato come un fondale di cartapesta il simbolo concreto di quella divisione, ossia della sfida tra le opposte concezioni del mondo emerse nel '900.
Ridurre la storia a cronaca, oppure elevare la cronaca a storia, è un'operazione che richiede coraggio e sfrontatezza. Ma è a volte un dettaglio di cronaca, un gesto o una parola, a provocare un avvenimento che determina una svolta della storia. Ben inteso un avvenimento ritardato, trattenuto dai tempi necessari alla sua maturazione. Il dettaglio caro al cronista, il gesto o la parola, fa da detonatore. A provocare la mobilitazione dei berlinesi dell'Est, quella sera di novembre, e a spingerli ad assediare i passaggi verso Ovest, come quello della Bornholmer Strasse, fu l'incauta battuta del portavoce di Egon Krenz.

Krenz era appena succeduto a Erich Honecker alla testa della Repubblica Democratica tedesca (DDR), la Germania comunista dell'Est. Al contrario di Honecker, destituito per la sua ortodossia, Krenz era allineato sulla politica di Mikhail Gorbaciov, basata su una graduale, parziale democratizzazione del sistema, nell'Unione sovietica e nei paesi satelliti. A Mosca c'erano già state elezioni semilibere. Krenz si adeguava alla glasnost, la trasparenza politica lanciata da Gorbaciov, trasmettendo alla televisione le conferenze stampa cui partecipavano anche i giornalisti stranieri. Come portavoce era stato designato Guenter Schabowski, responsabile a Berlino della SED (il partito comunista).

Milioni di berlinesi seguivano sui teleschermi, il 9 novembre, la trasmissione. Schabowski non era un esperto in comunicazione. Era impacciato. Anche perché le direttive che doveva illustrare erano incerte. Quella sera doveva annunciare il nuovo "decreto sui viaggi", destinato a favorire i passaggi attraverso i varchi del Muro. Disse che i permessi sarebbero stati rifiutati solo in casi eccezionali. Era chiaro che il governo allentava le redini sotto la pressione popolare. Un giornalista italiano (Riccardo Hermann dell'agenzia Ansa) chiese a partire da quando questi passaggi sarebbero stati possibili. Nella sua confusa risposta Schabowski farfugliò anche una battuta di enorme, storico peso. Forse gli sfuggì. Disse "von jetzt ab" ("da adesso). C'era un'evidente contraddizione: se ci volevano dei permessi, sia pur agevolati, come si poteva superare il Muro "da adesso"? Vale a dire in quella stessa sera, quando tutti gli uffici erano chiusi?
Appena ascoltata la battuta di Schabowski, i tedeschi orientali hanno cominciato a discuterne il significato, prima davanti ai televisori, in famiglia, poi al telefono con gli amici, e più tardi sulle piazze. Cosa vuol dire quel "da adesso"? Che possiamo attraversare il Muro subito? Alle nove, quando era già notte, gruppi di giovani si sono presentati ai vari passaggi: al Checkpoint Charlie, a Heinrich-Heine Strasse, a Invalidenstrasse. Alcuni li hanno attraversati senza essere disturbati, sotto gli sguardi smarriti dei poliziotti. Neppure due ore dopo Ard, una tv occidentale, ha annunciato che dei tedeschi orientali avevano potuto superare il Muro "senza complicazioni". A quella notizia Berlino Est si è illuminata, la gente è uscita dalle case e si è incamminata verso la parte occidentale della città.

E' raro capire l'importanza degli avvenimenti mentre si svolgono sotto i tuoi occhi. Vent'anni fa non si potevano avere dubbi: il comunismo reale stava ammainando la bandiera, settantadue anni dopo averla issata su Pietrogrado, durante la Rivoluzione d'Ottobre. Nel frattempo, da emblema di un'utopia quella bandiera si era trasformata in un muro di cemento, stile carcerario, lungo centosessanta chilometri. Quel giorno segnava il culmine di una lunga serie di avvenimenti concatenati uno all'altro, ma benché fosse chiaro il significato essenziale, non era ancora misurabile l'ampiezza storica di quel che accadeva. L'Unione Sovietica sopravviveva e la Germania restava spaccata in due. Il polverone che si alzava dalle macerie del comunismo era ancora troppo fitto per distinguere il nuovo panorama geopolitico.
L'emozione fu forte quando la mattina del 10 novembre l'Europa apprese che nella notte il Muro aveva cessato di essere una barriera invalicabile. Ma, non solo nelle cancelliere, alcuni pensarono e dissero (come François Mitterrand) che "ci sono dei momenti di felicità pericolosi". E si augurarono che quell'avvenimento storico, tanto carico di significati, venisse contenuto e che le sue conseguenze fossero dosate.

Frenate. La celebre battuta di François Mauriac, "Amo tanto la Germania da preferire che ce ne siano due", veniva pensata o ripetuta, non sempre sottovoce, a Londra, a Parigi, a Roma. Lo stesso George Bush senior, allora alla Casa Bianca, benché favorevole alla riunificazione tedesca, disse che "non bisognava ballare sul Muro". Bisognava essere cauti. Non avere fretta. Non soltanto a Berlino Est, anche a Bonn, capitale provvisoria della Repubblica federale, si puntava su "un processo di riavvicinamento controllato".

