La lontananza di D’Alema anche dalla sua corrente

La lontananza di D’Alema anche dalla sua corrente
Si avverte un senso quasi luttuoso di lontananza siderale e di incommensurabile alterità, di cui l’argomentare sprezzante è soltanto un debole riflesso retorico
L’Arte della guerra suggerisce di non muovere mai battaglia se prima non si è certi della vittoria: è lo schieramento, non lo scontro a decidere il vincitore. Massimo D’Alema, nell’intervento senza dubbio più duro e sferzante della sua lunga carriera politica, ha rispettato a suo modo il consiglio del maestro Sun Tzu: e anziché muovere all’attacco del nemico, ha scelto di irriderlo dall’altura dove ha trovato rifugio.
leggi anche:
Ieri D’Alema non ha fatto politica (e anche questo è un unicum nella sua biografia), ma ha dato sfogo ad un sentimento molto simile al disprezzo, e per questa strada ha dichiarato solennemente un’incompatibilità non tanto e soltanto politica, ma culturale e persino antropologica, con Matteo Renzi e con la sua oratoria tanto efficace quanto «priva di attinenza con la realtà». E anche questo, naturalmente, è un fatto politico.
Fabrizio Rondolino 30 settembre 2014
Alla “democrazia dei maleducati” difesa da Renzi, con le parole di Chesterton, in contrapposizione all’“aristocrazia degli educati male” – cioè i “poteri forti” – D’Alema risponde rivendicando al contrario il peso essenziale degli specialismi.
O, per meglio dire, di un’idea di politica intesa come confronto paziente, persino noioso con il “principio di realtà”, al di fuori e lontano dalla massa vociante del consenso. Che poi questa idea sia precisamente la radice culturale dell’immobilismo delle classi dirigenti italiane è questione che richiederebbe ben altro approfondimento: ma a D’Alema interessa poco, oggi, ripercorrere il passato e i suoi fallimenti, e molto di più invece separare col fuoco la storia che c’è stata da quella che Renzi ha inaugurato.
Al termine di una vera e propria requisitoria contro le numerose «affermazioni prive di fondamento» del segretario-premier (sul taglio del costo del lavoro, sull’articolo 18 e in generale sulle scelte e gli annunci dell’esecutivo), D’Alema ha pronunciato una sentenza definitiva: «Questo è un impianto di governo destinato a produrre scarsissimi effetti, e così comincia ad essere percepito dalla parte più raffinata dell’opinione pubblica». Cioè, per l’appunto, da quell’aristocrazia “educata male” che è invece per Renzi l’unico vero avversario da battere per «far ripartire l’Italia».
Ma è soprattutto il tono di D’Alema – qua e là persino emozionato, come se la voce ogni tanto si spezzasse e avesse dispiacere a procedere oltre – a colpire come un pugno allo stomaco. Siamo ben oltre la famosa (e a dire il vero piuttosto simpatica) presuntuosa arroganza che ne ha segnato la gloria e le cadute, l’autostima e l’autolesionismo.
C’è piuttosto, nel D’Alema di ieri, un senso quasi luttuoso di lontananza siderale e di incommensurabile alterità, di cui l’argomentare sprezzante è soltanto un debole riflesso retorico.
Da una parte c’è l’«oratoria ammirevole del segretario, che non si rivolge a noi ma ad un pubblico molto più vasto fuori di qui», e dall’altra c’è la “prosa” di D’Alema, l’ancoraggio (presunto, ostentato) ai “fatti”: «Non è obbligatorio saperli – dice a Renzi – ma sarebbe fortemente auspicabile studiarli». Perché «caro Matteo – conclude – tu devi anche pensare a quelli che le cose le sanno». Il che, in italiano corrente, significa che il nostro presidente del consiglio è un cialtrone.
