Per un populismo della sinistra

Per un populismo della sinistra
di EDMONDO BERSELLI
OGGI al Circo Massimo va in scena una strana coppia: il riformismo e la piazza. Cioè una protesta di massa contro il centrodestra galvanizzato dai sondaggi insieme con un'idea razionale di possibili riforme alternative. Ma è un matrimonio possibile? È opportuno, è conveniente, è politicamente utile che nella cultura e nella pratica del Partito democratico si sviluppi anche una componente populista?
Fa bene a un partito riformista un po' di esplicito populismo di sinistra? Sono interrogativi che equivalgono a chiedersi, in fondo, se il riformismo debba contenere una quota di radicalità. Con quel che ne consegue anche nello stile e nei simboli: cortei, bandiere, un'opposizione animosa e rumorosa, con il recupero di una contrapposizione nettissima rispetto al governo e al Popolo della libertà. Insomma: oggi, domani, nel futuro politicamente prevedibile, il riformismo può trovare una risorsa nel populismo?
C'è un'insidia in questa domanda, se si pensa che l'accusa di populismo è sempre stata brandita contro la destra. Secondo la cultura unanime del centrosinistra, l'istinto demagogico appartiene all'indole del Pdl e dei suoi capi, a cominciare dal populista principe Silvio Berlusconi, dato che un marcato atteggiamento antistituzionale è stato la cifra continua negli slogan, nelle proteste e negli atti della destra: contro le tasse, contro l'euro, contro le regole, contro i partiti, contro i "comunisti", contro i giudici, contro i fannulloni, contro gli stipendi degli insegnanti.
A rigor di termini, l'ideologia e la vocazione populista si realizzano nell'intenzione di trasformare immediatamente in leggi la cosiddetta volontà popolare. L'attuale governo ne è un esempio plateale, con i ministri (in particolare Mariastella Gelmini, Renato Brunetta, Giulio Tremonti, Roberto Calderoli) impegnatissimi a disporre pacchetti di riforme, anche per decreto, cercando comunque di superare di slancio il disturbo delle discussioni parlamentari. Ecco la Finanziaria approvata in Consiglio dei ministri nel giro di nove minuti e mezzo, ecco l'assurda Robin Tax, tassa discrezionale "contro la speculazione petrolifera" e contro le banche, quando sembrava che petrolieri e banche facessero profitti troppo alti grazie alla congiuntura; e poi l'esercito in tenuta campale nelle strade, il federalismo affidato a una delega generica e caotica, i tagli alla scuola che idealizzano strumentalmente l'età delle mezze stagioni e dei grembiulini.
Non conviene nascondersi che, di fronte al forcing comunicativo del Pdl, il centrosinistra ha mostrato finora armi spuntate. In parte per le ripercussioni politiche e psicologiche della sconfitta elettorale, ma in parte anche per una specie di sfasatura rispetto alle iniziative del governo. L'azione politica del Pd veltroniano, infatti, si svolge in genere su un piano differente rispetto a quello della maggioranza berlusconiana. La cultura democratica prevalente è largamente rivolta verso la sfera dei diritti, evoca battaglie culturali nel nome dell'antifascismo, combatte il razzismo e la xenofobia, si concentra sulle pari opportunità e contro le discriminazioni, nel nome del rispetto di una consapevole cultura costituzionale.
Sono tutte tematiche sacrosante, ma per il momento poco producenti nella battaglia politica in corso. Hanno la veste di posizioni filosofiche più che di strumenti politici utilizzabili nel confronto. Confermano l'elettore del centrosinistra di essere nel giusto, convincono i già convinti, ma almeno nel breve periodo non allargano l'area del consenso. Mentre dovrebbe essere chiaro che, se non vuole restare politicamente subalterno (cioè "minoranza strutturale", secondo la definizione di Massimo D'Alema), nelle prossime stagioni il problema centrale del Pd consisterà non tanto nel confermare i propri elettori, bensì nel tentare di staccare pezzi di elettorato dall'area berlusconiana.
A questo scopo, il centrosinistra deve riuscire a spiegare, prima a se stesso e poi all'opinione pubblica, che il riformismo è sì politica delle compatibilità, ma che ciò non esclude affatto un principio di radicalità. Perché la radicalità è uno strumento che serve a perseguire due obiettivi: a individuare con nettezza i problemi, e a suscitare identità.