Il Muro era stato uno dei pilastri portanti del Continente diviso, il suo crollo poteva provocare imprevedibili mutamenti. L'Europa occidentale l'aveva condannato e vituperato, l'aveva giustamente indicato per quasi trent'anni (dall'agosto 1961, quando fu costruito) come il sinistro simbolo dell'impero sovietico, ma aveva prosperato alla sua ombra. L'Europa orientale l'aveva eretto e ufficialmente venerato, ma al suo riparo era deperita fino al collasso. I dirigenti dell'Est lo definivano un baluardo contro il fascismo mentre era di fatto una barriera per impedire un'evasione di massa dal comunismo, o se si vuole per arginare una corsa sfrenata al consumismo. Per questo era stato realizzato. Senza il Muro la Germania orientale avrebbe perduto gli strati più qualificati della società. L'esodo di tecnici, di medici, di scienziati stava dissanguando il paese, quando Nikita Krusciov, al potere a Mosca, consenti a Walter Ulbricht, al potere a Berlino Est, di realizzare il progetto che gli stava a cuore. Doveva essere una trincea e risultò un monumento prima carcerario e poi funebre. Per l'Occidente il Muro impediva esodi in massa che all'epoca si sarebbero rivelati costosi e fonti di complicazioni nei rapporti internazionali.

Se i sentimenti erano esaltanti, i calcoli economici e politici lo erano molto meno. Nella Repubblica federale c'era chi calcolava l'onere che avrebbe rappresentato il recupero post comunista delle cinque province orientali. La Germania comunista era economicamente disastrata: il suo debito esterno era vistoso, per rimpinzare le magre finanze il regime aveva accettato le immondizie capitaliste dell'Ovest, e le aveva sepolte nella splendida campagna della Turingia cara a Goethe. Sul piano economico Berlino Est dipendeva sempre più da Bonn. Il capitalismo renano aiutava il comunismo prussiano.

Dopo la notte del 9 novembre, quando la folla aveva superato il ponte di Bornholmer Strasse, era chiaro che la fine delle "due Germanie" era una questione di tempo. Ma nei movimenti di opposizione al regime comunista, compresi quelli animati dalle chiese luterane dell'Est, non mancavano gli idealisti convinti di poter trasformare l'esperienza neo stalinista in un laboratorio per tracciare una "terza via" tra il capitalismo e il comunismo. E c'erano, a Ovest, intellettuali come Guenter Grass che temevano gli effetti di una Germania unita.

Pensavano che essa potesse rianimare i vecchi demoni nazionalisti. Oskar Lafontaine, allora dirigente socialdemocratico di rilievo, si oppose apertamente alla riunificazione. E con lui lo stesso futuro cancelliere Gerhard Schroeder, sia pure con minor vigore.
Il democristiano Helmut Kohl puntò invece su una Germania unita e vinse la partita. Avanzò a tappe forzate, accompagnando lo slancio nazionale, emotivo, e nel rispetto dei principi espressi nella Legge fondamentale. Willy Brandt lo assecondò, convincendo anche quei socialdemocratici che erano tentati da soluzioni intermedie (ad esempio quella confederale) nell'attesa di una completa unità. Era difficile immaginare un nuovo modello di società, al posto di quello comunista fallito. L'alternativa era già pronta dall'altra parte del Muro. Era pronta anche la nuova moneta: Kohl cambiò il debole marco dei tedeschi orientali con il robusto marco occidentale. La riunificazione ufficiale, nell'ottobre '90, assomigliò molto a un'annessione.

Il disagio di fronte a una rapida riunificazione era evidente a Parigi e a Londra. Margaret Thatcher e François Mitterrand erano su posizioni simili. A Roma Giulio Andreotti condivideva la loro perplessità, che a tratti sembrava avversione.

Infastidiva la prospettiva di rivedere al centro dell'Europa il gigante tedesco. L'asse centrale del continente, non più diviso, si sarebbe spostato a Est. Da Parigi a Berlino. La Francia avrebbe perduto la sua centralità e non avrebbe più avuto come alleata una Germania forte economicamente ma con i piedi politici di argilla. Ossia zoppa, mutilata, quindi docile, perché nell'impossibilità di riverberare la sua potenza economica sul terreno politico. Ma gli avvenimenti hanno galoppato. Hanno travolto ostacoli ed esitazioni. Nessuno poteva frenare il corso della storia.

Con il sostegno di Bush senior, grazie all'intesa infine raggiunta con François Mitterrand e l'accettazione indispensabile di Mikhail Gorbaciov, la riunificazione è stata rapidamente realizzata. Kohl si è impegnato con Mitterrand a promuovere la progettata unione monetaria europea. Come aveva contribuito a recuperare la Germania postcomunista, il marco è servito a rassicurare, sull'altra sponda del Reno, la nazione diventata la principale alleata europea, dopo essere stata l'avversaria storica. L'euro, nato dal marco, è la garanzia dell'ancoraggio tedesco al processo di integrazione europeo. Si può considerare la moneta unica come il frutto della caduta del Muro: come un impegno tedesco in cambio della riunificazione.

Resta nella memoria la magica atmosfera di Berlino, il 10 novembre, la mattina dopo l'ondata di folla sul ponte di Bornholmer Strasse. Dove la Kurfuerstendamm, chiamata più brevemente Ku'damm, la più divertente ed elegante strada di Berlino Ovest, esplode nei grandi magazzini, migliaia di coppie, di famiglie, con bambini e zaini in spalla, e la pianta della città tenuta come una bussola nella giungla, guardavano estasiate, ipnotizzate le vetrine, e nelle vetrine le scarpe, le mutande, le calze, i magnetofoni, le fotografie di un Erotische Filmprogramme, i blue jeans, i libri, i reggiseni; e con lo stesso stupore studiavano le Porsche parcheggiate lungo i marciapiedi, il berretto del vigile urbano, le insegne luminose, e tutto quel che si muoveva o era immobile nella città della cuccagna: l'ambulanza che passava a sirene spiegate, come il semaforo spento in segno di rassegnazione nel caos del traffico ingovernabile. Questa era Berlino Ovest nelle ore che seguirono la caduta del Muro.

