
Iran-Usa, la strategia di Trump e i rischi della sua imprevedibilità
di Massimo Gaggi | 08 gennaio 2020
Il presidente americano ha fatto dell’imprevedibilità il suo marchio di fabbrica, ma può funzionare in un quadro grave come quello della crisi in corso?
Orgoglioso del suo rifiuto di seguire vincoli e processi istituzionali della politica nelle scelte interne come nei rapporti internazionali, Donald Trump ha fatto dell’imprevedibilità il suo marchio di fabbrica. Ma in una crisi grave che rischia di sfociare in una nuova guerra come quella innescata dall’uccisione del generale Soleimani questa imprevedibilità, che in passato ha dato a volte vantaggi tattici al presidente Usa, semina caos non solo nelle relazioni internazionali, ma anche nella politica americana (l’impotenza di Nancy Pelosi, leader della Camera, testimoniata dall’invito ai suoi parlamentari a pregare dopo la rappresaglia missilistica iraniana) e nella sua stessa Amministrazione. Il succedersi di messaggi contraddittori sul possibile ritiro delle forze alleate dall’Iraq, sull’eventualità di colpire, in caso di rappresaglie, anche siti culturali commettendo un crimine di guerra, la minaccia di varare sanzioni economiche micidiali contro un governo di Baghdad tuttora tenuto in piedi dagli enormi sostegni economici erogati dagli Stati Uniti, stanno creando immenso malessere e incertezza tra i militari americani, nella diplomazia e perfino alla Casa Bianca. I funzionari seduti a pochi metri dal presidente leggono i suoi tweet che smentiscono quanto appena ufficialmente comunicato (nelle ultime ore su una risposta pubblica dopo l’attacco missilistico iraniano) con la stessa sorpresa dei giornalisti.
Qual è la strategia di Trump? Ce n’è ancora una, visto che era perfettamente prevedibile che l’eliminazione di Soleimani avrebbe danneggiato gli interessi americani sui due fronti più importanti, portando a una rottura col governo iracheno e a una ripresa del programma nucleare iraniano? Come reagirà alla rappresaglia missilistica? Chi sono i falchi che soffiano sul fuoco? Il segretario di Stato Mike Pompeo, da sempre sostenitore di azioni «muscolari» di contenimento dell’Iran, è, probabilmente, la voce più dura ascoltata da Trump. E la più influente, anche perché le epurazioni successive e le dimissioni di funzionari e ministri qualificati che dissentivano dalle scelte del presidente hanno desertificato la Casa Bianca e l’amministrazione.
La cosa più preoccupante in questa crisi è che a bilanciare la tendenza del presidente a decisioni unilaterali e impulsive non ci sono più i generali e i professional di lungo corso che lo avevano affiancato nella prima parte del suo mandato presidenziale. Era un rischio che conoscevamo e del quale abbiamo parlato varie volte: ora ci siamo. Non si riesce a capire perché Trump abbia deciso un attacco così brutale pochi mesi dopo aver respinto le pressioni proprio di Pompeo per una rappresaglia contro l’Iran, quando fu abbattuto un drone americano.
Se c’era una minaccia grave e imminente a giustificare l’eliminazione di Soleimani, il giorno per renderlo noto è oggi, quando il governo trasmetterà un rapporto al Congresso destinato a rimanere segreto ma del quale si dovrebbe poter percepire la gravità. Pompeo, però, fin qui ha sostenuto che l’uccisione della Quds Force è una cosa buona in sé, guardando al passato e non al futuro. Alla Casa Bianca Trump riunisce un Consiglio per la Sicurezza nazionale monco, come i vertici degli organi di difesa e sicurezza, con molti capi dimissionari o cacciati che non sono stati nemmeno sostituiti: a oggi l’America non ha il capo della Marina, il direttore della National Intelligence (servizi segreti), quello dell’Immigrazione, il ministro per la sicurezza interna, i viceministri degli Esteri per l’Europa e per il controllo degli armamenti. E la Pelosi prega.