Vero è che occorre intendersi su quali ambiti convenga essere radicali. Cioè i punti su cui esercitare una pressione politica efficace. Al di là dall'incertezza generale suscitata dalla recessione, sarà il caso di vedere con chiarezza che Pdl è all'attacco sul terreno socio-economico, ha in mente una politica chiara, tesa a corporare gli interessi in un blocco sociale permanente. L'eclettismo berlusconiano sui principi di fondo e sui "valori" consente alla destra di assumere le posizioni di volta in volta più convenienti, specialmente nel rapporto con la Chiesa; ma sugli interessi non si scherza mai. Il Pdl avrà pure commesso errori strategici (in particolare predisponendo misure economiche depressive, cioè i tagli, in una fase di crescita zero), ma ha chiarissimo l'obiettivo unilaterale di favorire i ceti a cui può offrire una conveniente casa comune.
Ebbene, in una situazione simile il Pd non può permettersi il lusso di disputare una partita diseguale, ossia di rispondere a una politica economica aggressiva con una serie di rivendicazioni intellettuali, civili, filosofiche. È vero che il codice della lealtà repubblicana e di una modernizzazione guidata da criteri di apertura culturale sono essenziali per stabilire una differenza qualitativa rispetto alla destra: una laicità radicale è un elemento essenziale di identità politica rispetto al clericalismo opportunista di Berlusconi; così come un'idea avanzata ed europea della riforma della scuola è necessaria per rispondere in modo radicale (e nello stesso tempo con buonsenso) alla striminzita restaurazione della Gelmini.
Ma in questo momento ci vuole innanzitutto uno strenuo esercizio di radicalità per mettere allo scoperto i pilastri della politica del Pdl. Il "populismo" della sinistra riformista dovrebbe essere la leva per concentrarsi sulle contraddizioni della coalizione di centrodestra, per richiamare su di esse l'attenzione dei cittadini e per provare a sgretolarle. Altrimenti la politica italiana resta divisa in due corpi separati, ognuno dei quali gioca la sua partita indipendente: solo che la destra si fa gli affari, la sinistra nutre buoni sentimenti con il rischio, alla fine, di vederli trasformati in frustrazione permanente.
E invece no: per uscire dal cerchio del consenso magico del Re Silvio, dalla stregoneria comunicativa indipendente dagli eventi reali, occorre anche quel tanto di realistica asprezza che induce a parlare di cose elementari. Quindici milioni di italiani intorno alla linea della povertà. I negozi di quartiere deserti. I salari falcidiati dall'inflazione, che invece favorisce chi può ancora manovrare i prezzi. Il lavoro dipendente sacrificato alle necessità della concorrenza globale; e nello stesso tempo settori commerciali già in crisi per la flessione dei consumi determinata dall'erosione dei redditi medi.
Insomma, è il caso di tornare a mettere il dito su fenomeni a loro modo brutali. E per farlo ci vuole la schietta radicalità implicita nel parlare di cose vere, cioè di soldi, di redditi, di bilanci famigliari, di profitti, di problemi reali dell'economia. Per la sinistra riformista, la sfera degli interessi è stata in passato confinata in fantasmi contabili come il Pil, il debito, il deficit, l'avanzo primario. In seguito si è praticato un tentativo quasi eroico di reinterpretare da sinistra le categorie liberali del merito e della concorrenza, come strumenti per scardinare la disuguaglianza sociale.
Adesso occorre essere convincenti in profondità: non è sufficiente il cervello, la razionalità, la linearità dell'analisi. Ci vogliono anche il sangue, i polmoni, il cuore. Quel tanto di cattiveria che consente di parlare alla pancia della nostra società e di attaccare la destra sul suo stesso terreno e con realistiche possibilità di successo. (Benissimo la moral suasion su Guglielmo Epifani, ma non si dovrebbe dimenticare che la migliore critica all'operazione Alitalia è venuta dal radicalismo televisivo di Milena Gabanelli, non dal governo ombra).
Il Circo Massimo serve a ricordare che è venuto il momento di mettere il naso nella concretezza. Di tentare con adeguata forza polemica di dissolvere i fumi berlusconiani del consenso gratuito. Il populismo possibile della sinistra significa che occorre guardare alla realtà vera del nostro paese, alla sua vita quotidiana. Nonostante la prevalenza del virtuale, la politica è ancora scontro di posizioni, delimitazione fra scelte incompatibili, contrapposizione di soluzioni apertamente alternative. In questo senso, il populismo, interpretato con intelligenza da sinistra, non è un ibrido incoerente: è semplicemente lo strumento per dare una voce a un'Italia che fino a oggi ha rischiato di restare attonita e muta.