Gli Ossis, come sarebbero poi stati chiamati con sufficienza i tedeschi orientali, scoprivano nella realtà la vita dei Wessis, i tedeschi occidentali. L'avevano scrutata per anni sui teleschermi, seguendo tutte le sere, nel segreto delle famiglie, i programmi occidentali a lungo vietati e poi via via tollerati e infine permessi da Honecker, il guardiano del comunismo di guerra, ormai nell'impossibilità di impedire alle trasmissioni di scavalcare il Muro, invalicabile per gli umani. L'attrazione esercitata nelle prime ore, nei primi giorni, dal consumismo, si è poi lentamente rivelata meno irresistibile. E tra Ossis e Wessis non è mancata una certa ostilità. I Wessis, cresciuti nella democrazia e nel capitalismo, hanno via via disprezzato gli Ossis post comunisti. E gli Ossis hanno maturato il sentimento di essere stati "comperati" dall'Ovest, e di essere stati privati di tante cose che rendevano la vita mediocre ma facile: gli asili infantili, i grandi magazzini carichi di prodotti scadenti ma a basso prezzo, i ritmi di lavoro non troppo competitivi ma neppure troppo faticosi. Né è nata una vaga "ostalgia" per il passato. Non quello politico. Ma per un passato che è parte di un'esistenza lontana il cui ricordo, sempre più vago, serve a difendersi quando il presente diventa difficile.
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1989: un’occasione mancata

Messaggioda franz il 04/11/2009, 9:22

Su www.nuvole.it c'è uno speciale sull'evento di 20 anni fa.
Questo è l'editoriale.
Franz


La caduta del muro di Berlino segna un mutamento radicale nella percezione collettiva. Le immagini dei berlinesi in festa la sera del 9 novembre 1989 hanno profondamente emozionato l’opinione pubblica interna e internazionale. Ma la cesura fra l’epoca anteriore e l’epoca successiva è stata spesso troppo – ma troppo poco criticamente – enfatizzata. Oggi, a vent’anni di distanza il momento che ha dato l’avvio all’unificazione tedesca e, idealmente, alla fine dei blocchi è oggetto di celebrazione. L’evento fu senza dubbio spettacolare, ma merita di essere ripensato. È vero, i due mondi si contrapponevano frontalmente. Ancora nel 1980 Reagan definiva l’Urss l’impero del male, i Vopos tedesco-orientali sparavano sui fuggiaschi, le spie continuavano a infiltrarsi da una parte e dall’altra e in Afghanistan gli insorti combattevano per procura per conto degli Stati Uniti. Ma già molto tempo prima dell’‘89 le frontiere erano diventate permeabili, consentendo scambi quotidiani di persone, di merci, di tecnologie, di immagini, di opportunità. La diffusione delle informazioni ha rappresentato un elemento fondamentale dapprima di confronto e poi di omologazione, mettendo in evidenza i ritardi dell’apparato tecnologico, la fragilità dell’economia, l’inadeguatezza delle istituzioni nei paesi dell’Est.

Fino al tempo degli scudi spaziali, la concorrenza sul piano scientifico e tecnologico pareva relativamente equilibrata. Con lo scudo spaziale si registrò un’accelerazione e i sovietici (o quel che restava dell’apparato sovietico), coscienti di non riuscire a tenere il passo, dovettero subire il decadimento del loro apparato. Il disastro di Chernobyl, poi, convinse il mondo intero dell’inadeguatezza della tecnologia nucleare sovietica.

Ma anche l’economia dei paesi dell’Est era da tempo in difficoltà. La situazione ereditata da Gorbaciov, quando ascese al potere, era molto seria: l’economia era stagnante (mentre in Occidente la crescita era relativamente sostenuta) e il rublo si deprezzava, specie per la diminuzione del prezzo del petrolio che costituiva ormai il 60% delle esportazioni sovietiche. Perfino nella Ddr, punta di eccellenza industriale fra i paesi dell’Est, le cose andavano piuttosto male: la produttività era molto bassa e il tasso di investimento inadeguato. Di contro, l’intensificazione degli scambi, la diffusione dei mezzi di informazione, in particolare della televisione, e la nascente tecnologia informatica mostravano al mondo – e in primo luogo agli abitanti dell’Europa orientale – il divario con l’Occidente. Parte della nomenklatura nei paesi dell’Est cominciò così a prepararsi alla fase post-sovietica. Si erano ormai costituiti ceti che aspiravano a comandare eludendo le gerarchie e le liturgie del partito. Insomma, perché fare i burocrati quando potevano fare i capitalisti?

Ciò accadde proprio quando la rivoluzione neoliberista in occidente celebrava i suoi trionfi e non poteva non vedere di buon grado una transizione selvaggia dall’economia pianificata a quella liberista: in primis per ragioni ideologiche, in secondo luogo perché avrebbe offerto opportunità straordinarie agli imprenditori d’assalto occidentali. Ciò non significa che tra le popolazioni dell’Est non vi fosse voglia di democrazia, attesa per un mondo migliore, ovviamente più libero di quello costruito dal comunismo, e una domanda di autonomia nazionale in alternativa all’imperialismo sovietico. Ma la caduta del muro e la fine dei regimi dell’est costituiscono il momento conclusivo della capitolazione di un sistema ormai sfaldato.