Difficile immaginare come possa ricomporsi una frattura di questo tipo. È come se D’Alema avesse scelto di abdicare volontariamente alla guida – quantomeno onoraria, se non effettiva – dell’opposizione interna, cui evidentemente non pronostica un grande futuro, per ritirarsi in un altrove tanto più radicale quanto più politicamente sterile. Più che al rancore dell’Occhetto sconfitto, l’intervento di D’Alema somiglia alla lontananza in cui piano piano si rifugiò Ingrao dopo lo scioglimento del Pci.
http://www.europaquotidiano.it/2014/09/ ... -corrente/
Si avverte un senso quasi luttuoso di lontananza siderale e di incommensurabile alterità, di cui l’argomentare sprezzante è soltanto un debole riflesso retorico
L’Arte della guerra suggerisce di non muovere mai battaglia se prima non si è certi della vittoria: è lo schieramento, non lo scontro a decidere il vincitore. Massimo D’Alema, nell’intervento senza dubbio più duro e sferzante della sua lunga carriera politica, ha rispettato a suo modo il consiglio del maestro Sun Tzu: e anziché muovere all’attacco del nemico, ha scelto di irriderlo dall’altura dove ha trovato rifugio.
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Ieri D’Alema non ha fatto politica (e anche questo è un unicum nella sua biografia), ma ha dato sfogo ad un sentimento molto simile al disprezzo, e per questa strada ha dichiarato solennemente un’incompatibilità non tanto e soltanto politica, ma culturale e persino antropologica, con Matteo Renzi e con la sua oratoria tanto efficace quanto «priva di attinenza con la realtà». E anche questo, naturalmente, è un fatto politico.
Fabrizio Rondolino 30 settembre 2014
Alla “democrazia dei maleducati” difesa da Renzi, con le parole di Chesterton, in contrapposizione all’“aristocrazia degli educati male” – cioè i “poteri forti” – D’Alema risponde rivendicando al contrario il peso essenziale degli specialismi.
O, per meglio dire, di un’idea di politica intesa come confronto paziente, persino noioso con il “principio di realtà”, al di fuori e lontano dalla massa vociante del consenso. Che poi questa idea sia precisamente la radice culturale dell’immobilismo delle classi dirigenti italiane è questione che richiederebbe ben altro approfondimento: ma a D’Alema interessa poco, oggi, ripercorrere il passato e i suoi fallimenti, e molto di più invece separare col fuoco la storia che c’è stata da quella che Renzi ha inaugurato.
Al termine di una vera e propria requisitoria contro le numerose «affermazioni prive di fondamento» del segretario-premier (sul taglio del costo del lavoro, sull’articolo 18 e in generale sulle scelte e gli annunci dell’esecutivo), D’Alema ha pronunciato una sentenza definitiva: «Questo è un impianto di governo destinato a produrre scarsissimi effetti, e così comincia ad essere percepito dalla parte più raffinata dell’opinione pubblica». Cioè, per l’appunto, da quell’aristocrazia “educata male” che è invece per Renzi l’unico vero avversario da battere per «far ripartire l’Italia».
Ma è soprattutto il tono di D’Alema – qua e là persino emozionato, come se la voce ogni tanto si spezzasse e avesse dispiacere a procedere oltre – a colpire come un pugno allo stomaco. Siamo ben oltre la famosa (e a dire il vero piuttosto simpatica) presuntuosa arroganza che ne ha segnato la gloria e le cadute, l’autostima e l’autolesionismo.
C’è piuttosto, nel D’Alema di ieri, un senso quasi luttuoso di lontananza siderale e di incommensurabile alterità, di cui l’argomentare sprezzante è soltanto un debole riflesso retorico.
Da una parte c’è l’«oratoria ammirevole del segretario, che non si rivolge a noi ma ad un pubblico molto più vasto fuori di qui», e dall’altra c’è la “prosa” di D’Alema, l’ancoraggio (presunto, ostentato) ai “fatti”: «Non è obbligatorio saperli – dice a Renzi – ma sarebbe fortemente auspicabile studiarli». Perché «caro Matteo – conclude – tu devi anche pensare a quelli che le cose le sanno». Il che, in italiano corrente, significa che il nostro presidente del consiglio è un cialtrone.
Difficile immaginare come possa ricomporsi una frattura di questo tipo. È come se D’Alema avesse scelto di abdicare volontariamente alla guida – quantomeno onoraria, se non effettiva – dell’opposizione interna, cui evidentemente non pronostica un grande futuro, per ritirarsi in un altrove tanto più radicale quanto più politicamente sterile. Più che al rancore dell’Occhetto sconfitto, l’intervento di D’Alema somiglia alla lontananza in cui piano piano si rifugiò Ingrao dopo lo scioglimento del Pci.
http://www.europaquotidiano.it/2014/09/ ... -corrente/