(25 ottobre 2008)
www.repubblica.it
di EDMONDO BERSELLI
OGGI al Circo Massimo va in scena una strana coppia: il riformismo e la piazza. Cioè una protesta di massa contro il centrodestra galvanizzato dai sondaggi insieme con un'idea razionale di possibili riforme alternative. Ma è un matrimonio possibile? È opportuno, è conveniente, è politicamente utile che nella cultura e nella pratica del Partito democratico si sviluppi anche una componente populista?
Fa bene a un partito riformista un po' di esplicito populismo di sinistra? Sono interrogativi che equivalgono a chiedersi, in fondo, se il riformismo debba contenere una quota di radicalità. Con quel che ne consegue anche nello stile e nei simboli: cortei, bandiere, un'opposizione animosa e rumorosa, con il recupero di una contrapposizione nettissima rispetto al governo e al Popolo della libertà. Insomma: oggi, domani, nel futuro politicamente prevedibile, il riformismo può trovare una risorsa nel populismo?
C'è un'insidia in questa domanda, se si pensa che l'accusa di populismo è sempre stata brandita contro la destra. Secondo la cultura unanime del centrosinistra, l'istinto demagogico appartiene all'indole del Pdl e dei suoi capi, a cominciare dal populista principe Silvio Berlusconi, dato che un marcato atteggiamento antistituzionale è stato la cifra continua negli slogan, nelle proteste e negli atti della destra: contro le tasse, contro l'euro, contro le regole, contro i partiti, contro i "comunisti", contro i giudici, contro i fannulloni, contro gli stipendi degli insegnanti.
A rigor di termini, l'ideologia e la vocazione populista si realizzano nell'intenzione di trasformare immediatamente in leggi la cosiddetta volontà popolare. L'attuale governo ne è un esempio plateale, con i ministri (in particolare Mariastella Gelmini, Renato Brunetta, Giulio Tremonti, Roberto Calderoli) impegnatissimi a disporre pacchetti di riforme, anche per decreto, cercando comunque di superare di slancio il disturbo delle discussioni parlamentari. Ecco la Finanziaria approvata in Consiglio dei ministri nel giro di nove minuti e mezzo, ecco l'assurda Robin Tax, tassa discrezionale "contro la speculazione petrolifera" e contro le banche, quando sembrava che petrolieri e banche facessero profitti troppo alti grazie alla congiuntura; e poi l'esercito in tenuta campale nelle strade, il federalismo affidato a una delega generica e caotica, i tagli alla scuola che idealizzano strumentalmente l'età delle mezze stagioni e dei grembiulini.
Non conviene nascondersi che, di fronte al forcing comunicativo del Pdl, il centrosinistra ha mostrato finora armi spuntate. In parte per le ripercussioni politiche e psicologiche della sconfitta elettorale, ma in parte anche per una specie di sfasatura rispetto alle iniziative del governo. L'azione politica del Pd veltroniano, infatti, si svolge in genere su un piano differente rispetto a quello della maggioranza berlusconiana. La cultura democratica prevalente è largamente rivolta verso la sfera dei diritti, evoca battaglie culturali nel nome dell'antifascismo, combatte il razzismo e la xenofobia, si concentra sulle pari opportunità e contro le discriminazioni, nel nome del rispetto di una consapevole cultura costituzionale.
Sono tutte tematiche sacrosante, ma per il momento poco producenti nella battaglia politica in corso. Hanno la veste di posizioni filosofiche più che di strumenti politici utilizzabili nel confronto. Confermano l'elettore del centrosinistra di essere nel giusto, convincono i già convinti, ma almeno nel breve periodo non allargano l'area del consenso. Mentre dovrebbe essere chiaro che, se non vuole restare politicamente subalterno (cioè "minoranza strutturale", secondo la definizione di Massimo D'Alema), nelle prossime stagioni il problema centrale del Pd consisterà non tanto nel confermare i propri elettori, bensì nel tentare di staccare pezzi di elettorato dall'area berlusconiana.
A questo scopo, il centrosinistra deve riuscire a spiegare, prima a se stesso e poi all'opinione pubblica, che il riformismo è sì politica delle compatibilità, ma che ciò non esclude affatto un principio di radicalità. Perché la radicalità è uno strumento che serve a perseguire due obiettivi: a individuare con nettezza i problemi, e a suscitare identità.