Sappiamo benissimo che è molto arduo non ragionare in termini di rotture col passato. Stabilire rotture serve per periodizzare e orientarsi. Ma in questa prospettiva la rottura su cui occorrerebbe ancor più riflettere è quella del 1991, quando crollò l’Unione sovietica. Da allora non solo venne meno il bipolarismo sullo scacchiere internazionale, ma si alterarono profondamente i rapporti di forza all’interno dei sistemi politici occidentali. Non c’era più motivo di assecondare la socialdemocrazia per sventare le lusinghe, per quanto ingannevoli, del socialismo realizzato. In realtà, queste lusinghe non valevano da un pezzo, ma il 1991 ne segnò la morte ufficiale, trascinando con sé anche la prospettiva socialista che le socialdemocrazie avevano seguitato a coltivare, ancorché proiettata nel lungo periodo. Il comunismo era finito, ma aveva trascinato nella sua tomba anche la tradizione socialista e democratica dell’Occidente. Il mercato aveva trionfato. Quando il mercato comincerà a mostrare in modo eclatante i suoi fallimenti, si evocherà al più un’incerta “terza via”, del tutto incapace di contrastarli. Ciò ha inferto fieri colpi ai sistemi di welfare che nel frattempo erano stati faticosamente costruiti e che i partiti dell’ex-movimento operaio non hanno saputo – o potuto – difendere.

In effetti, già la fine del fordismo aveva indebolito il welfare, colpendo il mondo del lavoro e le sue rappresentanze sindacali e partitiche. Ma la caduta del socialismo reale ha sancito la definitiva vittoria ideologica del neoliberismo. Non è affatto provato quanto da più parti si sostiene, ovvero che il welfare diffuso è insostenibilmente costoso, quando invece sarebbe sufficiente finanziarlo con un’imposizione fiscale progressiva e adeguata. Ma la grande novità è che la socialdemocrazia ha disarmato e ha preferito inseguire il modello vincente. Né il Labour, né l’SPD hanno saputo attuare politiche in grado di proteggere realmente le classi deboli e in tal modo hanno progressivamente perso le loro radici. Anzi: sarebbe meglio dire che hanno promosso unicamente modeste politiche protettive e nessuna politica in grado di restituire loro l’identità scompaginata dalle politiche neoliberali. Le cosiddette politiche attive del lavoro e gli ammortizzatori sociali rinnegano un principio essenziale della socialdemocrazia: il lavoro come motivo di dignità dell’individuo, come forma di ancoraggio alla vita collettiva.

A vent’anni dalla caduta del Muro, la SPD tedesca non per caso ha registrato il peggior risultato della storia del dopoguerra, mentre hanno guadagnato terreno altri partiti della sinistra. Il che dimostra che gli ideali di socialdemocrazia non hanno affatto perso appeal presso gli elettori: sono piuttosto i partiti che si richiamano alla socialdemocrazia che si sono rivelati incapaci di rispettarne, seppure aggiornandola, la tradizione e gli ideali.

Con ciò, ci sarebbe da riflettere sul destino dell’uguaglianza. Nel mondo occidentale le disuguaglianze sono di certo aumentate nell’ultimo ventennio – in fatto di reddito, ma anche di opportunità – e anche la mobilità sociale si è ridotta. Nell’ex-Europa Orientale si tengono elezioni più o meno libere e competitive, ma le vecchie tutele diffuse del socialismo reale sono state dismesse e anche lì l’uguaglianza sostanziale è a conti fatti in declino, mentre solo alcuni ceti numerosi, ma pur sempre minoritari, si approssimano al benessere occidentale. Senza essere nostalgici del passato, il bilancio di ciò che si è guadagnato nel cambio andrebbe fatto in maniera non superficiale.



Il crollo del socialismo reale ha impresso una svolta anche al modello di costruzione europea. Ne avrebbe potuto causare la dissoluzione. Invece l’Europa ha retto, ha realizzato la moneta unica e ha inglobato alcuni paesi dell’Est. Il risultato è positivo, secondo molti. Ma da altri punti di vista il bilancio è assai deludente: la caduta del Muro ha interrotto il processo di costruzione dell’Europa politica e ne ha indebolito le fondamenta. Lo spirito iniziale si stava affievolendo, intaccato dal neoliberismo degli anni ottanta. A questo ha contribuito anche il ricambio generazionale, il venir meno della memoria storica. La globalizzazione ha a sua volta prodotto spinte nazionalistiche e localistiche, in netta opposizione con l’idea di un’Europa politica. La caduta del muro ha segnato la supremazia definitiva dell’Europa degli interessi sull’Europa degli ideali. Ha favorito l’integrazione dei mercati. La Germania ha creato un asse commerciale privilegiato con i paesi dell’Est, facendone un serbatoio di manodopera a basso costo e un mercato in espansione.

Negli anni aveva preso piede l’idea della costruzione di un’Europa sociale, sostenuta dai partiti socialdemocratici, ma l’illusione di coniugare solidarietà e welfare è svanita con l’allargamento a est. L’opportunità di delocalizzare le imprese, sfruttando il doppio vantaggio di mercati in forte crescita e di bassi costi di produzione, del lavoro in particolare, hanno spinto verso un rapido allargamento del mercato unico.

Va da sé che le istituzioni create per pochi paesi, relativamente omogenei, non potevano funzionare per 27 paesi. Ma sarebbe fuorviante limitarsi al problema delle istituzioni. Il progetto europeo, nato sulle rovine della seconda guerra mondiale – sviluppatosi non solo come progetto di libero mercato, ma anche come progetto politico – è naufragato a causa degli interessi economici.



