A cavallo di Ferragosto, il dibattito sul Pd, complice forse la breve pausa dalla frenetica e a volte vacua attività politica ordinaria, si è positivamente ravvivato. Sono intervenuti con riflessioni più o meno estese e approfondite prima Pierluigi Castagnetti, poi Francesco Boccia e infine Beppe Fioroni. Tre dirigenti politici protagonisti di primo piano nel Pd, distanti per biografia ma accomunati da percorsi politici sul fertile terreno del cattolicesimo democratico. Le riflessioni hanno spessore e qualità decisamente diverse ma convergono su un punto di primaria rilevanza politica: le difficoltà del Pd derivano dalla continuità della storia del Pci nel partito nato nel 2007. Il più esplicito è Castagnetti: "E così la sinistra storica cammin facendo si è convinta che il Pd potesse essere l'ultima forma della sequela di forme-partito realizzate nel corso di un secolo, sempre evitando il trauma di Bad Godesberg, e le altre tradizioni, a partire da quella cattolico-democratica, si sono trovate nelle condizioni numeriche e politiche di dover 'abbozzare' cercando di salvare per quanto possibile, dignità e identità. Le nostre difficoltà sono tutte qui". Boccia richiama la "La new left" e scrive che: "Il Pd, oggi, appare, sempre più spesso, un sinonimo di partito conservatore. ... Questa sindrome conservatrice, in realtà, è un abile escamotage per tuffarsi nella svolta a sinistra, nel ritorno al com'eravamo, soffocando ogni sussulto riformista e consentendo la sopravvivenza di una classe dirigente che oggi, diciamoci la verità, non serve più." Fioroni vede nel Pd una "battaglia tra vetero-socialdemocratici e neo-laburisti" senza "alcuna favorevole prospettiva di rinnovamento".
L'analisi dei tre amici mi ha sorpreso. Forse, è una reazione scontata da parte di chi viene dalla storia incriminata. Tuttavia, confesso che faccio fatica a considerare l'analisi fondata. Chiedo aiuto a capire. La discussione in termini generici e astratti è poco comprensibile.
Quali sono state le posizioni assunte durante la segreteria Bersani che hanno riproposto la continuità comunista, la conservazione, la vetero-socialdemocrazia? Quali spinte di innovazione progressiva sono state, invece, soffocate nella culla durante gli ultimi quattro anni? È stata colpa della classe dirigente di matrice comunista l'assenza nel dibattito del Pd di qualunque riferimento alla critica radicale delle degenerazioni del capitalismo presente nelle riflessioni di Ratzingher, in tanti documenti ufficiali della Chiesa di Roma e, da ultimo, nelle commoventi parole di Papa Francesco? Quando, nel Pd, nella lettura della fase in corso, siamo riusciti a discutere della "crisi antropologica" coraggiosamente affrontata a Rimini in questi giorni al Meeting di Comunione e Liberazione?
Insisto, come continuo a fare dai tempi del mitico Lingotto: la divisione tra di noi non è tra chi tenta di resistere e chi vuole cambiare, ma tra idee diverse di cambiamento, frutto di paradigmi alternativi. Da un lato, il cambiamento progressivo, declinato secondo un'autonoma lettura della fase nella quale tanti filoni delle sinistre europee, la presidenza Obama e i partiti democratici e laburisti dei Brics sono impegnati. Dall'altro, il cambiamento subalterno al paradigma liberista, ancora dominante senza essere più egemone. Siamo nello stesso partito perché tutti riconosciamo il primato del merito, tutti vogliamo promuovere lo sviluppo sostenibile, tutti vogliamo affermare classi dirigenti di qualità, tutti intendiamo valorizzare la sussidiarietà orizzontale e verticale, tutti riconosciamo la pluralità dei soggetti della politica e i limiti della forma-partito, tutti vogliamo più Europa, tutti abbiamo capito da tempo che il fordismo e le connesse formazioni sociali, mai prevalenti nell'Italia della micro-impresa familiare, sono estinti da tempo. Ma qui e ora può bastare a rivitalizzare le democrazie delle classi medie in un'Europa e in un occidente ridimensionato sul piano demografico, economico e politico?