Vero è che occorre intendersi su quali ambiti convenga essere radicali. Cioè i punti su cui esercitare una pressione politica efficace. Al di là dall'incertezza generale suscitata dalla recessione, sarà il caso di vedere con chiarezza che Pdl è all'attacco sul terreno socio-economico, ha in mente una politica chiara, tesa a corporare gli interessi in un blocco sociale permanente. L'eclettismo berlusconiano sui principi di fondo e sui "valori" consente alla destra di assumere le posizioni di volta in volta più convenienti, specialmente nel rapporto con la Chiesa; ma sugli interessi non si scherza mai. Il Pdl avrà pure commesso errori strategici (in particolare predisponendo misure economiche depressive, cioè i tagli, in una fase di crescita zero), ma ha chiarissimo l'obiettivo unilaterale di favorire i ceti a cui può offrire una conveniente casa comune.
Ebbene, in una situazione simile il Pd non può permettersi il lusso di disputare una partita diseguale, ossia di rispondere a una politica economica aggressiva con una serie di rivendicazioni intellettuali, civili, filosofiche. È vero che il codice della lealtà repubblicana e di una modernizzazione guidata da criteri di apertura culturale sono essenziali per stabilire una differenza qualitativa rispetto alla destra: una laicità radicale è un elemento essenziale di identità politica rispetto al clericalismo opportunista di Berlusconi; così come un'idea avanzata ed europea della riforma della scuola è necessaria per rispondere in modo radicale (e nello stesso tempo con buonsenso) alla striminzita restaurazione della Gelmini.
Ma in questo momento ci vuole innanzitutto uno strenuo esercizio di radicalità per mettere allo scoperto i pilastri della politica del Pdl. Il "populismo" della sinistra riformista dovrebbe essere la leva per concentrarsi sulle contraddizioni della coalizione di centrodestra, per richiamare su di esse l'attenzione dei cittadini e per provare a sgretolarle. Altrimenti la politica italiana resta divisa in due corpi separati, ognuno dei quali gioca la sua partita indipendente: solo che la destra si fa gli affari, la sinistra nutre buoni sentimenti con il rischio, alla fine, di vederli trasformati in frustrazione permanente.
E invece no: per uscire dal cerchio del consenso magico del Re Silvio, dalla stregoneria comunicativa indipendente dagli eventi reali, occorre anche quel tanto di realistica asprezza che induce a parlare di cose elementari. Quindici milioni di italiani intorno alla linea della povertà. I negozi di quartiere deserti. I salari falcidiati dall'inflazione, che invece favorisce chi può ancora manovrare i prezzi. Il lavoro dipendente sacrificato alle necessità della concorrenza globale; e nello stesso tempo settori commerciali già in crisi per la flessione dei consumi determinata dall'erosione dei redditi medi.
Insomma, è il caso di tornare a mettere il dito su fenomeni a loro modo brutali. E per farlo ci vuole la schietta radicalità implicita nel parlare di cose vere, cioè di soldi, di redditi, di bilanci famigliari, di profitti, di problemi reali dell'economia. Per la sinistra riformista, la sfera degli interessi è stata in passato confinata in fantasmi contabili come il Pil, il debito, il deficit, l'avanzo primario. In seguito si è praticato un tentativo quasi eroico di reinterpretare da sinistra le categorie liberali del merito e della concorrenza, come strumenti per scardinare la disuguaglianza sociale.
Adesso occorre essere convincenti in profondità: non è sufficiente il cervello, la razionalità, la linearità dell'analisi. Ci vogliono anche il sangue, i polmoni, il cuore. Quel tanto di cattiveria che consente di parlare alla pancia della nostra società e di attaccare la destra sul suo stesso terreno e con realistiche possibilità di successo. (Benissimo la moral suasion su Guglielmo Epifani, ma non si dovrebbe dimenticare che la migliore critica all'operazione Alitalia è venuta dal radicalismo televisivo di Milena Gabanelli, non dal governo ombra).
Il Circo Massimo serve a ricordare che è venuto il momento di mettere il naso nella concretezza. Di tentare con adeguata forza polemica di dissolvere i fumi berlusconiani del consenso gratuito. Il populismo possibile della sinistra significa che occorre guardare alla realtà vera del nostro paese, alla sua vita quotidiana. Nonostante la prevalenza del virtuale, la politica è ancora scontro di posizioni, delimitazione fra scelte incompatibili, contrapposizione di soluzioni apertamente alternative. In questo senso, il populismo, interpretato con intelligenza da sinistra, non è un ibrido incoerente: è semplicemente lo strumento per dare una voce a un'Italia che fino a oggi ha rischiato di restare attonita e muta.
(25 ottobre 2008)
www.repubblica.it