Nello scenario della fine dei blocchi, la sinistra italiana non si è sottratta al deprimente destino della sinistra europea, seppure con qualche – ancor più deprimente – specificità. Quando Berlinguer riconobbe l’esaurimento della spinta propulsiva del socialismo reale, il fallimento del progetto del ‘compromesso storico’ si era già consumato. A esso non si sostituì alcun’altra strategia credibile da parte della sinistra. Dopo lo stallo degli anni ottanta, con il crollo del Muro la maggiore preoccupazione del Pci occhettiano fu di cambiare nome al partito per non essere travolto dalle macerie. A tutti i livelli, una parte cospicua dei quadri dirigenti della sinistra italiana manifestava la sua natura di ceto politico adattivo, sempre più incline alla ricerca di quotidiani compromessi con l’avversario, Il craxismo aveva allontano il Psi dalla sinistra e come unico corrispettivo delle socialdemocrazie europee era rimasto di fatto il Pci (per quanto il suo riferimento ideale non fosse certo la socialdemocrazia). Gli eredi di quello che era stato un grande partito di sinistra, che, seppure dall’opposizione, aveva contribuito enormemente alla crescita della democrazia italiana, aprendo anche, tra infinite incertezze e contraddizioni, una prospettiva d’innovazione al movimento comunista internazionale, furono tuttavia sopraffatti dalle loro alchimie tattiche. Affossata quella che con spregio è stata chiamata Prima repubblica, gli epigoni del PCI hanno voluto ad ogni costo il bipolarismo – il quale ha risvegliato sotto le insegne berlusconiane i vecchi torbidi fantasmi del moderatismo italiano – e non hanno saputo neppure allestire un competitore credibile per la nuova gara bipolare. Gli ultimi comunisti – quelli di Rifondazione – non hanno retto la sfida del governo: diversamente dal Pci, di cui si proclamano gli eredi, non hanno saputo coniugare cultura di governo e antagonismo e si sono squagliati. La fantasia dei post-occhettiani si è appagata della fusione con una quota minoritaria dell’avversario di mezzo secolo, il partito cattolico, i cui eredi e clienti hanno peraltro massicciamente preferito l’altra parte. Tutti, per stare più sicuri, litigano tra loro con entusiasmo invidiabile perfino per i polli di Renzo. Il risultato netto è che la democrazia italiana si avvia al secondo decennio del Duemila in una condizione di disperante debolezza.



Non c’è da parte nostra alcun rimpianto per muri e barriere, per lo stato di polizia, per quell’ammorbante e kafkiana assenza di democrazia che c’era all’Est. Ma abbiamo la consapevolezza che enormi errori sono stati commessi e che sia stata mancata una grande occasione. L’ideologia liberista che si è imposta in Occidente dai primi anni ottanta ha indebolito il principio di fraternité. L’accoglienza ai paesi che si affrancavano dal comunismo è avvenuta in termini di miope interesse economico. Il neoliberismo, che già stava producendo grossi danni alla democrazia e all’economia dei paesi occidentali, ha precluso ai paesi dell’est l’opportunità di una transizione all’economia di mercato guidata da principi di equità e democrazia. Cosicché, caduto il muro di Berlino, altre barriere si sono alzate, forse invisibili, ma ancora più difficili da valicare.


Noi, nati nel paese
che più non c'è,
ma in quell'Atlantide
noi eravamo,
noi amavamo.
Giace la nostra bandiera
nel gran bazar d'Ismajlovo.
La "smerciano" per dollari,
alla meglio.
Non ho preso il Palazzo d'inverno.
Non ho assalito il reichstag.
Non sono un "kommunjak".
Ma guardo la bandiera e piango.


(Evgenij Evtusenko, da "Arrivederci, bandiera rossa", 1992)
http://www.nuvole.it/index.php?option=c ... &Itemid=61
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Caduta del muro: Riflessioni ed opportunita'

Messaggioda disallineato il 06/11/2009, 22:28

Nel 20nnale della caduta del muro, i partiti socialdemocratici possono fare riflessioni sul loro passato.
Il PD che nasce dal fallimento dell'ideologia comunista come una forza nuova capace di rinnovare la politica italiana.
I dirigenti di allora non ricoprono più ruoli di primo piano.
Il crollo del muro non è stato solo una cosa simbolica, ma ricca di significati che hanno cambiatobiato il corso della storia.
Prima di allora i partiti comunisti dell'occidente e quello italiano in primis, erano ai margini della democrazia. Per colpa della loro vicinanza al PCUS, dal quale il PCI prendeva cospicui finanziamenti illeciti, non poteva aspirare a candidarsi alla guida di un paese che era nettamente di stampo atlantico, cioè agli antipodi delle simpatie del PCI.

Per fortuna quei tempi sono cambiati. Dalle macerie del partito comunista è iniziato a scaturire un partito nuovo con aspirazioni democratiche e di governo. Il percorso è stato lungo dalla svolta della bolognina, ma confrontare oggi il PCI con il PD non sembrano davvero neanche lontanamente parenti. Per fortuna.

Il fallimento dell'ideologia comunista in europa ha permesso e consentito a paesi repressi dal regime sovietico, di tornare lentamente alla normalità di uno sviluppo economico che era inimmaginabile fino a poco tempo prima della caduta.

L'europa tutta ne ha beneficiato e oggi, dopo solo 20anni, possiamo vedere che tutti quei paesi che erano soggiogati dal regime rosso, stanno lentamente crescendo e molti di essi stanno aderendo alle regole dell'unione europea.