È preoccupante il tentativo di costruire leadership politica sulla base di simili banalità presentate come frontiera dell'innovazione in quanto contrapposte al presunto statalismo, dirigismo, egualitarismo, operaismo, laicismo, parlamentarismo, settarismo degli eredi della storia del comunismo italiano. Cosa abbiamo fatto sul terreno economico e sociale durante la segreteria Bersani? In questi anni, abbiamo provato a rimettere al centro dell'agenda politica la persona che lavora. Abbiamo provato, grazie all'apporto della dottrina sociale della Chiesa e alla "Caritas in veritate" e alla spinta preziosa di Emilio Gabaglio, Franco Marini, Francesco Totaro, Pierre Carniti, a ri-declinare il rapporto tra persona e lavoro. Abbiamo riconosciuto, quindi, l'astrattezza e la negazione dell'irriducibile individualità della persona che lavora nelle categorie economiciste di classe sociale, operaio-massa e consumatore-massa. Abbiamo proposto un "neo-umanesimo laburista" per cercare il filo comune alle diverse condizioni di lavoro, oltre la presunta "garantita" roccaforte del lavoro dipendente pubblico e della grande impresa privata. Abbiamo combattuto per affermare la questione lavoro come questione macro-economica contro chi ripeteva il mantra del giuslavorismo liberista per promuovere l'occupazione. Abbiamo invocato politiche industriali e le potenzialità dell'impresa pubblica verso chi insisteva che il mercato sa fare da solo e ogni interferenze è peccato mortale. Abbiamo esplicitato la presenza di "evasione di sopravvivenza" e trovato "connessione sentimentale" con ampi settori di lavoro autonomo, piccola impresa, professioni e lavoro dipendente marginale e precario o disperatamente fuori dai giochi. Certo, non abbiamo rinunciato a riconoscere le divergenze di interessi e denunciare le drammatiche asimmetrie di potere nella dimensione della produzione tra chi organizza il lavoro e chi presta lavoro, come fonti delle enormi disuguaglianze di reddito, ricchezza, poteri e diritti oggi così evidenti. Abbiamo anche avuto l'incoscienza di ricordare che, in una democrazia, il conflitto tra interessi diversi può essere un mezzo per arrivare alla cooperazione e al patto sociale. Abbiamo ripreso la riflessione di Bersani sull'intreccio tra "questione sociale e questione democratica" e sottolineato più volte come la fase in corso sia una una "grande transizione", segnata dallo spostamento dell'asse geo-economico e geo-politico del pianeta, dallo svuotamento delle democrazie nazionali e dall'insostenibile squilibrio nei rapporti tra capitale e lavoro, piuttosto che una crisi generata dal "socialismo della spesa pubblica". Abbiamo, pertanto, più volte rimarcato che oggi siamo fuori, oltre, la funzione storicamente svolta dalla socialdemocrazia, ossia la redistribuzione del reddito e delle opportunità in un assetto capitalistico equilibrato e, pertanto, funzionante. Abbiamo indicato, invece, la funzione generale da svolgere in una fase costituente a livello globale e specificamente europeo per ridefinire i connotati di economie capitalistiche sostenibili. Abbiamo denunciato, prima che il Fondo Monetario Internazionale facesse un'eterodossa auto-critica, l'insostenibilità della rotta di svalutazione del lavoro e di austerità auto-distruttiva dominante nell'euro-zona. Abbiamo quindi indicato, prima che lo sancissero gli elettori e divenisse senso comune, i limiti dell' "Agenda Monti" e l'inaccettabile pretesa culturale prima che politica del "governo tecnico" di camuffare come interesse generale un'agenda espressione di cieco corporativismo degli interessi economici più forti.
Lo abbiamo fatto nel silenzio o nella manifesta ostilità dei maestri di riformismo, gli stessi che proponevano, fino a poche settimane prima del voto di Febbraio, l'Agenda Monti come agenda del Pd e oggi propongono come frontiera del riformismo la solita minestra riscaldata.
Oggi, nel dibattito congressuale, si rovesciano i dati di realtà. Si usano i deludenti risultati raggiunti alle elezioni di Febbraio e quelli trionfali attesi per raccontare una storia semplice. Il Pd guidato dagli eredi del Pci perde. Il Pd nelle mani liberal della meglio gioventù di ascendenza cattolico democratica vince. Finalmente, esultano le gazzette dei salotti buoni, competono Matteo Renzi e Enrico Letta, due figure liberal, per la leadership del Pd e si sospinge per sempre ai margini la zavorra ex-comunista. È proprio così semplice? Il Pd ha mancato l'obiettivo a Febbraio scorso, certo per tanti errori di guida, ma in primo luogo perché è andato contro-corrente, ha chiamato a contribuire anche i più forti, in un'Unione europea dominata dalle forze conservatrici. Purtroppo, lo ha fatto tra mille incertezze e contraddizioni. Il Pd ha provato, senza riuscirvi, a proporre un paradigma frutto di una autonoma elaborazione culturale, alternativo al "retoricume neo-liberista" (come lo chiamava Federico Caffè), ma è stato zavorrato dal sostegno subalterno al Governo Monti, dalle contraddizioni nella sua classe dirigente e da una reazione furiosa degli interessi forti illusi di potersi salvare lungo la battuta strada corporativa.
Davanti a noi, i trionfi attesi dalla leadership di Matteo Renzi sono indicatori di idee coraggiose e adeguate alle sfide storiche da affrontare? Attenzione. Senza dubbio, la politica non è il regno di De Coubertin: l'importante non è partecipare. Ma vincere è condizione necessaria. Non sufficiente. Come si può disconoscere che tra i principali fattori di successo di pubblico e di critica del sindaco di Firenze vi sia l'abile navigazione al vento impetuoso dell'anti-politica, orientata a colpire i residui presídi di autonomia culturale nel Pd e un programma favorevole agli interessi più forti espressi dai principali media?
Allora cerchiamo di essere all'altezza del passaggio storico d fronte a noi. Come scrivono gli amici citati, il Pd deve ancora costruirsi un'identità e una classe dirigente adeguata alle sfide dell'Italia e dell'Unione europea. La costruzione, piaccia o no ai candidati in campo, si realizza, innanzitutto e soprattutto, nell'azione di governo. Il Governo Letta è una straordinaria opportunità per il Pd perché, per la prima volta dalla nostra nascita, siamo direttamente al timone del Paese, in un mare in tempesta, fuori dalla comoda, ma perdente, rendita di posizione del anti-berlusconismo, purtroppo nelle ultime settimane rianimata dalle irricevibili pretese del PdL di leggi ad personam.
Per fare un congresso utile cerchiamo ancora, insieme. Chi in questi anni è rimasto a rimorchio delle mode ideologiche oramai spompate e ripropone terze vie senza uscita eviti di dare lezioni a chi, pur tra limiti e errori, ha mosso qualche passo verso il cambiamento progressivo.
Da Facebook