da soniadf il 18/12/2008, 4:16
Qualche mese fa, guardando le scene di rivolta dei napoletani contro le discariche, i blocchi e le sassaiole, mi venivano in mente i “lazzaroni” descritti da Dumas nel romanzo “Luisa Sanfelice”, quella massa zotica manovrata dal cardinale Ruffo di Calabria contro la repubblica giacobina.
La morte, in questi giorni, dell’editore Caracciolo, discendente dell’Ammiraglio napoletano fatto giustiziare da Nelson in quella stessa occasione, ha reso ancora più suggestiva la memoria di un popolo ostaggio di un potere svergognato, che si rigenera sempre nelle stesse forme ingessate, violente e “cafone”.
C’è un’altra immagine che si sovrappone al re Franceschiello, quella del “Cafonal” di Dagospia, il libro fotografico tratto dal sito di D’Agostino, che ha goduto in questa stessa settimana del lancio pubblicitario incrociato di Lerner e di Vespa.
Sono le immagini della cafoneria al potere, gli incontri mondani dove i politici di destra e di sinistra si confondono con le starlettes e il demi-monde di quello che una volta si chiamava il “generone” romano, e che trova una inaspettata sponda in alcuni intellettuali, che confessano di trovarvi il vero volto del regime e i segni nascosti delle trame politiche ed economiche del paese.
Trame, appunto. Perché niente deve essere trasparente, tutto si consuma dietro le quinte, il popolo serve solo a riempire le piazze e a gridare “viva il re” o “viva la repubblica”, a seconda del momento.
La discussione che qui si è fatta sulla camorra non è affatto peregrina, perché in Campania il confronto è tra criminalità e legalità, tra stato e antistato, destra e sinistra sono solo accidenti semantici in quel giuoco equilibristico di potentati locali, e la Campania è la semplificazione del fallimento di un’intera classe dirigente, nell’intero paese.
Una classe dirigente che non è stata in grado di garantire i più elementari diritti di cittadinanza, che ha scientemente sabotato per decenni l’esercizio della giustizia, che ha cercato di condividere con la criminalità lo stato di impunità permanente, che si è spartita il territorio in “mandamenti”, che controlla tutto perché non può permettersi il lusso che qualcuno si senta libero di fare senza la sua autorizzazione: l’Italia è uno stato politico-mafioso, che ha tolto dignità al lavoro e alle competenze dei singoli cittadini, e costringe tutti nella morsa claustrofobica di un linguaggio addomesticato, come il gergo malavitoso che unisce vittime e carnefici di certi quartieri napoletani, dove l’unica autorità conosciuta è quella dei boss.
Nel libro di Saviano c’è la storia di un bravo sarto che soffre anche perché non può esercitare bene il suo mestiere: non serve, fare bene le cose non serve in un mondo che si arricchisce sulla spazzatura, e che è disposto a rendere invivibile la propria stessa casa pur di arricchirsi e mantenere il controllo.
Io arrivo perfino a capire lo sconcerto di Bassolino e della Iervolino, educati a fare politica stringendo alleanze, garantendosi sostegni, elargendo favori e costruendo equilibri territoriali, cercando di non scontentare nessuno ed evitando scontri frontali. Ed ora gli si viene a dire che la propria autorità non va salvaguardata e riconosciuta in questo bilanciamento di forze, ma nei risultati amministrativi ottenuti, nelle garanzie dei diritti dei cittadini, nello sviluppo socio-economico del territorio. I cittadini singoli non esistono, esistono solo bande di “lazzaroni” che devono essere accontentate, per rimanere in sella, per il loro bene e per quello della propria parte.