La ricorrenza della caduta del muro, deve essere un ottima occasione per spunti di riflessione sopratutto per quelle forze politiche che pochi anni fa erano schierati al di la del muro.
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Re: Caduta del muro: Riflessioni ed opportunita'

Messaggioda disallineato il 06/11/2009, 23:49

Sapete se il PD sta preparando qualche manifestazione in occasione della ricorrenza della caduta del muro?
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Re: Caduta del muro: Riflessioni ed opportunita'

Messaggioda pianogrande il 07/11/2009, 0:02

disallineato ha scritto:Sapete se il PD sta preparando qualche manifestazione in occasione della ricorrenza della caduta del muro?


Se l'aveva programmata Veltroni, sicuramente, siamo ancora in tempo.
Bersani non si è ancora pronunciato (che io sappia).
Prova a suggerirglielo, magari con uno dei tuoi scritti concisi e ben argomentati.
Potresti avere qualche interessante lezione delle varie sfumature del dialetto emiliano.
Fotti il sistema. Studia.
pianogrande
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La caduta del muro nell'Italia di Berlusconi

Messaggioda franz il 08/11/2009, 11:39

POLITICA

La caduta del muro
nell'Italia di Berlusconi
di EUGENIO SCALFARI


RICORRE domani l'anniversario della caduta del Muro di Berlino. La fine della guerra fredda. Sono passati vent'anni e sembra un secolo. È cambiata l'Europa, è cambiato il mondo ed è cambiata l'Italia. Forse è proprio l'Italia ad aver registrato un cambiamento maggiore che non gli altri paesi.

Spesso ci sorprendiamo a dire che, al di là delle apparenze, i problemi che affliggono il nostro paese sono sempre gli stessi. Ed è vero, ma è altrettanto vero che la società del nostro paese è profondamente diversa da quella del 1989. Il suo rapporto con le istituzioni, il suo rapporto con se stessa, la percezione che gli individui hanno della propria felicità.

Su questo aspetto è necessario riflettere perché coinvolge i modi di pensare, i comportamenti, il rapporto dei padri con i figli, l'assetto delle famiglie, la politica, la democrazia. Vent'anni fa il potere si identificava con la Dc di Giulio Andreotti e il contropotere antagonista con il Partito comunista italiano. Oggi il potere è Silvio Berlusconi, e il contropotere è disperso, cerca di ricompattarsi ma non ci riesce. Ha scritto ieri Gustavo Zagrebelsky che la difficoltà va ricercata nella società civile perché sia il potere sia il contropotere emanano dal fondo del paese; non sono fenomeni che galleggiano nel vuoto, effetti privi di cause. Non si manterrebbero neppure un mese se la società esprimesse il proprio dissenso e il proprio malcontento. Se ciò non avviene, è dunque nella società civile che bisogna fissare lo sguardo.
Chiedersi che cosa è accaduto dalla caduta del Muro in poi, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Il fatto più rilevante prodotto dalla caduta del Muro è stato la fine delle ideologie. Tutti si rallegrarono, sembrò qualcosa di simile alla rottura di un cordone ombelicale, un'immensa svolta di libertà, il passaggio dalla società dell'infanzia sottoposta a ferrea tutela ad una fase finalmente adulta di consapevolezza e di responsabilità.

Era questo il mutamento? Così fu festeggiato, non soltanto dai berlinesi e dalla Germania finalmente unificata, ma dal mondo intero.

In Italia vi fu un'analoga percezione. Dopo una lunga fase di politica ingessata con le bende dell'ideologia, si era finalmente liberi di decidere con la propria testa facendo saltare i castelli di carta, le "caste", i luoghi comuni degli spot e degli slogan. Contenuti invece di propaganda, problemi e programmi concreti invece di fittizie barriere e sterili contrapposizioni.

Il potere si spaventò: si liquefaceva il cemento che aveva tenuto insieme sensibilità e interessi contrastanti. Il contropotere ebbe analoga percezione: il crollo del Muro aveva sancito la sconfitta definitiva del comunismo e l'implosione del sistema imperiale dell'Urss. Achille Occhetto, allora segretario del Pci, proclamò la fine del Partito comunista e l'approdo sulla sponda democratica concludendo così la lunga e decennale marcia di avvicinamento iniziata da Enrico Berlinguer.

Niente più ideologie e finalmente una democrazia compiuta. Nel resto d'Europa non vi furono, almeno in apparenza, fatti così traumatici. Quasi in nessuna delle grandi democrazie esistevano partiti comunisti di massa. In alcuni non ce ne era neanche l'ombra. Al di là delle apparenze tuttavia, i mutamenti furono altrettanto profondi. Per tutta la seconda metà del XX secolo infatti la politica aveva adottato sistemi di liberaldemocrazia sociale e mercati economici liberi ma regolati da norme, meccanismi di redistribuzione del reddito in favore dei ceti più deboli, interventi pubblici nella sanità e nella previdenza. Fu una grande stagione di liberal-socialismo, seguita ad una guerra rovinosa cui subentrò un sentimento di pacifismo largamente diffuso.

La caduta del Muro sancì la sconfitta storica del comunismo e liberò energie insofferenti di ogni regola, anche di quelle che presidiavano lo Stato sociale. L'implosione del comunismo produsse effetti anche sui partiti socialisti e socialdemocratici. Il pendolo non si arrestò a mezza strada. Non ci furono traumi, ma una graduale erosione della sinistra europea che durò a lungo ed è infine esplosa in tutta Europa.

* * *

In Italia il trauma della caduta del Muro ebbe come suo primo effetto una ribellione della società civile contro la corruttela che nel corso degli anni Ottanta era diventata sistema di governo decaduto al rango di comitato d'affari della partitocrazia. L'inchiesta giudiziaria che fu poi denominata "Mani Pulite" contro la "Tangentopoli" della casta al potere era stata preceduta da una sorta di furore che mobilitò per la prima volta non solo la sinistra ma gran parte dei ceti medi. Non era mai accaduto, il vincolo della guerra fredda imponeva che gli steccati ideologici venissero scavalcati e che si formasse una sola opinione pubblica.

Senza questo vero e proprio trauma, l'inchiesta giudiziaria del 1992 non sarebbe avvenuta e comunque non avrebbe avuto l'appoggio trascinante che si verificò. Sbaglia chi oggi sostiene che le forze politiche di governo furono decapitate dai magistrati "rossi": Borrelli era un liberale, Di Pietro e Davigo più di destra che di sinistra; gli altri membri del "pool" si identificavano soprattutto con il loro ruolo di magistrati e non hanno mai smentito con i fatti questa loro lodevole identificazione.

Il furore popolare durò fino al '93, poi sbollì con la stessa rapidità con la quale si era manifestato. E rifluì.
Il grande e sempre più indistinto ceto medio di vocazione moderata era stato il vero protagonista della distruzione dei partiti di governo. Aspirava ad una rappresentanza politica e ad una partecipazione diretta. La classe operaia si era sfaldata, un ceto di artigiani, piccoli e piccolissimi imprenditori-lavoratori aveva popolato di officine e capannoni la larga fascia che da Brescia si irradia verso Treviso da un lato e la Romagna e le Marche dall'altro.

Milioni di persone non avevano altro desiderio che di abbattere i famosi "lacci e laccioli", cioè le regole che presidiavano il corretto funzionamento del mercato, e di poter correre, anzi galoppare in una sterminata prateria dove mettere alla prova le loro capacità di iniziativa e di laboriosità. Magari aiutandosi anche con il lavoro nero e con l'evasione fiscale contro le dissipazioni di "Roma ladrona".

La Lega lavorò su questo tessuto sociale. Berlusconi lo amplificò su scala nazionale. Tutti e due ci misero dentro una robusta dose di paura per la sicurezza personale e fu questo il cocktail micidiale che fece oscillare il pendolo politico dal furore moralistico dei primi anni Novanta verso la destra. Ma quale destra?
Non starò qui a ricordare le caratteristiche di questo movimento che vide in Berlusconi l'Uomo della Provvidenza. Dico soltanto che nel frattempo la percezione della felicità era profondamente cambiata: si vive attimo per attimo e in ogni istante si può e si deve spremere il succo di una felicità da godere qui e subito. La trasmissione della memoria si è bloccata. Il futuro è sulle ginocchia di un Dio, dovunque si trovi e ammesso che ci sia. Si confida comunque nei miracoli e meno male che Silvio c'è.

Fino a poco fa eravamo a questo punto.

* * *

Nel frattempo il vecchio Partito comunista aveva buttato alle ortiche il suo nome ma non si era sciolto per rifondarsi eventualmente su nuove basi ideali e sociali. Aveva cercato di preservare le proprie strutture, la propria classe dirigente, i propri insediamenti organizzativi. Perdendo per strada la parte ancora fortemente ideologizzata che non aveva digerito il contraccolpo della Bolognina. Guidato da D'Alema, poi da Veltroni, poi da Fassino. E fu proprio Fassino a mettere la parola fine, quella veramente definitiva, fondando il Partito democratico insieme ai cattolici e ai liberaldemocratici della Margherita.

Questa è stata la novità prodotta dall'Italia non berlusconiana. In mezzo a molti errori e a deplorevoli rivalità, la nascita di un partito democratico e riformista è stato il principale strumento d'una possibile ripresa quando il grosso della società civile deciderà che la strada del berlusconismo sta per sboccare in una rischiosissima avventura.

* * *

"Di fronte al fantasma che si aggira per l'Italia in queste ultime settimane, cioè alla proposta di un'elezione popolare diretta del Primo Ministro o del Capo dello Stato, non mi spavento ma mantengo tutte le gravi obiezioni che ho già altre volte espresso nei confronti di ogni forma di presidenzialismo. Non è certo un modo comprensibile alla gente, il parlare, un giorno dopo l'altro, in forme confuse e contorte, di vari presidenzialismi più o meno importati, dei quali anche coloro che le propugnano non hanno manifestamente conoscenza adeguata e meditata.

Credo inoltre che far ruotare per intere settimane una crisi politica intorno a problemi costituzionali sia pure urgenti, equivalga ad una contorsione violenta della soluzione politica di problemi attualissimi e preliminari. Essi sono: l'avvio più deciso del risanamento delle finanze pubbliche, la crescente emergenza disoccupazionale, soprattutto giovanile, la soluzione dei nodi vitali del Meridione, le regole per una disciplina antitrust e quelle per un'informazione pubblica oggettiva e paritaria.

Questo 'urgente più urgente' sembra essere ignoto o comunque del tutto posposto dai principali protagonisti di questa crisi politica che sembrano altrettante maschere tragiche di questa assurda vicenda".

Questo testo non è mio né è stato scritto oggi. L'autore è Giuseppe Dossetti e la data è il 2 febbraio 1996, vigilia d'una campagna elettorale che portò il centrosinistra di Romano Prodi alla guida del Paese. Il berlusconismo non era ancora nella sua pienezza tant'è che fu sconfitto, ma aveva già conquistato una parte notevole della società italiana come si vide pochi anni dopo quando Prodi fu abbattuto anzitempo da "fuoco amico".

Richiamo l'attenzione di chi mi legge sulle parole di Dossetti. Il presidenzialismo può essere uno dei modi della democrazia se rispetta ed anzi rafforza i poteri di controllo, i poteri di garanzia, i poteri neutri e insomma lo Stato di diritto; ma può esserne la tomba se si propone come unico potere autoritario e plebiscitario.

A questo sta mirando il presidente del Consiglio, che comincerà tra breve con una riforma della giustizia con due obiettivi: bloccare i processi che lo riguardano e smantellare il Consiglio superiore della magistratura. Intanto prosegue lo smantellamento di ogni pluralismo nella Televisione pubblica.

Seguirà il tentativo di cambiare la composizione della Corte Costituzionale per renderla più arrendevole al potere politico. Sarà infine la volta di un mutamento radicale della Costituzione con l'elezione diretta del Capo dell'Esecutivo, quando già i poteri di controllo e di garanzia saranno stati resi evanescenti.

Questa è la situazione in cui ci troviamo vent'anni dopo la caduta del Muro e delle ideologie. Sono cadute tutte ma una ne è rimasta ed è molto più ingigantita: è l'ideologia del potere per il potere, il potere intoccabile e incontrastato, una sorta di Leviatano del XXI secolo che ha nelle sue mani le tecnologie del XXI secolo: un altro cocktail micidiale. Perciò è l'ora di serrare i ranghi e non sparpagliarsi. Ed è ora che la società civile prenda coscienza di quanto accade e assuma su di sé la responsabilità di metter fine a questa sciagurata avventura.

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Putin e il crollo del Muro

Messaggioda franz il 08/11/2009, 15:50

LA STORIA
Putin e il crollo del Muro
«Difesi il Kgb con le armi»

Il leader russo racconta il 9 novembre 1989 a Dresda: «Fu triste per l'Urss, ma non poteva durare»

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
MOSCA — Mentre il Muro cadeva e la vita dei tedeschi dell'Est cambiava per sempre, Vladimir Putin era occupato notte e giorno a distruggere dossier, a cancellare le tracce di tutte le comunicazioni, a bruciare documenti nella sede del Kgb di Dresda. «Avevamo talmente tanta roba da mettere nel fuoco che a un certo punto la stufa scoppiò», ha raccontato lui stesso in una lunga intervista che il canale televisivo Ntv manderà in onda questa sera. Poi, dopo l'assalto agli uffici locali della Stasi, venne il turno della sede del Kgb. Una folla enorme si assiepò davanti alla palazzina che ospitava i sovietici e si fermò solo perché lo stesso primo ministro russo, allora giovane colonnello del servizi segreti, uscì fuori e minacciò di usare le armi. La vita dorata di Vladimir Putin, numero due del Kgb nella città della Ddr a sud di Berlino, pagato parte in dollari e parte in marchi, stava per finire. Vladimir e Lyudmila sarebbero presto ritornati a San Pietroburgo, dove lui, senza soldi e senza futuro, pensò pure di mettersi a fare il tassista.

LA VITA IN GERMANIA - Nella Germania Est, invece, era stata tutta un'altra storia. I Putin c'erano arrivati nel 1985, mentre Gorbaciov dava inizio alla perestrojka. Ma nella Ddr molto poco cambiò in quegli anni: «Era come l'Unione Sovietica di trent'anni prima, un Paese totalitario», ha detto ancora Putin. Totalitario ma ricco. Al posto delle file interminabili per qualche salsiccia, c'era ogni ben di dio. «Avevamo perfino una Zhigulì di servizio, considerata un'ottima macchina in confronto alle Trabant. E nei fine settimana ce ne andavamo sempre in giro per la Sassonia», ha raccontato Lyudmila. Vladimir lavorava fianco a fianco con i colleghi della Stasi e il venerdì sera andava sempre a farsi una birra con loro, tanto che mise su 12 chili. Il giovane colonnello si occupava di «spionaggio politico»: reclutare fonti, ottenere informazioni, analizzarle e trasmetterle a Mosca. A Dresda c'era un'importante fabbrica elettronica, la Robotron, e Putin teneva d'occhio gli stranieri che andavano a visitarla. Si dice, ma lui non l'ha mai confermato, che poco prima della caduta del Muro, ebbe il compito di assoldare una rete di agenti che avrebbero dovuto fungere da quinta colonna dell'Urss nella Germania riunificata. Uno di loro, un certo Klaus Zuchold, venne subito preso e confessò ogni cosa al controspionaggio della Germania occidentale. Così la «brillante» operazione di Putin andò per aria.

LA DISTRUZIONE DELLE PROVE - Quel 9 novembre, Putin assistette con tristezza agli eventi di Berlino: «Ad essere onesti devo dire che mi dispiaceva che l'Urss stesse perdendo le sue posizioni in Europa», ha confessato. «Però capivo che una posizione costruita sulle divisioni e sui muri non poteva durare». Nei giorni seguenti tutti gli uomini del Kgb si diedero da fare per prepararsi ad abbandonare la posizione. «Dovevamo distruggere ogni cosa, interrompere le linee di comunicazione; solo il materiale più importante fu trasferito a Mosca», ha detto l'ex presidente russo. La notte del 5 dicembre la folla occupò la sede della Stasi a Dresda. La mattina dopo tutti si radunarono davanti alla palazzina di Angelikastrasse 4, dove aveva sede (in incognito) il Kgb. All'interno chiamarono il vicino distaccamento militare per chiedere aiuto, ma la risposta fu negativa: «Non possiamo fare nulla senza l'autorizzazione di Mosca, e Mosca tace». Putin ebbe la sensazione che «l'Urss non esistesse già più». Uscì fuori con la pistola in mano (lui dice che aveva a fianco un soldato armato), si qualificò come interprete e spiegò che quello era territorio sovietico. La gente rinunciò a scavalcare il muro di cinta.

Fabrizio Dragosei
08 novembre 2009
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